Parola di Andrea Agnelli

Il presidente potrebbe anche pensare di trovare il modo di parlare in questi giorni“. E chi lo ipotizza, con o senza sfera di cristallo, intravede la solita lucida audacia di Andrea Agnelli, oppure ne auspica un’urgenza, per non dire un’emergenza? L’unica cosa che conta è che il presidente abbia già parlato. Con chi di dovere e con chi di mestiere. Ascoltarlo significa aggiungere ogni volta un pezzo di quel puzzle infinito che è la Juventus spiegata da dentro l’essere Juventus. Una parola servirebbe a tutti gli juventini, per ricompattarli. Perché va bene, perfetto, a caldissimo dopo le eliminazioni in Champions League. Perché il suo pensiero detta la strada quando i buoi lasciano le stalle. Ma non crediate che anche solo un Pavel Nedved non possa avere anche in questo senso qualcosa da imparare. Immaginate gli altri, a scendere nella catena, perché quando il messaggio è chiaro e senza subordinate non lo può sporcare neanche una catena di Sant’Antonio. Lo ha fatto. E ci basta saperlo.

Quel che è certo è che esistono giorni e giorni. E questi giorni, post Verona e pre Brescia, non sono giorni qualunque. L’ha capito anche il sarto. Hanno barcollato in molti e alcune implicite risposte del campo nell’intermezzo della semifinale di andata a San Siro non sono arrivate per come erano attese. Perché in questo momento d’ansia generale non bastano le intenzioni, che sono quelle a cui si è dolcemente aggrappato Sarri nel commentare a caldo la gara, in antitesi con Bonucci (che rappresenta l’anima della squadra) e in protesi con Buffon (che rappresenta l’anima della dirigenza). Era la classica partita dove se, appunto, non si guardava all’intenzione è perché si guardava alla prestazione. Cioè: la società non cercava la prova provata che la squadra facesse come dice l’allenatore (la palla per terra, le uscite fraseggiate ma a prender campo, la ricerca del terzo uomo e comunque tutto ciò che fa parte dell’estetica smarrita negli ultimi due mesi), bensì cercava coesione, il risultato congiunto prima ancora che il risultato finale.

Eppure il finale in questo sport ha sempre il suo peso. Ed il finale ha cancellato 4 pericoli in 11 minuti di gioco, la sterilità in superiorità numerica, la vulnerabilità costante della squadra e perfino la delusione che affligge lo juventino quando osserva un De Sciglio all’ennesima sbavatura decisiva o un Ramsey che tutti vorrebbero diverso, che c’è sempre un motivo per cui, dall’infortunio alla posizione in campo passando per un rigore che “però c’era”. Sono esempi. Che stanno al fianco dei fatti del campo. Che verrebbe voglia di inorgoglirsi o indignarsi per l’andazzo populista che soffia ancora, nonostante le evidenze, nonostante una squadra che gioca in situazione di vento contrario autogenerato, nonostante le degne rivali di campionato e di Champions.

Esempi, poi fatti, infine sensazioni portate dall’esperienza. Secondo un’opera di presunzione il pensiero in Juventus potrebbe essere (stato) il seguente: il cambio in corsa si analizza, e cambiare significa rischiare. Cinquanta e cinquanta. Sono fitte le biografie di allenatori che al culmine di un possibile esonero hanno poi trionfato. Ma andare avanti con Sarri può rappresentare un 50% di fattore rischio. Così come cambiare rappresenta parimenti un 50% di fattore rischio. Sulla stagione in corso forse addirittura un 60. Chiamatelo con il nome che preferite. Chiamatelo Massimiliano Allegri per sillogismo giornalistico o chiamatelo Fabio Capello per fascinazione anche revanscista. Ed è esattamente nel cuore di questa potenziale casistica che serve come il pane, anzi come l’acqua che è vita, la cosiddetta barra presidenziale. Perché da lui discende tutto. Perché lui conosce il passato, si astrae dal presente e, quasi soltanto lui, ha chiaro il nostro futuro anteriore che non è Juventus-Brescia, sennò non ci sarebbero calciatori pagati profumatamente per questo.


JUVENTIBUS LIVE 

Luca Momblano