Arturo Vidal contro Radja Nainggolan, è bastata la prima volta. Questo articolo non sarà un prodotto di conoscenza calcistica, ma semplicemente un vissuto. Che vissuto, appunto, con l’occhio giusto, ha il suo perché solo a posteriori. Certe cose non si misurano durante, si vivono e quindi restano dentro. Questo pezzo, quindi, è puro relativismo calcistico prodotto in circostanze specifiche, cioè dopo l’Inter-Roma che mette il belga definitivamente tra gli imprescindibili della storia recente della Serie A.
Di individui qui parleremo. Di squadre soltanto per spiegare contesti, e non trofei in attesa dei verdetti 2017. E tutto nasce dal punto di riferimento agonistico, iconico, dirompente dei cicli appena precedenti. Dunque Vidal, giocatore di conquista, appariscente quanto concreto, temuto quanto tecnico e muscolare, infine idolo. Idolo tra gli idoli, ed eccolo il contesto: Vidal non ebbe bisogno, e anzi forse soffrì la marginalizzazione da trequartista nel finire della sua missione alla Juventus. Nainggolan invece svolta lì, meno duttile ma così tagliente, dal fare esuberante (campo, sono righe di campo) quanto accessoriato per un’attitudine da bad-boy che da sempre cattura i cuori degli sportivi.
Vidal c’entra, bara rileggere le due righe qui sopra, ed è anzi il parametro per definizione. Successe che ebbe un impatto fuori dalle righe per chi arriva da fuori in bianconero, il luogo più soffocante che ci sia per chi ha l’indole di esagerare; ma successe anche che poté “limitarsi” a tassello, a ingranaggio di una nuova e insperata perfezione, a vertice di un triangolo dove ognuno doveva esprimere il proprio picco. Non era al centro delle sorti di una squadra. E Nainggolan invece lo è. Come si fa in provincia.
E quindi tornare al gennaio 2012, unica data che mi sono permesso di andare a ricercare per dare un punto fermo a questa storia, dove il righello del tuttocampista (che sa fare tutto, ma nel suo caso che sa anche stare dappertutto) è un cileno che passava le sue prime ore a Torino a ridere come un ebete con un paraguaiano di nome Estigarribia. Vidal, lui, si trasformava. Questo lo rendeva (e lo rende ancora, in fondo) mostro. Nainggolan è questo, cresciuto naturalmente da quel 1-1 allo Juventus Stadium, primo vero calciatore ad accettare un duello a viso aperto, traccia su traccia, con il nostro (anch’egli ancora non al massimo della maturità, ma certo in un momento di forma e autostima non male). Terminò pari. Ai punti Vidal, fosse stata per l’oro olimpico dei pesi welter. E mi tornò in mente quando avevo saputo, poche settimane prima, che Marotta chiedeva silenzio sul suo conto ai pochi giornalisti confidenti. Un anno di differenza tra i due, erede designato per chi faceva mercato anche solo due estati dopo, quando già si affrontava un Bayern a cui non era proprio andata giù. Arrivò poi l’estate dello United, Vidal non si mosse e per Nainggolan si impiccò (giustamente) Sabatini.
Insomma, oggi il belga è il migliore della A come termometro nel rapporto tra il proprio umore e l’umore (e risultato) della propria squadra. Noi ne abbiamo lasciato andare qualcuno, ma di Vidal resta l’esperienza visiva, mai cosi fisica anche dagli spalti, emotiva ed empatica. Ecco, Radja non è per nulla empatico, calcisticamente, meno completo ma anche lui distruttivo. Entrambi sanno cogliere i momenti chiave, o almeno si vede che ci provano. Il resto, come quasi sempre nel calcio moderno, lo fa il prodotto non individuale. Su questo confronto che non è un confronto ma risponde, credo, a qualche domanda chiudo dicendo che il “metro Vidal” non mente quasi mai.
Siamo sempre nel soggettivo, nel relativo, nel ciò che ho visto e pensato sul momento: è lo stesso metro per cui gli juventini hanno fatto a lungo fatica nel catalogare un giocatore di enorme dimensione come Khedira (aggrappandosi alla questioni infortuni), poi a Khedira si è chiesto di essere Khedira come mansioni in campo e il paragone non sussiste più. Il tedesco non ha più nulla da farsi perdonare, non è un tuttocampista, è uno specialista, in più con il corpo non comunica. Non è complementare a Vidal, ma avrebbero tranquillamente coesistito. È lo stesso metro che con il Cile ci ha spiegato che Medel è un difensore, che con la Lazio ci aveva consegnato l’idea di un Hernanes inadeguato al motore dello Stadium (Petkovic ci puntò e su quel duello coast-to-coast e perse la partita in 12 minuti), che contro l’Udinese ci fece vedere un Asamoah fastidioso e tutto da scoprire (0-0, partita senza squilli al Friuli, con il solo Vidal che si dimenava contro un ghanese a uomo fece la sua figura senza però riuscire mai a tenere la palla tra i piedi); lo stesso metro per cui capimmo che in fondo Vidal poteva andare in difficoltà solo contro i diversi, tipo Willian in Juve-Shakhtar, unico a fargli totalmente girare la testa in quegli incredibili anni; il metro (a distanza, spannometrico se non altro perché c’è Conte) per cui Kantè è tanta roba ma con quelle gambette lì negli ultimi 30 metri dove vuoi andare; il metro che ci fece vedere CHI potesse essere l’unico a togliere quel disgraziato pallone a Evra, attaccandolo lateralmente e senza commettere fallo quando in teoria nessuno ne ha più.
Ovvero il metro Champions.
Dove sei uomo squadra se aiuti la squadra. Se ci metti del tuo e trascini gli altri. Se esci dallo schema mentale del mister nel momento in cui schemi non ce ne sono più (vero Guardiola? Quanto ringraziasti Rummenigge quella notte?).
Il metro che manca al Nainggolan calciatore.
Dell’uomo, in generale, me compreso, disse tutto Gandhi: “È il cuore che lo definisce, non il corpo”.
Luca Momblano.