C’è un corridoio nella zona centrale del campo, venti, trenta metri liberi, e Andrea Pirlo – ma non era lento, finito, bollito, logoro? – avanza a testa alta.
Non è Achille piè veloce ma ha buon ritmo, e sulle brevi distanze correre con la palla tra i piedi o senza per lui è uguale. È uno strappo il suo, improvviso, e il primo avversario in maglia gialla fa opposizione poco prima della lunetta d’area di rigore, tagliando verso il centro dalla trequarti destra. Pirlo ha la palla sul destro magico, finge di portarla sul sinistro per tirare, poi sterza, una finta surplace, improvvisa e di repertorio. Non è semplice agilità, è tutta testa, immaginazione. Prima che qualsiasi altro osservatore, in campo, a casa, o sugli spalti possa lontanamente intuirlo, il gelido visionario del prato verde ha già la sua rivelazione. Sa che alle sue spalle, dalla linea laterale destra, c’è un uomo che corre, perché quell’uomo non fa molto altro: corre sempre, soprattutto corre; prima dubbioso, attendista, poi a un tratto più forte, a una frequenza sempre maggiore, con le cosce dure e glabre che mulinano come un tornado.
L’uomo che corre sempre è Stephan Lichtsteiner. Ai campi verdi è abituato sin dall’infanzia vissuta sui prati di Adligenswil, villaggio appartenuto agli Asburgo, ed è asburgico in tutti i sensi Stephan, asburgico quando cerca l’area su precisi ordini, soldatesco e ligio agli schemi, dunque asburgico ancora una volta, quando presidia lo spazio.
Pirlo ha una visione periferica degna di un radar aerospaziale, e coi piedi di fata disegna una perfetta bisettrice, palombella e palla in area, dietro la linea difensiva avversaria e sul piede destro dell’uomo che corre dalle retrovie.
Stephan alza stende il piede destro in allungo. Lo protende in distensione. Non è uno stop lieve da fantasista, proprio no, ma il controllo gli riesce a seguire, e sull’estremo già in volo planare è un dribbling secco. Palla comoda, sul sinistro, solo da spingere in rete. Licht esegue e dall’alto è boato, l’arena esplode, poi si abbandona a una corsa selvaggia, adrenalinica, un destriero sul campo di battaglia. Un compagno, in inseguimento gioioso, lo placca e lo abbatte: è sempre Pirlo, in un attacco raro di riso e felicità non controllata, e col senno di poi, rivedendo tutto oggi, è chiaro che non è solo un gol quello che si festeggia.
C’è dell’altro. C’è una macchinazione in corso, lo schema provato nei giorni tesi prima dell’esordio, in allenamento (quando tutto riesce fin troppo facile) è stato letale anche in gara, e si tratta di un segno preciso.
C’è un presagio che si nasconde nella trama dell’evento che è appena avvenuto: qualcos’altro che pulsa in simultaneo con le esultanze in campo e le bandiere che sventolano, qualcos’altro che invisibile ed è in divenire.
Nessuno allora poteva immaginarlo, ma il big bang, l’attimo in cui nuova vita si crea, è appena avvenuto.
È appena nato un mito, la Juventus dei record, e il primo coito è quello di un insospettabile, uno dei quattro eptacampioni. La squadra invitta prende forma sulle fondamenta di quell’azione indimenticabile, il primo gol ufficiale bianconero segnato allo Juventus Stadium, e a gonfiare la rete è stato soldato Stephan.
Pirlo e Lichtsteiner sono due nuovi acquisti.
Il regista è stato abbandonato dal Milan, che lo percepisce a fine carriera, lo stantuffo è strappato alla Lazio per 10 milioni di euro, una cifra cospicua solo 7 anni fa, specie per un difensore. In biancoceleste lo svizzero ha fatto bene, tre stagioni piene, 100 presenze e 3 gol in campionato, non una tecnica da titolarità nel Brasile di Pelè, ma applicazione, polmoni poderosi, corsa lenta e falcata veloce, indietro e in avanti, in diagonale e all’impazzata, se serve recuperare. E poi un carattere indomito, gemellare, riottoso e tarantolato in campo quanto ligio e meticoloso fuori.
Chi lo ha voluto è tarantolato come lui, e il feeling è immediato. Antonio Conte capisce che Lichtsteiner è un fedelissimo, soldato incrollabile, e per di più si può indottrinare. È maturo, ma migliora. Il suo generale lo adora, e per tre stagioni lo svizzero è intoccabile. Arrivano anche i gol, non tantissimi, ma sempre molto simili. Se non è Pirlo ad accentrarsi, sterzare, vedere le sue gote rosa da Heidi in furibondo avvicinamento all’area piccola e servirlo (come a Bergamo sempre nel 2011-2012 in un gol fotocopia a quello del big bang), allora è Vucinic, un uomo sull’estrema sinistra che cambia gioco, oppure Pogba.
Ma la costante è il taglio di Licht, improvviso e al tempo stesso codificato, è una questione di fulmineità.
Le conclusioni non sono sempre irreprensibili ma efficaci, e poi gol a parte l’apporto di Lichtsteiner è multidisciplinare: attacco, difesa, dominio della fascia (quando non incontra, e succede di rado, gente più tecnica e veloce), un certo carisma irascibile votato alla protesta plateale che porta gialli in quantità e qualche rosso di tanto in tanto. Licht è quasi sempre più che positivo, incarna lo spirito Juventus (non solo il classico e ufficiale vincere è l’unica cosa che conta, ma soprattutto l’ufficioso lavoriamo come una squadra operaia, umili e in silenzio), sbaglia di rado.
La partita capolavoro nel triennio di Conte è la finale di Supercoppa Italiana del 18 agosto 2013, Juventus padrona all’Olimpo contro la Lazio, 4-0 roboante e subitaneo, e Licht contro la sua ex squadra regala due assist, uno sporco a Pogba e uno su una straordinaria ripartenza in verticale come non se vedono da un po’, fuga spazzaneve sulla fascia e passaggio facile di piattone addirittura a Chiellini esondato in un box to box memorabile. Poi addirittura un gol alla Weah, penetrazione centrale, uno-due con tanto di passaggio di ritorno in tacco no look, Licht dentro come lama nel burro fuso e tocco nell’angolino stile calcetto, quasi di fino, come avrebbe fatto al suo posto il più lezioso degli amateur di Copacabana.
Intanto, tra discese furibonde, recuperi, proteste, tanti assist e non pochi cross perfettamente centrati sull’opponente, ogni anno Lichtsteiner vince, e un po’ invecchia. Va via Conte e arriva Allegri e il ruolo di Stephan non cambia, 49 presenze stagionali, un double e la finale di Berlino dove pascola un po’ a vuoto sul gol di Rakitic e non gioca neanche un po’ alla Torricelli. L’anno dopo supera di slancio anche un problema di aritmia al cuore che lo coglie in una gara interna, pessima, col Frosinone. Un mese ed è di nuovo in campo, 32enne e senza troppi rivali. Isla sembra un passante trovato per caso sul lungo Po’ a fare footing, corsa e buona resistenza senza aver mai visto prima un pallone, e Caceres è più un gran bel jolly, terzino o centrale con indifferenza, ma ha caratteristiche troppo difensive per l’ormai calciobalillesco 3-5-2 che stenta a ingranare ancora. Licht torna titolare in Champions, a Mönchengladbach, e sembra d’improvviso Paul Breitner, segnando forse il più bel gol della sua carriera, nel solito stile. Salva una Juve in dieci uomini e sotto di un gol contro i volenterosi tedeschi: palombella di Pogba e diagonale al volo dell’incursore folle, che in ogni battaglia ce la mette tutta, quello è certo.
Cinque anni, cinque scudetti, due Coppe Italia, tre Supercoppe Italiane, una finale di Champions. Niente male per l’uomo del Big Bang. A 33 anni però, con migliaia di chilometri nelle cosce, gli piomba in trincea un avversario degno di lui: è Daniel Alves, brasileiro svincolato dal Barcellona, sostanzialmente il suo anticristo: tecnico e giocoliere, pluricampione planetario, lambadaro danzereccio, in apparenza anarchico quanto in realtà decisivo, anagraficamente più vecchio di un anno ma biologicamente più giovane, visti i ritmi goderecci e defaticanti del tikitaka. E ancora: rumorosamente kitsch ma firmatissimo, antitetico alla divisa che fa da seconda pelle al soldato Stephan, che senza Pirlo e senza il passo di un tempo cala in efficacia, incursioni, gol e giocate decisive, mantenendo la solita costanza nell’impegno.
C’è anche un avvisaglia di rottura con il resto della truppa: Lichtsteiner è il sogno estivo dell’Inter, pronta a sfruttare le lamentele dell’uomo sempre in prima linea, a causa delle nuove gerarche che si delineano in fila per il rancio. La panchina certa non fa per lui, il nerazzurro sembra cosa fatta ma chi è che lo vuole davvero? Non si saprà mai, poi qualcuno mette il veto e Stephan, da vero bianconero, incassa l’esclusione dalla lista Champions per la fase a gironi. E chi può sobbarcarsi l’estremo sacrifico se non lui, lo svizzero, l’uomo del Big Bang?
Licht rientrerà in lista per la fase a eliminazione, e siederà in panchina a Cardiff. Non alza la Champions, va bene, ma arrivano il sesto scudetto e la terza Coppa Italia. Avventura finita? Nient’affatto. Alves fugge via dopo un anno, la Juventus non fa per lui ma è patria per uomini come Lichtsteiner l’asburgico, la guardia svizzera, il polmone d’acciaio che sa dare l’esempio. La selezione naturale vince sempre. Lichtsteiner resta ancora, con un nuovo rivale. Non invincibile come Alves, ma più giovane. È Mattia De Sciglio, pupillo di Allegri bisognoso di rilancio dopo stagioni frammentarie e prive di soddisfazioni in un Milan che è ormai è una versione gossippara della Nocerina. Chi prevarrà? Il vecchio soldato è stanco, gioca di esperienza e mestiere, e la società, forse spaventata dalla coppia di esterni mai così poco affidabile aggiunge al casting il campione del mondo Howedes, jolly difensivo con una certa predilezione per la fascia destra. Ancora una volta, a gennaio Licht viene escluso dalla lista Champions, e ancora una volta incassa il colpo con la dignità epica e stolida del milite ignoto. Poi complice la fragilità dei rivali, inanella 32 presenze complessive. A Madrid, al 17esimo minuto, sostituisce l’infortunato De Sciglio, e con gli altri vecchi leoni Buffon e Chiellini va vicino all’impresa del secolo. Sarà ancora campione d’Italia, eroe del quarto double consecutivo. Sette anni, sette scudetti, l’en-plein. L’uomo da cui tutto è cominciato, questa vola ha deciso per davvero. Se ne andrà da imbattuto, non conta dove ma non Italia dirà, per non tradire la maglia bianconera. Fa meglio perfino dei quattro eptacampioni come lui, che con la Juve hanno conosciuto anche la non vittoria.
Per Licht c’è, tuttavia, ancora una piccolissima sfida al fato. Nella gara d’addio, col Verona a giochi già chiusi, arriva un rigore per la Juventus. L’uomo che ha segnato il suo primo gol allo Stadium, l’uomo del Big Bang, va sul dischetto per chiudere così come ha iniziato, dopo le sue 258 fatiche in bianconero, 246 in più di Ercole. Breve rincorsa e tiro stanco respinto dal portiere scaligero. È un segno chiaro che ha due significati inequivocabili. Il primo è che il ciclo iniziato il giorno del Big Bang, non è ancora chiuso, perché la Juventus vincerà ancora. Il secondo è che segnare da fermo, su rigore, di certo non è il destino possibile per l’uomo che più di ogni altro, in sette anni bianconeri, non ha mai smesso di correre.