Heysel, noi non dimentichiamo

Esattamente 32 anni fa la tragedia in occasione della Finale di Coppa dei Campioni
Non è possibile dimenticare l’Heysel.
Non lo è per nessuno juventino che quella sera, a Bruxelles oppure davanti alla televisione, ha assistito a una festa, l’attesa di una Finale di Coppa dei Campioni che, minuto dopo minuto, diventava tragedia.
Non lo è per le famiglie delle vittime che da 32 anni, esattamente come tutti noi, si chiedono il perché di tutta questa follia.
Non lo è nemmeno per chi quel giorno non era ancora nato, ma ha avuto modo di conoscere a pieno la storia di quella maledetta giornata. E quel + 39, impresso sulla Mole Antonelliana questa notte, è il simbolo di un ricordo indelebile.
Non è possibile dimenticare, nemmeno in una settimana come questa, che porterà la Juventus a una nuova, grande sfida, in Finale di Champions League contro il Real Madrid sabato prossimo. Una settimana che, proprio oggi, inizierà con una giornata nella quale i bianconeri saranno a disposizione dei media italiani ed europei, per parlare proprio dell’appuntamento di sabato.
Si racconteranno emozioni, attese, tensioni sportive: ma nella testa di tutti un pensiero, in un giorno come oggi, sarà sempre rivolto ai 39 tifosi che, dal 29 maggio 1985, non ci sono più, e ovviamente alle loro famiglie: esattamente come accade da 32 anni.

L’Heysel e la manutenzione della memoria

Deve essere un vizio maledettamente umano. Quello della propensione all’oblio. Una specie di basso istinto. Malsano, contagioso. Lo si può scegliere per autodifesa, come anestesia contro il dolore. O si può provare a imporlo, a se stessi e agli altri, per comodità, per superficialità. O per vigliaccheria. Heysel è una parola che schiocca come una frustata. Che evoca solo e soltanto quella notte, quella strage. E’ un termine ormai svuotato del suo originario valore. Heysel non è più uno stadio, così come Ustica non è più un’isola, né l’Italicus un treno.

In Belgio quello stadio prima lo hanno abbattuto, e poi lo hanno ricostruito, nel 1995. Cambiandogli nome: Stadio Re Baldovino. Come se bastasse quello, a cancellare la Storia. A cancellare quel che significa davvero Heysel.

Del vecchio Heysel resta oggi solo il cancello principale. Unico testimone di quella sciagurata notte del 29 Maggio 1985. Che io non posso, né voglio, dimenticare. Una notte cominciata dentro a una luce speciale. Un tramonto gialloarancione che sembrava il contraltare ideale di quelle bandiere bianconere infilate dentro a un sogno. Come gli ombrelloni ancora chiusi sulla spiaggia al mattino presto. Quando soffia un’aria piena di promesse. I cori dei tifosi bianconeri erano partiti un po’ in disordine, tanto erano emozionati. Come bambini. Ciascuno intento a coltivare il proprio senso di gioia e di stupore, con lo sguardo fisso sul verde del prato. Ciascuno a “cantare” un po’ per conto proprio. Poi pian piano i sentimenti si erano organizzati, e avevan trovato ritmo ed equilibrio.

E soprattutto un senso di comunione. Finalmente dentro a un unico canto. Fino a quel battere di mani serrato, ordinato. A scandire i cori. Le rime storiche. Gli slogan più cari. E io ero lì immobile, fermo a guardare e ad ascoltare. Silenzioso. Sull’onda di quella chimica speciale che si forma nell’aria e che assomiglia così tanto a un incantesimo. Poi quel batter di mani bruscamente interrotto. Poi le mani che ora indicavano “laggiù”. La prima carica degli inglesi. Mentre il canto spezzato diventava un urlo. E le bocche della curva Z, spalancate nella paura, respiratori d’emergenza.
Un click sull’interruttore e la più bella delle luci svanisce in un attimo. Gli spalti mutano in fronte di guerra. Il campo da gioco diventa via di fuga. E la curva Z un girone dell’inferno.

E noi lì smarriti, raggelati. Immobili. Con le pale degli elicotteri dentro al nostro sguardo attonito.

Vera giustizia, come noto, non fu mai fatta. Difficile individuare, accertare e provare tutte
le singole responsabilità nella follia del branco impazzito. E allora, ci resta la memoria.
La cui solidità non passa solo attraverso un monumento. O un anniversario. Occorre che divenga prima di tutto risorsa condivisa, consapevolezza, comprensione. Una specie di sentimento comune. Occorre che le istituzioni, le scuole, i media sostengano e preservino la memoria.

Memoria che sembra ancora oggi infastidire i principali responsabili di quella strage.
Tanto che nel 1990, in quello che era lo stadio Heysel, in occasione della partita tra il Malines e il Milan, al capitano rossonero Franco Baresi viene impedito di deporre una corona di fiori in prossimità del vecchio settore Z, al Milan viene impedito di portare il lutto al braccio, né si osserva un minuto di silenzio prima del match.

Episodi come questo accrescono il rischio che la memoria possa dunque sfilacciarsi, affievolirsi, perdersi. Col pericolo che resti alla fine solo quel nome, Heysel, senza dentro la storia di quel che accadde davvero quella notte. Senza il suo significato più profondo, il suo dolore tagliente, i suoi volti segnati. Heysel come una scatola vuota. Una volta si faceva un nodo al fazzoletto, per rammentarsi qualcosa di importante. Non c’era il bip di un telefonino, ma un semplice nodo di stoffa. La scrittrice americana Barbara Kingsolver sostiene che la memoria è una faccenda complicata, è imparentata con la verità ma non è la sua gemella.

A me piace pensare che si possa imbrigliare il destino di quella frase. Se non sovvertirlo. E che nel caso dell’Heysel la memoria possa divenire almeno sorella della verità. Che possa provare a far immaginare il dolore. Quel dolore di cui nessuno parla mai. E creare gli anticorpi contro qualunque manipolazione o strumentalizzazione. Tenere lontana la retorica e respingere l’ipocrisia. Non ci sarà qualcuno che lo farà per noi. Perchè la memoria è un lavoro. Una scelta. Necessita di manutenzione e amore. Un compito che spetta a tutti e a ciascuno. Fatelo, allora, quel nodo al fazzoletto. Che senza memoria, saremmo luci spente.

(tratto dal libro “Quella notte all’Heysel” – Sperling&Kupfer)

Heysel, 32 anni dopo – Il pallone di Andrea

Aveva 11 anni, Andrea. L’età in cui il calcio è ancora la musica della propria vita. L’età in cui il calcio è ancora la misura della propria gioia.Andava in quinta elementare, Andrea. L’ultimo anno di scuola dove ti senti bambino. Che poi con le medie si diventa grandi.

Ti cambiano i quaderni. Ti cambiano i sogni. Era tecnologico, Andrea. Sicuro al timone del suo computerino. Un Vic-20 che già gli andava stretto. Era ingegnoso, Andrea. Pile e intreccio di fili per costruire il suo campanello personale. Driiiin. Per entrare in camera sua, si prega di suonare. Quante volte Andrea avrà detto ai suoi genitori “scendo a giocare a pallone in cortile”. Che così si dice, da bambini, pallone. Il calcio è per i grandi. Quante volte avrà appoggiato il suo maglione per terra Andrea, a mo’ di palo, inventando una porta precaria, dentro a un pomeriggio di inizio primavera, che di fare i compiti oggi non se ne parla, oggi si gioca a pallone. D’inverno il campo immaginario è un garage. C’è una tettoia sporgente che ripara dalla pioggia. Ma è uno strazio, ogni volta che esce o entra una macchina bisogna fermarsi. La Fiat 500 blu per fortuna sfila via veloce. Poi cross dalla rampa e gol di sinistro, all’incrocio dei tubi della grondaia. Col primo sole invece si scappa a giocare sul prato vicino casa, vuoi mettere. Puoi tuffarti-buttarti-correre-urlare. E provare la rovesciata. Ed entrare in scivolata. Come i grandi. Via i jeans, sotto Andrea ha già i pantaloncini. I pantaloncini da calcio sono la biancheria intima dei bambini. Così niente macchie. E mamma non si arrabbia. Al massimo sbucciature rosso-verdi sulle ginocchia. Le stimmate del giocatore senza paura. Vorrai mica tornare a casa senza un graffio? Poi c’è la scuola calcio. Intitolata a un signore che in Sardegna è un mito più che altrove. Gigi Riva. Rombo di tuono. Rivarombodituono. Tanto che fin da piccoli a ogni temporale ti viene in mente lui, mica pensi alla pioggia. La scuola calcio dove impari a misurare l’istinto. Dove mettono ordine dentro al tuo entusiasmo. Dove cominci a sentirti un po’ più grande. Col pallone di cuoio e gli scarpini da calcio. Quelli veri. Che sul prato si gioca con le Superga e il Supertele. “Papà, se la Juve va in finale mi porti, mi porti? Andiamo a Bruxelles?” A casa Andrea aveva appena finito di aprire quei nuovi 10 pacchetti di figurine arrivati in regalo come una benedizione. Quest’anno è andata alla grande. Gliene mancano solo 2 per finire l’album dei “Calciatori” 1984/85. È la prima volta. Soltanto due! L’odore di un pacchetto di figurine che si apre è un soffio dolce sul viso. È una promessa. Ce l’ho, ce l’ho, ce l’ho, ce l’ho…. Per forza Andrea, ce le hai tutte, o quasi, ormai. Al nono pacchetto la sorte è benevola: … mi manca!!! Adesso ad Andrea ne manca solo una di figurina, per finire l’album. Soltanto una. Manco a farlo apposta proprio quella sera a Bordeaux la Juventus si qualifica per la finale. Per la finale di Coppa dei Campioni. La finale di calcio. Quello dei grandi. In Sardegna il sole è già possente, lo stempera il vento, che si infila dentro a una luce che profuma d’estate. Le onde che sbattono sul porto di Cagliari sbuffano iodio nell’aria e invogliano a correre. Correre dietro a un pallone magari, di cuoio o di plastica. Driin. Quando il papà dice ad Andrea che è riuscito nel miracolo di trovare due biglietti per la finale di Bruxelles e che ci andranno insieme, lui non sta più nella pelle. Gli sale dentro un’emozione profonda e sconosciuta. Juvenus-Liverpool, una delle partite più importanti della storia della Juventus, lui se la vedrà dal vivo, col suo papà. Andrea è già stato allo stadio, al Sant’Elia di Cagliari, ma stavolta sarà diverso. Sarà a Bruxelles. Sarà la finale di Coppa dei Campioni.
Dentro lo stadio che tutto il mondo quella sera guarderà.

Nemmeno 100 pacchetti di figurine, o 10 partite sul campo dei grandi gli farebbero lo stesso effetto. Nemmeno 10 gol all’incrocio dei tubi, e 10 rovesciate perfette, sul prato sotto casa. Andrea lo racconta ai suoi compagni di squadra, che andrà a Bruxelles. Che andrà a vedere la Juve. La finale. Lo racconta ai suoi compagni di quinta elementare, che andrà all’Heysel. Sorrisi, e pacche sulle spalle, da parte dei suoi amici dell’Istituto “Nostra Signora della Mercede”. E “beato te”. E “accidenti!”. E “posso venire con voi?”.

Andrea conta i giorni, come fosse dicembre aspettando Natale. E quando finalmente Natale arriva, a Bruxelles è quasi estate 
Il cielo è di un azzurro intenso, e la luce è fortissima. Mano nella mano con il suo papà, Andrea si mangia con gli occhi la stazione, il taxi, le strade. Conta le bandiere bianconere, legge le insegne dei negozi, esamina attentamente le marche delle auto. Chissà dove giocano a pallone, qui a Bruxelles, i bambini come me. Chissà se anche loro fanno i cross dalla rampa, o hanno dei campetti tutti per loro. Chissà se sanno chi è Gigi Riva, qui a Bruxelles.

Quando entra dentro lo stadio Andrea ha un groppo alla gola. Si riannoda il fazzoletto bianconero che ha al collo, nel timore di perderlo, e comincia a fissare lo stadio. Come fosse un giocattolo immenso. E i tifosi della Juventus, che dall’altra curva intonano già il loro “Juve-Juve” secco e deciso, gli regalano un primo sottile brivido. Andrea si sente già un po’ più grande, dentro a quello stadio, che gli sembra sterminato. E gli sale dentro un’emozione dolce. L’emozione di un bambino. Con l’emozione sale anche la fame. Il papà di Andrea sorride e tira fuori un sacchetto giallo, di cioccolatini bicolore. “Che qui sono buonissimi, sai Andrea? Facciamoceli bastare… ”.

La merenda di cioccolatini. La merenda giusta, per un pomeriggio così.Quando sente le urla a pochi metri da lui Andrea non capisce, pensa che sia qualche tifoso un po’ più vivace degli altri. E poi quello fondente ripieno è troppo buono.Poi le grida si fanno più forti e concitate, e intorno la gente comincia a guardare verso sinistra, era gridare “Gli inglesi, guarda, gli inglesi scavalcano!!!”.
Andrea cerca di guardare e di capire, allunga la testa, ma il suo metro e 46 non gli consente di avvistare là in fondo i reds che caricano a testa bassa. Un primo scossone sbalza via lui e suo papà dal posto dove si erano sistemati, in piedi come tutti gli altri.Giovanni allora gli stringe forte la mano, Andrea chiede “Papà che succede?”, mentre di colpo si ritrova abbracciato a suo padre. Ma non è un abbraccio come gli altri, stavolta è stretto e serrato come mai lo è stato prima. Giovanni ora cerca di scappare verso il lato destro. “Gli inglesi hanno invaso il nostro settore, dobbiamo scappare Andrea”. “Hanno ‘invaso’? E perché? Che gli abbiamo fatto papà?”. Non c’è tempo per rispondere, non c’è tempo per capire. Gli inglesi adesso caricano in massa, Andrea e suo papà vengono scaraventati addosso a chi sta già scappando, come loro. Il settore Z è diventato una centrifuga, e i rossi ora sono un’onda impazzita. Andrea adesso ha paura, getta in terra i cioccolatini e infila di nuovo la sua mano in quella di suo papà, che gli fa da scudo, gli dice di stare tranquillo, di resistere, che tra poco sarà tutto finito. Andrea in quel marasma cerca solo di respirare, di non pensare, di tenersi stretto al suo papà. La sua unica ciambella di salvataggio in quel mare impazzito.Per un attimo l’onda rallenta, la morsa si attenua. E allora si riprende fiato, ci si allarga un po’, si tira su la testa. Forse è finita. Hanno smesso. Giovanni accarezza Andrea, che accenna a un sorriso. Ma quelli sono furie. Sono belve impazzite. Caricano di nuovo. Ora urlano tutti. L’onda li sballotta, li trascina via, li risucchia. Andrea si stringe forte a suo papà. Rotolano in terra, poi si rialzano, poi di nuovo in terra. Giovanni non lo molla, Andrea cerca di rimanere in piedi, di prendere fiato, di

proteggersi dai calci di quelli che scappano. Ma a un certo punto non sente più urla, non prova più dolore, non ha più paura. Si stringe forte a suo papà. Si stringe forte a suo papà e basta.

Andrea Casula, 11 anni, e suo padre Giovanni, 44, sono due delle 39 vittime dell’Heysel.

Racconto tratto dal libro “Quella­­­­ notte all’Heysel” di Emilio Targia (Sperling&Kupfer)