Non è riuscita alla Nazionale italiana la rimonta nel match di ritorno dei play-off contro la Svezia: dopo la sconfitta per 1-0 rimediata a Solna, gli Azzurri non sono andati oltre lo 0-0 nel match di ritorno a San Siro, senza riuscire a staccare il pass per il Mondiale di Russia 2018.
Titolari Gigi Buffon; Andrea Barzagli e Giorgio Chiellini, con Federico Bernardeschi subentrato nei minuti finali. Al triplice fischio, il nostro numero uno ha annunciato il proprio addio alla Nazionale, dopo un’incredibile carriera durata vent’anni, iniziata con l’esordio avvenuto nel lontano 23 ottobre 1997. Con lui, anche Andrea Barzagli ha dichiarato che quella contro la Svezia è stata l’ultima partita con la maglia della Nazionale.
Oggi si completa il quadro degli impegni amichevoli internazionali dei giocatori della Juventus, con l’Argentina di Paulo Dybala impegnata contro la Nigeria; la Colombia di Juan Cuadrado in casa della Cina; il Brasile di Alex Sandro e Douglas Costa contro l’Inghilterra; l’Uruguay di Rodrigo Bentancur contro l’Austria e la sfida tra la Francia di Blaise Matuidi e la Germania di Sami Khedira.
La solitudine del numero uno
Al momento in cui scrivo Gian Piero Ventura non ha ancora parlato. Dicono lo farà in conferenza stampa: probabilmente quando leggerete queste poche righe avrà già annunciato le sue dimissioni (cui dovrebbero seguire quelle di tutti i vertici del calcio italiano, ma Tomasi di Lampedusa aveva capito tutto con qualche anno d’anticipo). Intanto, però, chi ci ha messo la faccia, ancora una volta, nel peggior momento storico del pallone nostrano dal dopoguerra, è stato Gianluigi Buffon. CT in pectore? Forse (la reazione di De Rossi quando gli è stato chiesto di entrare potrebbe costituire un robusto indizio in tal senso). Troppo in là con gli anni? La carta d’identità quella è. Non più in grado di fare la differenza come un tempo? Father Time non risparmia nessuno, nemmeno i semidei. Eppure la dignità è qualcosa che non sfiorisce nemmeno di fronte all’incedere del tempo che passa. La dignità è quella che ti permette, a 40 anni, con tre finali di Champions perse, con le lacrime di Milano che si sommano a quelle di Bordeaux (e a quelle di Berlino e a quelle di Cardiff), con una carriera inimitabile macchiata indelebilmente nel finale per colpe non tue (non del tutto, almeno), di presentarti davanti alle telecamere al termine di una partita del genere, mentre altri acchittano il democristianissimo discorso di commiato affinché tutto cambi perché nulla cambi.
Mi ha fatto male vederlo così, Buffon. Mi ha fatto male perché mi sono immedesimato in lui, perché ho sentito quel che provava lui (dolore vero, sincero, al netto delle responsabilità personali e di squadra all’interno di questo psicodramma in più atti), perché è venuto meno il mio proposito di accettare quel che già a Solna avevo intuito come inevitabile senza dargli un peso superiore all’effettivo merito. Non ce l’ho fatta. E mi scopro più amareggiato di quanto credessi e volessi, oltre che preoccupato per l’eventuale contraccolpo psicologico su uomini, prima ancora che calciatori, abituati sì a pesare vittorie e sconfitte, ma soprattutto umani. E quindi sensibili al mancato raggiungimento di un obiettivo dopo aver dato tutto. Perché i Buffon, i Barzagli (che è stato richiamato de imperio dopo il ritiro annunciato nel 2016), i Chiellini (e, fino a qualche tempo fa, i Bonucci), con tutti i loro limiti, con tutte le critiche giuste che gli si possono muovere in relazione a determinate convinzioni, per la maglia della Nazionale non si sono risparmiati. Mai. Succede: è il calcio, è la vita e, forse, è giusto che questa volta sia andata come sia andata. Ma restare indifferenti al finale della storia di Gigi con l’azzurro no, non si può. Comunque la possiate pensare. Perché, intanto, lui ci ha messo la faccia, ancora una volta. Gli altri facciano pure con comodo.
p.s. Per quel che sarà poi il futuro del nostro calcio occorre aspettare e sperare. E programmare. Dumas non l’ha scritto ma l’avrebbe pensato fosse nato in Italia al tempo di questa Federazione. E non è certo con discorsi da una botta e via o con le sentenze improvvisate di una notte che si può pensare di ripartire sul serio.
EDIT: Ventura ha parlato alle 00.10. E no, non si è ancora dimesso. Sipario.
Claudio Pellecchia.
La FIGC, la Lega e la mucca del vicino
Ronald Reagan durante il suo mandato presidenziale collezionava barzellette sull’Unione Sovietica. In una di queste, un americano un inglese e un russo sono chiamati al cospetto di Dio e invitati a esprimere un desiderio; l’americano chiede la fine della fame nel mondo, l’inglese la fine delle guerre; il russo dice: “Il mio vicino ha una mucca. Io non ho una mucca. Vorrei che la mucca del mio vicino morisse”.
Dal 2006 a oggi il desiderio del mugiko ha rappresentato la filosofia e la costante ispirazione della Federazione italiana gioco calcio e della Lega di serie A, dedite l’una a far morire le mucche del vicino ricco (non senza avere trasferito d’ufficio le più lattose in qualche fattoria limitrofa) e l’altra a preservare allo stremo una mucca sempre meno produttiva e sempre più macilenta piuttosto che a far crescere, se non altro, qualche vitellino. Il tutto, certo, in un quadro complicato, di crisi economica e sociale – ma non si era in crisi economica e sociale ai tempi del Messico, dell’Argentina, della Spagna?
Non sono mancate diagnosi penetranti, dall’esterno e dall’interno: le prime (sporadiche, a dire il vero) sono state accolte con lazzi e sberleffi, le seconde hanno fruttato al diagnosta prima l’isolamento, poi un’accusa di mafiosità e da ultimo una inibizione.
Alle 22.42 del 13 novembre 2017 i nodi sono arrivati al pettine (se c’è un pettine, avrebbe detto Sciascia). Ci sarà, prima o poi, uno storiografo onesto (con la “o” minuscola) che sine ira ac studio tracci un bilancio veritiero sulla parabola del movimento calcistico italiano dopo la cosiddetta calciopoli, parabola ieri arrivata al suo culmine, anzi al suo fondo? Qualcuno ammetterà che si stava meglio quando si stava meglio? Si vorrà almeno convergere sulla diagnosi prima di scegliere le terapie?
A proposito, un governo (deliberatamente assente quando era in pieno fulgore) sarebbe dovuto intervenire a commissariare e rifondare una delle industrie portanti del paese, lasciando invece campo libero a uno sciagurato autogoverno di manigoldi, ora che è moribondo ma intento ad avvelenare tutti i pozzi per i successori, ha finalmente partorito una proposta che si riduce a penalizzare pesantemente l’unico club che abbia raggiunto una levatura internazionale e abbia dettato un possibile schema di uscita dalle sabbie mobili nella spartizione di una torta, peraltro, sempre meno farcita.
L’eguale distribuzione della miseria: l’essenza del sovietismo, in occasione del suo centenario (e di quello di Caporetto). Il che ci riporta al mugiko della barzelletta.
Massimiliano Mingioni.