Il re taumaturgo: Leonardo Bonucci

Per tradizione non c’è nessun’altra squadra al mondo, più della Juventus, nelle cui schiere per un difensore sia possibile portare a sublimazione se stesso e la propria arte.

E di certo non soltanto perché spesso la Juventus ha costruito i suoi trionfi sul calcio difensivo, (da Munerati a Dybala e Mandzukic, passando per Mumo Orsi, Giovanni Ferrari, Borel II, Charles, Sivori, Boniperti, John Hansen, Praest, Boninsegna, Anastasi, Causio, Bettega, Platini, Boniek, Rossi, Laudrup, Andy Mӧller, Vialli, Roberto Baggio, Del Piero, Inzaghi, Zidane, Nedved, Camoranesi, Ibrahimovic, Trezeguet, Tevez, Pirlo, Pogba, Llorente e Morata non trascurando Boksic, Vieri ed Henry rimasti solo per una stagione, la rosa bianconera è sempre stata ricca di straordinari campioni in grado di fare la differenza per estro, talento e volontà prorompente di segnare), ma soprattutto perché sin dai tempi di Carlo Carcano e dei cinque scudetti consecutivi, l’idea stessa del difendere e del difendersi, a volte scambiata nel calcio per una speculazione, una resa, o addirittura come un’onta, alla Juventus è stata introiettata nella genetica societaria e nello spirito di squadra come un valore assoluto. Come un metodo di resistenza, un punto d’onore, una prova di solidità fisica e mentale che avrebbe dovuto e potuto dare i suoi frutti nel lungo periodo.

Alla Juventus la maestria nel difendere è fatto di vocazione. In Italia vince quasi sempre la squadra che subisce meno gol. E la Juventus, quasi sempre subisce meno gol. A testimonianza di questa vocazione profonda, e del livello di sublimazione assoluta a cui si è innalzata in bianconero, basta leggere com’erano assortite le difese delle nazionali italiane campioni del mondo.

Combi tra i pali, Rosetta e Caligaris a dare forza ed esperienza al gruppo sebbene non titolarissimi, Luisito Monti sontuoso mediano erano nella rosa del 1934; Foni e Rava erano i difensori titolari nel metodo alla Pozzo nella finale del 1938; Zoff, Gentile, Cabrini e Scirea formavano il reparto insuperabile nel 1982; Buffon, Zambrotta e Cannavaro troneggiavano come muri medioevali nelle notti magiche del 2006.

Juve, Juve, Juve e ancora Juve sul tetto del mondo.

Non si tratta soltanto di valori tecnici e fisici, o di semplice tattica calcistica. È un approccio allo sport e alla vita che passa per la capacità di sacrificarsi, di attendere il proprio momento senza mollare un filo d’erba, è una capacità di resistere e compattarsi insieme; è capacità e propensione a stare uniti, a guardare le spalle dei compagni. Difendere significa far cominciare da capo, ogni volta che ce n’è bisogno, la battaglia delle Termopili, e resistere, resistere e resistere, come potrebbe accadere a Monaco di Baviera tra un tempo che è già presente emotivo ancor più che futuro immediato.

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Difendere è infine valorizzare, è dare lustro al gesto magico di qualcuno dei baciati dal dio del talento lì davanti, è fame di caccia per il talismano rotondo per il cui dominio si sta in campo a battagliare, e non di meno è puro orgoglio nel far fronte al desiderio famelico di gloria dei tanti fuoriclasse che giocano contro e arrivano come orde.
Nella Juve di oggi la muraglia difensiva è tornata all’altezza di molte gloriose maginot del passato. Barzagli, Chiellini e Bonucci. Ma senza ombra di dubbio il vero leader tecnico di questa difesa, sia per caratteristiche tecniche che caratteriali, è proprio quello che anni fa, al suo arrivo alla Juventus per 15 milioni di euro, era sembrato il più sopravvalutato: Bonucci. Di primavera interista (è sempre una soddisfazione immensa vedere il cigno dove i rivali vedevano un pulcino spelacchiato) Leo era passato al Genoa e poi in comproprietà al Bari di Ventura, che splendido insegnante di calcio qual è, ne aveva fatto il primo regista della manovra offensiva in possesso palla, affiancandogli il più rude, più difensivo e più quotato Ranocchia (poi passato all’Inter), da tutti indicato come il nuovo principe dei difensori italiani (è sempre una soddisfazione quando i rivali vedono un cigno laddove c’è un pulcino come tanti). Con Del Neri, al primo sciagurato anno di Juventus, Leo mostrava doti tecniche fuori dal comune, un piede da centrocampista, ma anche una scarsa propensione alla fisicità nella marcatura e una tendenza disgraziata a mettersi di lato nell’affrontare gli assetati interpreti avversari dell’uno contro uno, come se una lama tagliente (Leo è alto 1.90 e ha una muscolatura nevrile, segaligna, da chiodo da bara), potesse sfoggiare più capacità di copertura di un muro solido frontale. Ma era giovane e con una forte personalità: credere che potesse migliorare, e maturare, era già prevedibile.

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Eppure quanti avrebbero detto che dopo cinque anni magnifici, sempre in crescendo, sempre migliorando, Bonucci sarebbe diventato uno dei primi cinque difensori del mondo, e forse il primo in assoluto per bravura tecnica e capacità di caratterizzare sia in fase di non possesso, ma soprattutto di possesso palla, il vero spirito di una squadra vincente?
Per quel che mi riguarda, la prima volta che ho pensato davvero che Leonardo Bonucci non fosse solo un bravissimo difensore moderno, attaccato alla maglia, ma che potesse essere un vero e proprio re taumaturgo (nella definizione del celebre storico francese Ernst Bloch i re taumaturghi erano i monarchi francesi e britannici che secondo le credenze popolari avevano doti sovrannaturali da guaritori di infezioni cutanee come la scrofola o adenite tubercolare), è stata il 9 febbraio del 2013 quando, durante un Juventus – Fiorentina di campionato, quinta di ritorno – non era nemmeno in campo. Era in curva con i tifosi, nelle prime file subito dietro alla porta, e proprio mentre riceveva un coro in suo onore (Leo veniva già da due campionati da titolare, quattro gol, uno scudetto e tanto amore dei tifosi conquistato sul campo), sulle parole Leonardo Bonucci alé, Mirko Vucinic, uno dei centravanti più belli da vedere, più finemente schermidori, più cavalieri e al contempo più allergici al gol della recente storia juventina, insaccava proprio sotto Leo una splendida volée di destro, dai venticinque metri, una traiettoria perfetta per balistica e stile di esecuzione: stop di suola, rimbalzo, passetto rallentato di preparazione e colpo di cannone, proprio come nei sogni di bambino. Indurre al gol Vucinic, che forse senza che il nome di Leo fosse inneggiato in piena trance agonistica, avrebbe centrato in pieno la traversa: più taumaturgo di così…

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Ma che Leo avesse doti calcistiche sopra la media, da fuoriclasse, se non sovrannaturali, cominciava a intravvedersi anche in campo. Iniziava a lanciare a 40 metri con una precisione incredibile. Sempre nei tempi di gioco giusti per approfittare del fattore sorpresa. Dai suoi lanci nascevano gol splendidi e voluti, pensati, preparati, un unicum assoluto nel panorama calcistico mondiale. Ma non solo.
Leonardo Bonucci aveva iniziato una crescita caratteriale e tecnica da vero leader. All’improvviso, dopo un gol decisivo, splendido in demi volée e decisivo contro la Roma (che soddisfazione quando i rivali scambiano se stessi per cigni mentre poi si rivelano passerotti spelacchiati), uscì sui giornali la notizia che l’artefice principale della maturazione di Bonucci fosse il suo motivatore personale, Alberto Ferrarini, professione mental-coach che rilasciava dichiarazione come questa:

“Sabato sera abbiamo lavorato tre ore in albergo per preparare la partita. Nuovi segreti? Finito il nostro lavoro ho dato a Leonardo delle caramelle all’aglio. Prodotti naturali, immangiabili. I soldati centinaia di anni fa mangiavano l’aglio per mantenersi forti, sani e lucidi in battaglia. Leo è un soldato, e mangiando quelle caramelle è come lo avessi fatto tornare alle sue origini. Gli ho detto anche di alitare in faccia a Gervinho e Totti… La cosa più importante è stato il raggiungimento dell’obiettivo: la vittoria. (…) Mi sono arrabbiato subito con Leo non voglio sentirgli parlare di rete più importante della carriera come ha fatto nel post gara. Deve stare sul pezzo: il gol più importante sarà il prossimo e sarà sempre così. Obiettivi nuovi? Dimenticare la Roma, essere più consapevoli della propria forza e avere più fame di ieri”.

Letteratura di piccolo cabotaggio? Forse. Ma negli effetti in campo, questa fame, questa volontà da marines confermata anche dal taglio di capelli militaresco, questa capacità di afferrare l’attimo che spesso per i campioni è pura ondulazione dialettica tra destino e forza di volontà, pura capacità superiore di omeostasi tra climax delle partite importanti e proprie reazioni atletiche e nervose.

Rivediamolo quel gol decisivo, il più decisivo, finora, della sua carriera. È il 91esimo di Juventus Roma, le due squadre sono sul 2-2. Rocchi è stato sfortunato. Ha concesso due rigori alla Juventus, entrambi realizzati da Tevez, e uno alla Roma, gol di Totti (mai a segno su azione contro la Juventus a Torino nella lunghissima carriera), dopo che Iturbe (che soddisfazione quando l’intera stampa nazionale racconta come uno scudetto l’acquisto per più di 30 milioni di un presunto cigno che dopo poco si rivela una rondine comune già migrata sulle coste albioniche di Bournemouth) aveva portato in vantaggio i giallorossi. Il clima è teso. Porterà alla solita interrogazione parlamentare e uno sfogo a cuore aperto del capitano avversario. Dovrebbero fare un campionato a parte, cosa poi in effetti accaduta, con 17 punti di vantaggio in classifica finale. Ma intanto è sempre il 91esimo, e un pallone viene crossato in area da Marchisio, è un assedio finale in vero un po’ disordinato, la vocazione difensiva interiorizzata nei geni non è richiesta; serve di più un colpo magico, estemporaneo quanto magico. Respinge di testa Yanga Mbiwa, nemmeno troppo male, svettando aitante e concentrando potenza. La palla s’innalza e cade a palombella in posizione centrale, al limite dell’area. E lì c’è Leo, che non ha paura. Chi tira al volo sa che basta poco per fare una figuraccia, ma il re taumaturgo è defilato, per coordinarsi deve spostarsi a mezzaluna da sinistra a destra, calcola il tempo, e quando è certo dell’impatto s’avventa come un’aquila e colpisce alla perfezione, da centravanti di tecnica sopraffina, e la volée è un colpo arcuato e teso, che come una corda di violino sembra congiungere un punto all’altro di un percorso perfetto, il piede di Leo e l’angolino basso del gol, lasciando risuonare una melodia dolce.

Il re taumaturgo sforna altri campionati straordinari, cresce in Europa, segna altri gol da virtuoso del pallone, altri troneggiando di testa, altri ancora in area, sempre sfoggiando il trittico delle delizie delle sue doti principali: senso della posizione, tecnica, voglia di vincere incrollabile. E le solite, chiare doti sovrannaturali e taumaturgiche, come dimostrano le sue prove nelle ultime settimane. Da fantasma è apparso davanti a Higuaìn e gli ha soffiato dalla testa un gol sicuro in Juventus Napoli; da fantasma (doveva essere squalificato a Bologna, pura meraviglia del destino) è apparso da nulla e ha segnato ancora in volée il gol del vantaggio con l’Inter, sfoggiando la più bella prestazione in maglia Juventina, fatta di un fantastico repertorio: anticipi, impostazioni, tackle scivolati, aggiramenti palla al piede, e in più una magnifica transizione da difesa a centrocampo con passaggio rischioso di Buffon, e Leo che pressato lascia scorrere la palla, supera l’uomo e avanza di 20 metri a testa alta: azione degna di Beckenbauer. Infine, taumaturgo nell’ultima gara di Coppa Italia, quando il suo rigore decisivo ha guarito una squadra che sembrava composta da lebbrosi impauriti.

Guardandolo con gli occhi dell’oggi Leonardo Bonucci è a tutti gli effetti desinato a entrare con merito nella storia dei più grandi difensori della Juventus. Nella storia di quella vocazione assoluta che in bianconero è il difendere. Ma in un modo unico. Bonucci è più unico di Barzagli e Chiellini, muraglie fisiche dal temperamento indomabile, ma più in tradizione con i grandi interpreti della juventinità difensiva. Loro sono nel solco di Cannavaro, il solo marcatore puro della storia a vincere un pallone d’oro, ovviamente da juventino. Nel solco di Romeo Benetti, il cui nome faceva paura solo a pronunciarlo, di Spinosi, di Morini; nel solco di Sandro Salvadore la bandiera, coraggioso, potente, indomito, che nei racconti dei vecchi juventini di famiglia era l’uomo che qualsiasi soldato avrebbe voluto come compagno di trincea in guerra. Nel solco di Jurgen Kohler, indistruttibile spauracchio di van Basten, di Ciro Ferrara e Paolo Montero, i feroci paladini di anni indimenticabili, di Brio e Carrera nobili a Torino dopo la provincia, di Claudio Gentile il mastino insuperabile anche per Maradona, di Thuram fatato e aitante anche lui, puro fuoriclasse d’ebano ma privo, vicino alla porta, del colpo da barracuda.

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Se proprio si deve scegliere un filone tradizionale, Bonucci mi sembra più appartenere di diritto a quello dei grandi difensori juventini non catalogabili, sui generis. Come Carlo Parola, magnifico interprete della rovesciata, che non ho mai visto giocare e che eppure è scolpito nella mia memoria come icona del calcio italiano attraverso la Panini, mentre è sospeso in aria intento a sfidare la legge di gravità. Come Antonio Cabrini, che con la sua legge dell’estetica, del tiro al fulmicotone e della tecnica da ala sinistra ha cambiato il ruolo di terzino sinistro per sempre. E infine, come Gaetano Scirea, l’irraggiungibile. La classe pura. Il giocatore più corretto che abbia mai calcato un campo di calcio. La guida, il confessore, il consigliere, la colonna, l’amico taciturno a cui si poteva affidare la propria esistenza. Il regista tecnico che faceva dello stile un’essenza assoluta. Scirea non aveva difetti e rendeva estremamente facile il calvario della venerazione, per dirla alla Cioran.

Io non so, non credo che Bonucci potrà, dopo il ritiro, arrivare ad avvicinare il mito di Gaetano Scirea. Anche perché l’era tecnologica è quella dei miti freddi (passeggeri) e non dei miti caldi (quelli duraturi), per dirla alla Roland Barthes. Di certo da lui mi aspetto l’ultima grande impresa taumaturgica: curare la Juventus dall’allergia alle finali di Coppa Campioni. Magari con un gol al 91esimo. Da vero difensore della Juventus, quelli con la vocazione.

di Giancarlo Liviano D'Arcangelo