Il fardello di Higuain. E di tutti noi

Nel sottovalutatissimo La leggenda di Bagger Vance c’è una scena in cui Will Smith, che rivisita in maniera impeccabile il ruolo del caddy in chiave filosofico-motivazionale, dice una frase che ho sempre associato istintivamente a Gonzalo Higuain, ieri sera più di altre volte: «Non c’è un’anima su tutta la terra che non abbia un fardello più pesante di quanto possa sopportare».

Ecco, ogni volta che vedo il Pipita penso al suo fardello. E si astengano i (facili) battutisti: non parlo certo del conflittuale rapporto con il proprio corpo delle ultime stagioni (e che non gli ha comunque impedito di fare la differenza, soprattutto quando si è trattato di consegnarci uno scudetto già vinto, che poi sembrava già perso, prima di essere rivinto nuovamente), ma di quello che uno Michael Jordan ha definito “The Burden”, quel peso psicologico prima ancora che tecnico o fisico, che rischia di condizionare tutto il resto della vita che va oltre il singolo aspetto che quel peso lo ha generato e nutrito, fino a renderlo quasi insopportabile.

Io non so cosa ci sia nella testa di GH9, non so quale fardello si porti dietro, così come non so da cosa derivi quella profonda e spesso eccessiva emotività da lui stesso ammessa ieri in un’intervista a caldo a tratti surreale e che, forse, rappresenta il motivo di una differenza apparsa netta con il Cristiano Ronaldo di turno – «Troppa responsabilità sulle mie spalle? Senza dubbio ma io sono una persona e un giocatore molto emozionale quindi qualche volta è difficile contenermi. Mi si vede in faccia se sto bene o male» – ma so che non posso fare a meno di provare una profonda empatia per lui. Perché lo capisco. Perché, credo, dovremmo capirlo tutti noi. Perché a tutti noi capita di dover fare i conti con una battaglia personale che ci sembra sempre più pesante, più dura, più difficile da quella di tutti gli altri essere umani.

Per questo sono stato molto felice nel leggere in rete e sui social, spesso lo specchio di tutto il peggio che alberga nell’animo umano, manifestazioni di affetto sincere e sentite per dei dettagli all’apparenza insignificanti (cosa sono, in fondo, un rigore sbagliato e un’espulsione se non qualcosa che rientrano nella normale logica dello sport) ma che in quel momento, in questi momenti, rivestono un’importanza cruciale. E non mi riferisco ai tre punti guadagnati grazie a questi dettagli: quel rigore e quell’espulsione, così come la reazione, inspiegabile solo per chi crede davvero che i calciatori debbano essere dei “robot” in cui la componente emotiva deve essere azzerata, sono la rappresentazione di come anche i supereroi o presunti tali (perché tali sono considerati gli sportivi nella cultura di massa del XXI secolo) si trovino a dover fare i conti con i demoni interiori degli uomini comuni. E, in situazioni del genere, è bello, per noi come per loro, ritrovarsi un Matuidi che, con un semplice gesto, ti fa capire che non sei solo. Anche quando il resto del mondo sembra crollare intorno a te.

In queste ore è stato detto, probabilmente in maniera corretta, che tutto questo è da considerarsi un limite. Nel caso di Higuain IL limite. Di una partita, di una stagione, forse di una carriera, soprattutto se si va a (ri)guardare lo storico relativo a finali e/o partite da dentro o fuori del fu uomo da 90 milioni. Ma non credo sia giusto prendere parte al tiro al bersaglio del giorno dopo e non solo perché questo si porta e si porterà dietro analisi semplicistiche e superficiali sul valore di quello che, comunque, resta ancora uno dei primi cinque centravanti al mondo. Stiamo sempre parlando di chi non ha mai nascosto e non si è mai nascosto dietro le sue debolezze, arrivando a chiedere scusa quando si è trattato di farlo – «Credo che a volte gli arbitri debbano capire le situazioni, ma noi siamo un esempio per i bambini e la reazione che ho avuto non è stata giusta» – e pagando in prima persona, spesso oltre il lecito e il consentito, le conseguenze derivanti dalle proprie scelte professionali e di vita. E, soprattutto, stiamo parlando di chi alla Juventus ha voluto, vuole (e, credo, vorrà) ancora bene. Di quel bene sincero, puro, profondo, che è anche alla base di quella scena madre da uomo innamorato e non più ricambiato – «I giocatori in campo hanno provato a contenermi e hanno chiesto di non punirmi? Li ringrazio, con molti ho un rapporto di grande affetto. La decisione di andare via alla Juventus è stata di altri, non mia. Io a Torino ho sempre dato tutto» – che tanto male ha fatto. A lui e a noi, per motivi così uguali eppure così diversi. Perché come tutti noi, in quel momento, avremmo voluto essere Blaise Matuidi, allo stesso modo tutti noi siamo, siamo stati, saremo Gonzalo Higuain, con i nostri (e i suoi) fardelli di debolezze, paure, ossessioni e amori non corrisposti. Perché succede così con le persone, prima ancora che con i calciatori, cui vuoi bene.

E proprio perché gli voglio (anzi, gli vogliamo) bene mi auguro che un giorno, proprio come nel finale de L’Ultimo Samurai, trovi «quel poco di pace che tutti cerchiamo e che solo alcuni raggiungono». Nel calcio e, quindi, nella vita. Del resto è come augurarselo anche per ciascuno di noi.

Claudio Pellecchia.