Davide come Patroclo, noi come bambini

La vita scorre placida e silenziosa, è tersa, ora felice ora dolorosa. Mai la sentiamo fugace se non quando la morte si fa visibile, quando taglia come una scure, e solo allora la vita assume di colpo un nuovo significato.

Ieri, dopo la notizia della scomparsa di Davide Astori a soli 31 anni, per milioni di sportivi italiani la morte è tornata a essere un’esperienza umana chiarificata.

Il tempo, di colpo, da invisibile e astratto è diventato una linea retta con un principio e una fine, la linea d’orizzonte o il margine del precipizio, alla cui minaccia di vuoto chi scruta può reagire in mille modi possibili: l’atonia, la partecipazione emotiva, lo sgomento, la paura, la paralisi, il cordoglio.

Giusto fermarsi, senza alcun dubbio.

Per i calciatori, i molti che di Astori erano stati e compagni di squadra al Cagliari, alla Roma e alla Fiorentina; per i campioni che lo avevano affrontato come difensore arcigno di ottimo senso della posizione e dai piedi delicati; e di certo per noi tifosi, juventini e di qualsiasi altra squadra, per cui il calcio in Italia è un’immensa saga quotidiana in grado di rinnovarsi allo stesso ritmo dell’esistenza e rappresentare con i suoi miti ed i suoi eroi il movimento di ciascun individuo in armonia o in opposizione con gli stati d’animo del quotidiano e l’imprevedibilità degli ostacoli esterni. Fermandosi, il calcio ha messo l’anima dell’uomo davanti allo show animato. La scelta perfetta.

Impossibile non ripensare a Scirea, l’evento tragico per me legato alla scoperta che nemmeno gli eroi del calcio erano immortali. Il calcio, quando si è bambini, è la perfetta metafora della lotta tra il proprio io in potenza e il groviglio di tutte le altre cose del mondo, e per me è stato l’altrove vivo in grado di iniziarmi a tutti gli assoluti dell’esistenza. Vittoria, sconfitta, successo, coercizione, fallimento, amore, morte.

È facile che molti giovanissimi innamorati del calcio ieri abbiano vissuto almeno un’identica scoperta.

Ma proprio perché il calcio è un grande universo mitico il cui paesaggio risulta sempre irreale e pieno, da oggi la saga deve continuare.

Il mito s’innalza sulle vicende umane e le simboleggia, e dal mito l’uomo viene sempre travolto, affascinato, soggiogato. Nell’Iliade, Patroclo soccombe giovanissimo al destino invincibile, “una vertigine gli tolse la mente, le membra belle si sciolsero”, una lancia lo colpisce al cuore. Ma proprio nel suo ricordo Achille torna a combattere, con più furore e più anima. Riprendere a giocare, a raccontare il calcio e la sua saga centenaria diventa fondamentale come bilanciamento della morte.

E dire dei morti come se fossero / ancora dei vivi, come è necessario / sorridere quando si è in compagnia, scrive Mario Benedetti, uno dei più grandi poeti italiani contemporanei.

È questo il senso del calcio, della vita.

Giancarlo Liviano