“Vincere è l’unica cosa che conta”. Vincere sempre, indipendentemente dai meriti e dal tipo di calcio giocato. Questo è sempre stato il motto della Juve. Ora, dopo l’eliminazione nei quarti di Champions ad opera dell’Ajax, molti (anche fra i tifosi juventini) sembrano pronti a voler modificare questo assunto per abbracciare un calcio più propositivo e meno reattivo.
Max Allegri, come dimostrano le conferenze stampa che lo hanno visto protagonista e anche il suo libro, sembra incarnare perfettamente questo tipo di approccio. L’iconoclasta tecnico bianconero è infatti convinto assertore dell’idea per la quale, per vincere, basta mettere il muso del proprio cavallo davanti a quello dell’avversario, anche di pochissimo.
Fuor di metafora, per Allegri non è necessario esprimere un gioco appariscente e dominare la partita tramite il controllo del pallone quanto invece essere efficaci ed equilibrati nelle due fasi, offensiva e difensiva.
Anche se l’allenatore livornese ha più volte ribadito questi concetti, l’idea che è passata è che Allegri sia il portabandiera del cosiddetto ‘risultatismo’, cioè di una ricerca del risultato ottenuto indipendentemente dalla qualità della prestazione. Qualità, si badi bene, offensiva giacché i fautori del ‘bel giuoco’ (che idealmente rappresenterebbero il contraltare della concezione allegriana) non ritengono che la solidità difensiva apporti qualcosa allo spettacolo che dovrebbe invece per loro essere presente in ogni partita di calcio.
Questo è il motivo per il quale, in contrapposizione a certa critica italiana, chi sostiene la necessità di proporre un calcio proattivo (soprattutto in questa era dell’immagine dove si possono vedere tutte le partite…) ha esaltato, coerentemente al proprio pensiero, la partita fra Manchester City e Tottenham (finita 4-3 per i citizens) sorvolando su eventuali errori difensivi.
Siamo quindi tornati ad una riproposizione in chiave moderna dello scontro fra allenatori zonisti e sostenitori del calcio all’italiana di fine anni ottanta. Scontro che, come detto in apertura, si apre ora all’interno del mondo juventino.
In realtà non è questa la prima volta in cui la Vecchia Signora si trova davanti ad un bivio fra nuovo e antico. Questa situazione infatti si era già creata durante l’epopea sacchiana quando, nel 1990, la nuova Juve di Montezemolo decise di affidare la guida tecnica della squadra all’enfant prodigeGigi Maifredi. L’esito, come noto, non fu dei migliori.
Questo precedente potrebbe dissuadere Andrea Agnelli dall’idea di cambiare allenatore? Forse, anche se si parla di un’altra era calcistica.
Quello che sembra difficile è che Allegri cambi il suo modo di intendere il calcio. Lo si è visto anche quest’anno. La Juve costruita nelle ultime stagioni e, soprattutto, la prima Juve di Ronaldo, probabilmente consapevole di non poter più contare su una difesa di ferro (la BBC) e del fatto che in Europa, nelle ultime annate, si sono imposte squadre proattive (Real Madrid) aveva deciso di virare verso un progetto tecnico nuovo, più ‘europeo’.
Tuttavia, se si escludono alcune performance, Allegri ha deciso non di adattarsi al materiale umano a disposizione ma invece di utilizzare la rosa per giocare il proprio calcio, comportandosi (seppur nella direzione opposta) proprio come vengono spesso accusati di fare alcuni sostenitori del bel giuoco.
A questo punto, la dirigenza bianconera deve decidere se continuare con Allegri (confermato a caldissimo dopo l’eliminazione in Champions e poi anche attorno all’ultima gara di campionato) o cambiare strada. In questo secondo caso, al netto delle difficoltà di individuare l’uomo giusto per sostituire un allenatore che ha comunque vinto cinque scudetti consecutivi, non si tratterebbe di cambiare il proprio DNA (come è stato scritto) o di andare contro la propria storia.
La questione sarebbe invece quella di ingaggiare un tecnico proattivo perché si ritiene che un tipo di gioco più propositivo sia il migliore per esaltare il tipo di rosa assemblata in questi ultimi anni. In pratica, attuare una virata sul piano tattico per continuare a vincere in Italia e conquistare l’agognata Champions. Cioè cambiare per rimanere però fedeli al motto bonipertiano del ‘prima la vittoria’.
Michele Tossani