“La vittima è l’eroe del nostro tempo. Essere vittime dà prestigio, impone ascolto, promette e promuove riconoscimento, attiva un potente generatore d’identità, diritto, autostima. Immunizza da ogni critica, garantisce innocenza al di là di ogni ragionevole dubbio”.
Daniele Giglioli, Critica della vittima
C’è una gara, nella storia del calcio italiano, che va oltre la semplice importanza sportiva. Oltre l’avvicinamento all’obiettivo della vittoria finale di un campionato. Oltre la normale ambizione agonistica di trionfare sull’avversario.
C’è una gara nella storia del calcio italiano che è la madre di tutte le mitologie complottiste, che è l’archetipo di come si costruisce una retorica o una propaganda che trascende la complessità e la multidimensionalità dei fatti per costruire verità a una dimensione.
Quella gara è Juventus – Inter 1-0 del 26 aprile 1998, alle ore 16.
La partita
Juventus 66, Inter 65.
È questa la situazione di classifica alla trentunesima giornata, all’alba dello scontro diretto, e quando l’ordalia sarà finita ci saranno ancora tre match da giocare. Tre match, 9 punti. Vicenza, Bologna e Atalanta per la Juventus (le prime due a metà classifica e già salve, l’Atalanta invischiata in zona retrocessione) Piacenza, Bari ed Empoli per l’Inter, tutte a giocarsi la permanenza in Serie A. La gara, è evidente, potrà essere decisiva solo in parte. I bianconeri hanno il vantaggio “nervoso” di due risultati su tre. I nerazzurri l’impeto che solo l’opportunità di una grande impresa può offrire allo spirito. Nelle giornate precedenti le due contendenti si sono date battaglia, tenendosi per mano. Due, tre, quattro punti di distacco, mai di più. L’Inter è partita velocissima, la Juventus ha avuto uno scatto meno bruciante, ma già alla settima giornata la drammaturgia del campionato è scritta: è quella cavalleresca del duello, uno contro uno, senza esclusione di colpi. Nessun altro sembra invitato a giocarsi il trono. Le terze incomode, l’Udinese prima e poi la Lazio, hanno gamba rapida e insolenza, ma non l’animo nobile. In numeri, l’Inter ha condotto fino alla diciassettesima giornata, ultima di andata; poi, un passaggio a vuoto sul campo non terrorifico di Empoli (1-1) ha consentito alla Juventus trionfatrice sull’Atalanta (3-1) di salire in vetta. Per restarci.
Il sole d’aprile, altissimo e tiepido a Torino, è un’energia neutra, che sovrasta il Delle Alpi e taglia il prato verde con ombre oblunghe. Per tutta la mattina, prima che lo stadio si riempia, il verde vivido dell’erba rilascia la sua quieta luminescenza, la pace illusoria e innocente prima della battaglia.
Juventus e Inter sono macchine di uomini molto diverse.
La Juve è al culmine di un ciclo vincente iniziato nel 1994-95. Da allora ha vinto tutto, in Italia e nel Mondo, lasciando uno scudetto al Milan e puntando alla terza finale di Champions League consecutiva. L’Inter è reduce da due campionati anonimi e un terzo posto consolatorio che in quegli anni garantiva la partecipazione in Coppa Uefa.
I bianconeri fanno un calcio sbarazzino, moderno. Per tutti gli addetti ai lavori era stato un suicidio, in estate, liberarsi di bomber poderosi e aitanti come Christian Vieri ed Alen Boksic, per puntare sulla coppia di brevilinei Del Piero – Inzaghi. Eppure i due si trovano, e si completano. Del Piero è un tuono. Mai così potente, così deciso, sembra Achille con la spada, lui e il pallone sempre insieme, indivisibili, come fuoco e ossigeno. Zidane alle loro spalle è fluente e carezzevole, piroetta e inventa dimensioni e corridoi che soltanto lui può vedere. Si segnano tanti gol, spesso bellissimi. La squadra sembra fatta di rondini che si muovono in volo all’unisono, ma a guardare bene non sono rondini, ma falchi. Davids, Deschamps, Di Livio e Pessotto completano il centrocampo, dietro c’è Montero a guidare il reparto.
L’Inter è tutt’altra pasta. Né rondini, né falchi, i suoi undici sono soprattutto avvoltoi, avvoltoi che seguono un’aquila reale per aiutarla a divorare le sue vittime. Ronaldo Nazario Lima fa sempre da sé, discese paraboliche e colpi d’artiglio. Se segna dilania, se non segna è sempre lui a sfamare qualcun altro. In campo lo stormo nerazzurro si muove compatto, famelico, ma il volo è sempre piatto, lineare, monotono.
Si comincia e la gara è nervosa. La Juve è vigile, non vuole la prima mossa, preferisce attendere.
Nella singola battaglia è alla pari, ma in guerra è in leggero vantaggio. Del Piero contro Ronaldo è il match nel match. Il brasiliano è il calciatore più forte del mondo in quel momento, Alex non è troppo lontano. Entrambi lievitano oltre l’armonia della corsa, vicini alla velocità del suono. Cecchini in balistica, androidi in progressione e per frequenza di corsa, dove accelerano lasciano solchi. Sono lame affilate, che affondano sempre in verticale. A loro, è inevitabile, toccano i primi due tagli, come negli antichi duelli tra alti ufficiali. Un colpo per uno, chi vive vive, chi muore muore.
Il primo è Ronaldo, per vie centrali. Fa tutto da solo, allungo fulmineo, su un filtrante nel buio. L’impeto è quello di una fiera, ma Montero in scivolata è in traiettoria, intercetta, e tocca di punta per Peruzzi che svirgola via, lontano. Al ventesimo tocca a Del Piero. Davids lo vede in taglio verso sinistra, prima della trequarti: il passaggio è sulla corsa ed è preciso, perfetto per azzardare una serpentina. L’aggancio è magnetico, e il magnetismo sarà il decisivo fenomeno fisico a manifestarsi per i secondi successivi. La palla non si stacca mai dai piedi di Alex in corsa, ne durante l’allungo, né quando lo spazio vitale si restringe su Fresi in opposizione, al limite dell’area. Finta e controfinta precedono l’effetto magico di scomparsa, e tutto accade in una frazione di secondo, nello spaziotempo pulsante dell’area. Del Piero va fino in fondo con un leggero scatto a sinistra, forse incespica e il tiro mancino esce fiacco, o forse vuole metterla al centro per Inzaghi. La palla, respinta, è ancora pregna di carica elettrica e torna al polo d’attrazione, sul suo piede destro, lato corto dell’area piccola. Tocco di precisone, d’interno, in controtempo. Angolino basso, e la rete si muove. Boato e 1-0, l’equilibrio è rotto. L’Inter dovrebbe reagire eppure non accade. Il gioco latita come è accaduto spesso in stagione. C’è difficoltà a creare, Ronaldo è isolato. Il gol subito è un pugno al petto che occlude il respiro e appanna la vista.
Il primo tempo scivola via, l’Inter non tira mai in porta. Un altro strappo di Ronaldo è il solo pericolo, su tacco di Simeone. Inserimento che squarcia, stile Del Piero in gol, ma il fenomeno strozza il tiro che scivola via senza brividi, verso la pista d’atletica. La Juve gestisce bene, presidia gli spazi e scambia di fino. Non va a folate ma è la prassi, chi vince gestisce, chi perde dovrebbe assaltare. Ma non c’è furia nei nerazzurri, solo nervi. Il tasso tecnico non è da squadra all’inizio di un ciclo, la manovra è antica, recupero e contropiede, poi spazio alle giocate dei singoli. Difficile contro avversari organizzati e abituati a vincere. Nel secondo tempo non c’è alcuna svolta, solo molti falli. Fresi sgomita su Del Piero, Simeone scalcia Davids, che quasi reagisce. Iuliano non può far altro che trattenere Ronaldo che prova un affondo. Arrivano i gialli. I nerazzurri sembrano sudare veleno, il tempo passa, lo scudetto è sempre più un ologramma svanito, e la rabbia cresce. Ogni fischio, che sia contro, o a favore, è un affronto. Un accerchiamento. Zamorano, senza graffi, dice di aver ricevuto una gomitata in area Juve, e a supportarlo arriva addirittura Pagliuca, che da 100 metri ha visto tutto. La trance non è fatta di gesti, scatti, scambi, tackle e intuizioni, ma di scaramucce e contese. Il tempo scorre via, inesorabile. L’Inter non trasmette mai l’impressione di poter far male.
I due minuti di follia
Al venticinquesimo c’è un lancio a spazzar via verso Ronaldo, che come sempre è rapace, combatte e corre, e di forza si libera di Birindelli che si accascia in disequilibrio. Poi incorre in un duello acrobatico con Torricelli, e sul rimpallo s’inserisce Zamorano che tocca sporco. Ronaldo raccoglie dopo un dérapage ad angolo retto, e controlla a seguire verso il centro area, tutto in velocità. Prova a seguire il pallone lontano un metro o due ma sulla sua strada trova Mark Iuliano, in avanzamento. C’è lo scontro, frontale, cadono entrambi, Ceccarini è in posizione perfetta e vede tutto, e il suo ordine è perentorio, si gioca. Su Tele + la telecronaca, in quel momento è incalzante. C’è Massimo Marianella, voce squillante, occhiali, esperto di calcio inglese, affiancato da Massimo Chiesa, ex arbitro. “Ronaldo, si allarga, body-check su di lui” dice con tono concitato, e sul suo incedere entra Chiesa, secco “No. Per me non è da calcio di rigore”. Non c’è tempo per il replay. L’azione è frenetica ed è già andata avanti, il pallone si trova dalla parte opposta del campo, tra i piedi di Zidane in falcata tenue, come è nel suo stile. Fresi rimpiega, Zizou controlla e si dirige verso il fondo, ha passo felpato e avanza anche se l’interista in campo più vicino a lui è l’allenatore Gigi Simoni, 15 metri netti dentro al campo. Zidane lo ignora, pensa al match e al raddoppio, e con la coda dell’occhio vede Del Piero che progredisce a tutta velocità, alle spalle di West. Il filtrante è preciso. Alex anticipa il nigeriano senza età con la punta, e nello scatto viene travolto. Ceccarini è altrettanto perentorio. Rigore netto. Non sa ancora che in quell’esatto momento ha decretato l’inizio di uno psicodramma ancora vivo, vent’anni dopo. In campo, è guerriglia. Tutti gli interisti cercano l’arbitro, lo aggrediscono, lo accerchiano, sbraitano. Insieme formano una testuggine di pretoriani inferociti, per poco Ceccarini non rovina al suolo indietreggiando. Tutto fervore inutile. Simoni è espulso, fuori di sé. Marianella e Chiesa stigmatizzano il suo comportamento “Sono veramente delle reazioni allucinanti”, “Simoni giustamente espulso”, “al di là del body check su Ronaldo che al massimo è un’ostruzione non si può entrare in campo cosi”, commentano i due. Del Piero, diversi minuti dopo, fallirà dal dischetto sparando addosso a Pagliuca. Nei venti minuti che mancano, solito copione. L’Inter spinge ma è solo foga, agonismo, calci piazzati. C’è il tempo per una gomitata alta del carioca Zé Elias su Deschamps, che costerà un rosso, e per l’ennesimo errore di mira di Ronaldo, che ben piazzato entrando in area da destra, scalcia via in curva. Non resta che attendere il triplice fischio finale? Nient’affatto. Proprio a palla ferma lo psicodramma evolverà in paranoia, in autentica ossessione.
I vent’anni successivi
Nelle successive tre giornate, la Juventus fece 5 punti. Pareggio a Vicenza, vittoria col Bologna (3-2) pareggio a tricolore cucito sul petto a Bergamo. L’Inter addirittura meno, soltanto 4. Pareggio in casa col Piacenza (0-0), sconfitta a Bari (2-1), vittoria a giochi fatti con l’Empoli. Non proprio un cammino immacolato. Ma non era più importante. A freddo, la visione genuina di Marianella e Chiesa, si trasformò in inquisizione semi unificata. Il clima, va da sé, era recettivo. Interrogazioni parlamentari, la crociata di tutti gli interpreti del calcio contro, la famigerata “merda addosso che la metà bastava” chiamata in causa da Marcello Lippi a titolo conquistato. Ci sono sconfitte che sul piano politico possono valere più di una vittoria. Nessuno poteva immaginare, nemmeno durante le interviste del dopo partita in cui il mondo Inter al completo gridava alla vergogna, al complotto, alla truffa, che sotto quel grido di dolore e vittimismo un intera tifoseria avesse finalmente trovato il tanto atteso evento scatenante per assolversi e compattarsi, e rigenerarsi dopo anni di delusioni cocenti. Una macchina mitologica vale molto più che uno scudetto. La gioia passa in fretta, il mito fondativo e l’identificazione con la vittima può tornare utile per sempre.
Juventus – Inter 1997-98 è infatti da allora un alibi eterno, una mano di vernice nera su ogni valutazione tecnica o tattica, sulla qualità degli interpreti in campo, su ogni aspetto realmente calcistico del calcio. È il veleno sulla reputazione di un arbitro internazionale che ha diretto finali continentali. È la negazione di ogni ragione intellettuale o agonistica dello sport. È la semplificazione monocellulare estrema di una realtà complessa fatta di miliardi di atomi. È la riduzione di un numero infinito di variabili (quelle che decidono una partita di calcio) a singolo episodio istantaneo e circoscritto. È una tecnica evergreen di delegittimazione sportiva. È l’eterno ritorno della duplice intervista a Moratti e Simoni, in una versione grottesca e casereccia del giorno della memoria. E nel caso specifico fu, infine, la negazione di un confronto equilibrato sulla questione degli arbitraggi “politici”, la vera costante del calcio italiano (sia Juventus che Inter usufruirono di molti episodi a favore, quell’anno, spesso molto eclatanti). L’anno dopo, non a caso, fu introdotto il sorteggio integrale, poi strumentalizzato in Calciopoli.
Il mondo Inter, in compenso, ebbe la sua Pearl Harbor, il proprio incendio del Reichstag, il proprio 11 settembre ante-litteram a tinte nerazzurre. Si dice che la storia la facciano sempre i vincitori. Nel calcio italiano, provano a raccontarla quasi sempre i vinti.