Il caso Pecoraro, ovvero il dominio dell’assurdo

Pirandello. Kafka. Dürrenmatt. Dino Buzzati. Tiziano Sclavi… Spaesati, scorriamo mentalmente i nomi di grandi scrittori provando a immaginare se almeno uno di loro avrebbe mai potuto concepire una vicenda come quella che stanno attualmente vivendo la Juventus e, in particolare, il suo presidente Andrea Agnelli. Ma forse occorre evocare direttamente Beckett e Ionesco, i maestri del teatro dell’assurdo, perché appunto all’insegna del più completo assurdo è questa storia in cui tutto appare ribaltato e il diritto diventa rovescio, il vero si tramuta in falso e logica cede sistematicamente il passo alla bizzarria e all’arbitrio. E sì che il mondo juventino, dopo Calciopoli, dovrebbe essere ben avvezzo al non senso, alla giustizia che prende la forma del proprio opposto. E dovrebbe aver maturato una vera e propria familiarità con l’accanimento giudiziario, con il doppiopesismo, con le indagini svolte (a parole) per il bene dell’intero sport italiano ma in realtà a senso unico (bianconero), con i pretesti campati per aria (lo Stadium a rischio crollo, per dirne uno) adoperati al solo scopo di infangare e destabilizzare chi insiste a macchiarsi di una colpa gravissima, imperdonabile: l’eccesso di superiorità. Il mondo juventino ha ormai spalle piuttosto larghe, certamente. Tuttavia ciò a cui ora si sta assistendo è riuscito a portare ulteriormente in alto l’asticella del paradosso, a spostare ancor più in avanti i confini della stravaganza.

I fatti sono noti, ma conviene riassumerli. Venerdì scorso il procuratore federale Giuseppe Pecoraro, napoletano, grande tifoso del Napoli e frequentatore delle feste organizzate da Aurelio De Laurentiis (e fin qui poco male, siamo d’accordo), ha chiesto che Andrea Agnelli venga condannato dalla giustizia sportiva a due anni e mezzo di inibizione, pena alla quale il procuratore vorrebbe fossero aggiunti 300.000 euro di ammenda pecuniaria e due partite da giocare a porte chiuse per la Juventus (più una terza interdetta alla sola Curva Sud). Senza dimenticare i sei mesi di inibizione per l’ex capo del marketing Francesco Calvo, i due anni per il security manager Alessandro D’Angelo, l’anno e sei mesi per il responsabile del botteghino Stefano Merulla, tutti quanti multati di 10.000 euro. Questo perché Pecoraro – resosi responsabile di avere creato di sana pianta un’intercettazione telefonica inesistente in cui Agnelli si dimostrava consapevole dell’appartenenza di alcuni ultrà bianconeri alla ’ndrangheta e, ciò malgrado, non sollevato dal suo incarico in Figc – ha evidentemente in odio la Juventus e Andrea Agnelli. È così, non ci sono altri reali motivi dietro la sua richiesta, come appunto dimostra senza possibilità di dubbio l’essersi spinto a inventare un’intercettazione pur di incastrare il proprio obiettivo. Non ci sono altri reali motivi perché è stato già ampiamente provato che, nel relazionarsi al tifoso Rocco Dominello, Agnelli e il suo staff erano del tutto all’oscuro dei rapporti di costui con la malavita organizzata. Tant’è vero che nell’inchiesta Alto Piemonte portata avanti dalla giustizia ordinaria, quella da cui si originerà la successiva inchiesta sportiva, la Juventus non è mai stata indagata, venendo coinvolta (pur essendo stati intercettati telefonicamente e a livello ambientale diversi suoi dirigenti, a cominciare da Agnelli) unicamente in qualità di testimone. Lo sbaglio commesso dalla Juventus, e dai suoi avvocati subito riconosciuto, è stato soltanto quello di aver venduto biglietti in misura superiore ai quattro tagliandi per pacchetto, violando così l’articolo 12 del codice sportivo. Tutto il resto è invenzione, purissimo (e sgangherato) teorema.

Semmai, dunque, ciò su cui si può discutere e interrogarsi sono le ragioni di un’avversione feroce e preconcetta come quella dimostrata da Pecoraro nei confronti della Juve. C’è chi la spiega con la vicinanza dello stesso Pecoraro a De Laurentiis e soprattutto al patron laziale Lotito, acerrimo avversario di Agnelli praticamente su tutti i fronti della scena calcistica. Può anche darsi che sia così, ma al riguardo non ci sono certezze e comunque non si tratterebbe di una motivazione necessaria. Prima di questa, e più importante di questa, ce n’è un’altra: l’irrazionale risentimento sportivo. Siccome, è bene ribadirlo, ci muoviamo nel dominio dell’assurdo, basta e avanza l’acredine del tifoso avvelenato dal livore, quel genere di sentimento che tanto ha contato, a tutti i livelli, pure in Calciopoli. Quell’astio, così diffuso anche tra i media, che fa sì che appaia normale che le indagini svolte per risolvere i problemi, veri o presunti, del calcio italiano si appuntino sempre e solo su un unico soggetto, preferibilmente utilizzato come capro espiatorio: la Juventus. Eppure, ci si consenta almeno un riferimento alla squadra del cuore di Pecoraro, è risaputo come sia in corso da tempo uno scontro tra clan camorristici per il controllo dello spaccio della droga tra gli spalti del San Paolo. Ed è noto che il boss Antonio Lo Russo, poi arrestato, sia stato fotografato anni fa a bordo campo, durante una partita del Napoli, proprio all’interno dello stadio partenopeo. Evidentemente, buon per il Napoli, non sono elementi ritenuti sufficienti per condurre la squadra azzurra sul banco degli imputati, a differenza della Juventus.

L’Italia è anche questo, un luogo in cui il transfert calcistico è così forte da farne, per chi può, l’occasione per dare sfogo alle più buie inclinazioni, senza escludere il sopruso su singole persone ritenute, in una forma di delirio, la causa della propria frustrazione. L’imminente sentenza sportiva sulla Juventus e Andrea Agnelli ci dirà se da noi c’è ancora spazio per la verità e la ragione o se quello di giustizia va ormai considerato un concetto del tutto relativo, sottomesso agli umori e alle antipatie di procuratori e magistrati disposti perfino ad alterare delle intercettazioni (inventandole come Pecoraro o nascondendole – se scomode – come il pm di Calciopoli Narducci) anche sulla base delle proprie idiosincrasie di tifosi di calcio. Il recente passato, purtroppo, suggerisce un certo pessimismo.

di Giuseppe Pollicelli