C’è una grande somiglianza filosofica fra Maurizio Sarri e Massimiliano Allegri. Nella partita ideale che si gioca nella loro testa, la squadra che allenano ha sempre il controllo dello spartito e non deve mai perdere le briglie e abbandonarsi all’improvvisazione. Una tendenza sempre più radicata – Ajax a parte – anche in ambito europeo, dopo anni di sbornia “tremendista”: si pensi ad esempio al percorso del Liverpool di Klopp diventato campione quando ha saputo integrare il gegenpressing e le folate del trio offensivo in un contesto equilibrato, solido, talvolta persino attendista.
Le somiglianze nella filosofia, però, appena si indossano gli scarpini e si scende sul campo di allenamento, cedono al passo alle differenze negli strumenti. Laddove per Allegri mantenere il controllo di una partita era un concetto legato all’interpretazione emotiva e mentale, che si traduceva spesso e volentieri in una strategia a rischio zero nella gestione del pallone e nella riconquista dello stesso, per Sarri è proprio il pallone lo strumento di controllo fondamentale.
Il neoallenatore juventino ha già avuto modo di spiegare che non gli piace vedere la sua formazione abbassarsi troppo, perché così diventa più difficile gestire il possesso. Il percorso di cambiamento però non è facile perché coinvolge ogni dettaglio del modo di stare in campo dei giocatori, dalla velocità di pensiero ai gesti tecnici più elementari. Per questo abbiamo visto fin qui delle Juve di compromesso, che hanno saputo interpretare anche gare di sofferenza alla vecchia maniera.
La partita di Firenze ha mostrato tutti gli impicci di una squadra che deve imparare a innamorarsi del pallone. Orfana per 90’ del suo metronomo, prima marcato a uomo e poi uscito per infortunio, e per 85’ del suo creativo di riferimento nell’ultimo terzo di campo, la Juve ha dato l’antica impressione di non sapere che farsene del possesso di palla.
I tentativi di costruzione bassa sono naufragati sotto i colpi del buon pressing viola, complice anche l’atteggiamento dei nostri un po’ distratto e superficiale (o forse ancora troppo “cerebrale”?). Si sono visti di nuovo tanti lanci da parte di Bonucci – ben 6 a fine gara – il cui esito modesto ha lasciato pensare a una soluzione estemporanea più che a una richiesta esplicita dell’allenatore. E ogni volta che la squadra riusciva a consolidare il possesso nella metacampo avversaria, la sensazione era di assistere a un giro palla conservativo, con i giocatori che sono sembrati privi della fiducia e della personalità necessaria per tentare di scardinare la difesa avversaria con una giocata.
Contro il Napoli, è vero, si era vista una squadra ben più pericolosa. Uguale però era stato l’imbarazzo dell’ultima mezz’ora, quando le energie erano finite e la Juve non è riuscita a fare quello che deve fare una grande squadra quando va in riserva: congelare la partita, riposarsi col pallone. E lo stesso copione aveva “sporcato” l’ultimo quarto d’ora di Parma, vissuto un po’ in apnea.
Ripetiamolo: Sarri e i suoi uomini hanno tutte le giustificazioni del caso se in questa fase della stagione le cose provate in allenamento non riescono. L’importante è continuare a lavorare sulla strada intravista nelle prime due uscite stagionali, senza sacrificarla alle prime difficoltà in nome di un pareggino o di una vittoria in trincea.
La Juve ha bisogno di desiderare ardentemente il pallone, di provare cose nuove e difficili, di volersi divertire tenendo il possesso della sfera. Allora si divertirà un po’ di più anche Maurizio Sarri, e ci divertiremo anche noi tifosi.
La Juve di Sarri: Todo cambia. Forse
Todo cambia, ma forse mica tanto. Nelle ultime ore, infatti, se non avessi visto, in un caldo pomeriggio di settembre, Sarri seduto sulla panchina della Juve con indosso una camicia-simil-polo blu che fa tanto compromesso d’amore, avrei pensato che Massimiliano Allegri fosse ancora lì a dirigere l’orchestra. Non per via della squadra vista sul campo – facciamo i seri, su – ma per aver letto e sentito il suo nome scritto e urlato in ogni dove, a dimostrazione del fatto che allegristi e antiallgristi, banalizzando tutto a sole due categorie, condividono in fondo la stessa passione e la stessa ossessione. Nemmeno per i numerosi infortuni, che possono pure starci all’inizio di una stagione di cambiamenti, e neanche perché per l’ennesima volta ritorniamo a Madrid con una serie di punti interrogativi sopra la testa, ma per le reazioni nefaste che, non si capisce ancora per quale meccanismo psicologico, animano ormai la tifoseria.
Così, si procede verso il nuovo corso con una fretta eccessiva e senza senso e con il bisogno e la voglia di scrollarsi di dosso un passato ingombrante, quando invece il segreto è proprio quello di far pace con quello che è stato e fruttare ciò che si è imparato per restare i più forti (ma scusate, non vi ha insegnato niente il Re Leone?!), ovvero sapere aspettare e, nel caso, cogliere il momento giusto per alzare l’asticella.
Todo cambia e forse è vero. Si è rimescolato il governo, figuriamoci se non possono cambiare allenatori, panchine e maglie di giocatori di calcio. A metà settembre siamo già di fronte a un Conte che gioca al fare il Sarri di qualche anno fa, con tanto di retorica sulla lotta di classe, su forti e deboli, su bilanci, soldi e un Sistema che va cambiato per dare più speranza agli oppressi e una lezione agli oppressori. Unica differenza è che Conte sa fare la guerra, o meglio, sa inventare e fomentare battaglie, meglio del Sarri che fu. A capo della rivoluzione Ancelotti, uno che ha vinto qualunque cosa con i club più ricchi del mondo, e lo stesso Conte, che è diventato Conte perché quella «parte forte» l’ha plasmata proprio lui, anche se si preoccupava sempre, troppo.
E insomma, la vita è una ruota e non si mai bene dove puoi trovarti. Sarri, dal canto suo, ci ha messo pochi giorni a diventare l’allenatore perfetto della Juve, non sbagliando neanche mezza uscita davanti a un microfono. Allegri, per quanto gliene importi, è avvisato. In sostanza, cambiano i volti, ma le battaglie ideologiche rimangono le stesse. E se non credete nel potere catartico di certi ambienti, allora possiamo pure chiuderla qui.
odo cambia, chi lo sa. Certo che una Juve che insegue, anche se siamo solo a metà settembre e ribadirlo ogni mezz’ora può fare solo che bene, dà un tantinello fastidio. Constatare, però, che il terrore di perdere uno scudetto, scudetto che, ricordiamo, è stato spesso definito scontato, soprattutto negli ultimi anni, sia ancora vivo, non fa altro che piacere. Vuol dire che siamo ancora sani e in salute e che lo psichiatra più aspettare. Colpa di Conte, direte voi, non puoi non volere vincere uno scudetto, pure se è il nono consecutivo, quando c’è lui ad allenare l’Inter; vero, ma se tutto questo servirà a tenere a bada le nostre angosce e aspettative sulla Champions, non possiamo che dirgli grazie. La Champions, dicevamo, quella che da anni ci mangia il cervello. Godiamoci pure queste ultime ore, queste ultime paturnie tutte italiane, perché tra tre giorni non saremo più gli stessi e vivremo in balia di una coppa che spesso e volentieri non ci fa ragionare.
Todo cambia e maggio è ancora dall’altra parte della luna.