Fate come noi, che abbiamo perso (e pure nettamente)

Per noi vincere è il primo obiettivo. Quando perdiamo siamo delusi, a volte – come oggi – persino affranti. Soffriamo anche le sconfitte in Supercoppa quando siamo ancora al mare, ci scopriamo rabbiosi per un pareggio a Ferrara dopo mille vittorie, come se si potesse vincere per sempre. Partecipiamo per vincere, dove sappiamo di potercela fare e anche dove sappiamo che servirebbe più di un miracolo, e solo per questo siamo arrivati due volte in finale in anni in cui per la logica sarebbe stato impensabile.

Ci frega poco degli “a testa alta”, “a testa bassa”, dei “se fosse entrata quella palla, se lì avesse fischiato, se non avessimo preso un gol all’inizio”, delle piccole consolazioni che altrove vanno da sempre così di moda.

È sport professionistico, l’unico obiettivo è vincere, se non ci si riesce è una delusione e bisogna assolutamente migliorarci per l’anno dopo.

Il nostro motto, la nostra storia, dice questo. Nulla di malvagio, nessun “a ogni costo, con ogni mezzo” come viene interpretato nel nostro solito tragicomico contesto.

Nulla, soprattutto, in contraddizione con gli applausi agli avversari che ci superano. Che ci segnano subito, sanno subire e aspettare per poi punirci ancora, proprio come facciamo noi con le nostre “rivali” nel nostro campionato. O ci prendono a schiaffi per tutto un tempo, a Cardiff. O fanno uno dei più gol più belli che ci sia capitato di vedere, e allora rabbia subito sepolta da applausi a volontà, spontanei, con facce allo stesso tempo deluse, incredule e ammirate, un misto stranissimo che non stona minimamente con chi siamo e siamo sempre stati.

Perché chi sa quanto sia duro e faticoso vincere, rivincere e rivincere ancora apprezza ancor di più chi ha conquistato mille coppe e duemila palloni d’oro ma il giorno dopo si allena meglio di prima e ha la fame di un esordiente.

Vincere è l’unico obiettivo, non c’è dubbio, ce ne accorgiamo per il male che proviamo ancora oggi.

Ma se non ci si riesce, che si reagisca sempre nel migliore dei modi. Riconoscendo sempre, intanto, i meriti dell’avversario, che sia il super Real o una mini Spal che ti chiude ogni spazio. Non cercando alibi. Pensando, dal giorno successivo, alla prossima partita, alla prossima stagione.

Lo sport, al contrario di quanto viene raccontato da certi commentatori frustrati da troppi anni di dominio, per i quali i più sportivi e meritevoli sono sempre quelli che delegittimano i vincitori e ne sminuiscono ogni merito, è esattamente questo: provare a vincere sempre e comunque, come unico obiettivo di ogni competizione.

Non delegittimare mai chi è stato più bravo di te.

A volte, quando ti viene spontaneo, nel momento più duro per la tua squadra, applaudirlo anche se lo detestavi fino a un minuto prima.

Non c’è contraddizione. Si chiama sport, sport professionistico. In cui convivono serenamente ambizione e rispetto. Ma voi, a guardarvi bene, avete poca dimestichezza con entrambi.

Il Maestro Massimo Zampini

Dove stiamo andando?

Ci ho dormito su una notte, e questa è già una notizia, perché se dopo aver preso tre pere a domicilio si riesce a dormire serenamente qualcosa significa. Vuol dire che ti sei scontrato contro un avversario troppo più forte e hai poco da rimproverarti.
Una riflessione però va fatta, ed è quella su “dove stiamo andando”. In due partite contro il Real, contro i campioni di tutto, ne abbiamo beccate sette, e dopo i quattro, dolorosissimi, di Cardiff, la rivincita di ieri sera ci dice che (al netto di tutti i “ci riproveremo l’anno prossimo” del post-gara in Galles) non ci siamo affatto avvicinati. Anzi, la sensazione di ieri sera è quella di un gap così ampio da farti passare la voglia di dire “e vabbè, l’importante è essere ogni anno lì e tentare di nuovo”. Perché sai già che, quando riaffronteremo mostri di questo tipo, dovrai sperare di nuovo nella “partita perfetta”.
Ecco la cosa che ieri sera mi ha dato più fastidio: sentir dire, da più protagonisti in bianconero (senatori, in primis), “contro avversari così devi fare la partita perfetta, non puoi sbagliare”. La logica non fa una grinza, ok, ma dà la misura di quanto siamo distanti. Sperare di essere perfetti in partite in cui incontri campioni che, prima o dopo, indovinano la giocata da applausi, e in un contesto che inevitabilmente genera tensione ed acido lattico, è come sperare di fare un volo transoceanico senza beccare neanche una turbolenza. Non capita mai, e se accade non si ripete nel volo di ritorno.
E allora una cosa, questa sconfitta senza storia, ce la dice. Bisogna costruire un’identità di cui esser forte, una scacchiera dotata di più pezzi in grado di mettere in difficoltà l’avversario coordinandosi tra loro, anche se in una partita non si sarà mai in grado di indovinare tutte le mosse. Sogno una Juve in grado di affrontare la prossima volta il Real, il Barca o il Bayern non con la speranza di essere perfetta e di un avversario in serata no, ma con la coscienza dei propri mezzi e la voglia di ribattere colpo su colpo.
C’è poco da inventare: serve un intervento pesante sul mercato di svecchiamento, qualità, esperienza internazionale. Serve una guida tecnica che imposti la Juve sulla Juve e non sulle debolezze dell’avversario (che, quando arrivi a questi livelli, sono meno dei difetti fisici di Belen). Non parlo di calcio offensivo versus difensivo, me ne guardo bene, non dico nemmeno che non possa essere l’allenatore attuale, che ci ha spesso anzi abituati a repentine virate impreviste. Dico che vorrei una Juve riconoscibile, autorevole, con l’autostima del Marchese del Grillo. Poi, probabilmente, usciremo di nuovo (che espressione inutile!) contro le potenze spagnole, ma ci sentiremo meno distanti, una grande opera in costruzione che può competere senza paura.

Giuseppe Gariffo.