Forse alcuni miei compagni non hanno capito quello che stiamo passando. Siamo una squadra yo-yo: alterniamo sconfitte e vittorie e questo non mi piace, siamo la Juventus. Stiamo buttando la possibilità di vincere il quinto campionato di fila, dobbiamo rispettare questa maglia“.
Sassuolo è una ferita fresca di qualche giorno e, per forza di cose, non si può ancora avere la piena contezza del peso e dell’importanza che avranno le parole di Buffon. E’ la vigilia del derby e non sono per niente tranquillo: a preoccuparmi non sono il gioco che latita, i 12 punti in 10 partite, le voci su un Allegri traballante, una ricostruzione che sembra fallita ancor prima di cominciare. A non piacermi è l’aria che si respira intorno alla squadra, la sfiducia e la rassegnazione tipica dei (ne)fasti delneriani che credevo sepolti per un bel pò. C’è però una differenza sostanziale, che riesco a cogliere anche quando sarebbe legittimo vedere tutto nero (senza il bianco): oggi c’è Patrice Evra. Uno che non si limita a metterci la faccia, perché a quello son buoni (quasi) tutti. Lui ha il coraggio di dire la verità che, molto spesso, equivale a dire ciò che serve. Anche se sono parole molto più dure di quelle preconfezionate che, solitamente, si danno in pasto alla stampa. Lo aveva già fatto dopo Napoli (“Non cerco scuse, siamo tutti responsabili non solo i giovani […] Io vivo nel presente, non nel passato e non mi piace parlare dei calciatori che erano qui prima. Non avverto una squadra nel panico. Se la gente vuole cercare alcune scuse come aver cambiato tanto in estate, io non lo accetto“) lo fa anche stavolta. E mi costringe a rivedere alcune mie convinzioni.
Sono le 16.48 di domenica 8 novembre 2015 quando capisco che la Juventus di Allegri 2.0 non può prescindere da uno così. A questo punto della stagione, nel bel mezzo di un guado n cui siamo andati a cacciarci con le nostre mani, la tattica, la tecnica, i moduli contano fino a un certo punto. Se non ci si può arrivare con la fluidità di gioco, ci si deve arrivare con la forza della mente. E, da questo punto di vista, non c’è Alex Sandro che tenga: Patrice Evra ha la mentalità giusta, la mentalità vincente. Che non sempre si traduce in risultati positivi, ma ti consente di alzarti la mattina e guardarti allo specchio con la consapevolezza di chi ha fatto quanto era in suo potere per cambiare ciò che non gli andava a genio. Giocasse in Argentina ci avrebbe messo due secondi a farsi riconoscere come un hombre vertical, un uomo che ha un suo modo di stare in campo e al mondo: a testa alta, rifiutandosi di perdere, che sia contro il Barcellona in finale di Champions o contro il Sassuolo nel bel mezzo di un’annata nata male e che rischia di concludersi peggio.
Nelle settimane successive mi ritrovo a fare quello che avrei giurato di non fare mai più: vale a dire guardare le interviste del post partita nella speranza che ci sia lui a dire la cosa giusta, al posto giusto, nel momento giusto. Del calciatore mi interessa il giusto, ad avermi conquistato è l’uomo. Non è un fatto di personalità (sarebbe riduttivo), ma del carisma, del magnetismo, della presa che ha su chi ha la fortuna di ritrovarsi ad ascoltarlo. E se mi sento gasato io, dal divano di casa, posso solo immaginare l’effetto che possa fare in uno spogliatoio sentir parlare uno così: che ha vinto tutto e che non ha intenzione di smettere. Passano i mesi e le vittorie consecutive: da tre, a cinque, a sette e poi a dieci, dodici, fino a quindici.
E più passa tutto questo più Patrice Evra mi fa capire quanta responsabilità ci sia intorno alla Juventus. Nel giocarci, certo, ma anche nel tifarla, nel sostenerla, nello sposare una mentalità che con il calcio c’entra fino a un certo punto.
Perché Evra sono anche io che ogni giorno devo alzarmi con la consapevolezza che dovrò lottare per prendermi ciò che mi spetta, visto che nessuno me lo regalerà. E dovrò farlo senza cercare scuse, perché quello lo fanno gli altri, non io, non Patrice Evra, non chi gioca o tifa per la Juventus. La pesantezza di questa maglia non è nel palmarès ma nella forza delle idee che hanno rappresentato gli uomini che l’hanno indossata. Più ci dicono che cederemo perché siamo stanchi, più lui dice che “chi è stanco non è da Juve“, più ci dicono che questo ritmo alla lunga non è sostenibile, più lui dice che: “ho tutti i giorni in testa il quinto scudetto di fila. E’ quello l’obiettivo, è troppo importante e se devo cominciare a piangere e dire che sono stanco, vuol dire che non sono da Juventus“, più ci dicono che il Bayern ci triturerà, più lui dice “io ci credo, ma bisogna andare a Monaco per vincere e passare il turno“.
E prendetemi pure per pazzo ma se ci crede lui ci credo anch’io. Ci crederei e lo seguirei anche se mi dicesse “oggi prendiamo e andiamo a conquistare non Monaco ma la Germania intera“. Perché non posso non credere a chi dice: “Se non avessi questa convinzione, chiederei al Mister di lasciarmi fuori contro il Bayern“.
Anzi, vi dirò di più. Subito dopo la partita d’andata il mio primo pensiero è stato quello che all’Allianz Arena saremmo dovuti partire con Cuadrado e Alex Sandro sulle fasce per giocarci il tutto per tutto, senza rimpianti. Ma adesso credo sia giusto debba giocare Patrice. Perché lo ha voluto. Perché lo ha meritato. Perché ci ha creduto quando nemmeno noi, forse, ci credevamo più. E non sarebbe giusto togliergli ciò che gli (e ci) spetta di diritto quando è anche grazie a lui che ce lo siamo andati a riprendere.
Claudio Pellecchia.