“Andrà pesato con i gol”.
Una volta sgretolata anche la penultima certezza (perché nel calcio ce ne sarà sempre una successiva da gettare dal balcone) sul senso e l’apporto di Mario Mandzukic per le sorti della Juventus, l’estate del dopo-Tevez viene definitivamente archiviata.
Ma allora perché Mandzukic? Perché questo attaccante di rabbia e senza piede dolce, privo di scatto bruciante o di congenita dimestichezza negli uno contro uno, neppure quelli che mettono a tu per tu con il portiere avversario? Domande amplificate dal primo mese di campionato, con i tacchetti incollati al prato verde. Voglio ma non posso, voglio ma non riesco. Sono Mario, per dio!
Ora lo si è capito meglio. Mandzukic perché incarna lo spirito osseo delle necessità storiche della Juventus. Non il ruolo. Ho scritto lo spirito. E per ora può bastare. Potrà durare un anno, oppure tre, oppure la giusta parentesi per rendere omaggio e continuità a un ciclo storico, di quelli che assegnano il proprio nome alle pietre. Certo, i gol nel rimasuglio della futura memoria peseranno eccome. Ma diverso è essere traino e al contempo finisseur dentro una macchina perfetta (senza andare a Inzaghi o Trezeguet, che traino non lo sono mai stati, basta fermarsi sul Tevez dei 102 punti o sullo stesso Mandzukic dell’EuroBayern) e un conto è esserlo dentro una creatura strutturalmente in divenire come questa edizione della rosa bianconera. E’ lì dentro che il fuoriclasse nella testa deve trovare la sua dimensione per essere davvero tale. Il finisseur se ne fregherebbe, lui ha altro da fare, ha altro a cui dedicarsi perché spesso e volentieri di cosa ne sa fare una sola (magari anche tremendamente bene). La chiave è un’altra: essere parte integrante della ristrutturazione intepretando le necessità. Mandzukic fin qui ha fatto questo, andando oltre.
L’oltre riguarda le conseguenze. Tra queste la rappresentazione carnale del tifo, tracimante da ormai un paio di mesi, non a caso in corrispondenza della svolta di risultati, debordante allo Stadium ed efficace anche nelle trasferte con supporters al seguito. E detto che i conti si fanno sempre e solo alla fine, e che questo è un pre-tributo senza pretese postume prima del momento della verità stagionale (non solo Allianz Arena, non fraintendiamo), siamo dentro la catena generazionale che nell’era dei tre punti e della dicitura Champions League viene tramandata con pochissimi solidi nomi. Gianluca Vialli, Antonio Conte, Edgar Davids, Pavel Nedved e Arturo Vidal. Coloro che possono trasportare macigni quando la carretta pare reclinarsi. Ovvero coloro sui quali cade lo sguardo comune nel momento delle emozioni sospese o della paura, meglio ancora se dalle tribune piuttosto che in televisione, dove sovente si cerca e non si trova.
Diciamolo: Mandzukic, nei momenti ispidi, è oggi il termometro della squadra. L’immedesimazione del pubblico è l’approdo del bisogno di sentirsi difesi e rappresentati da qualcuno. Solo Chiellini, a tratti, gli si avvicina in questo “fondamentale”.
Dov’è Mandzukic?
Cosa fa?
Ne ha ancora?
Inseguili tutti!
E dai, servirebbe vincere qualche contrasto adesso…
Ma cavolo, spaventiamoli!
Dai dai daiiiiiii.
Da qui alla fine sarà sempre più così, condizione fisica permettendo. La premessa sono le quattro finali giocate dalla Juventus in questo 2015/16. E questa è la sequenza di Mario: Juve-Napoli assente, Supercoppa Lazio gol, Manchester City qua e là senza pietà. Tanto, ma mai abbastanza. Il lavoro per i compagni e per il partner (Griezmann si lecca ancora i baffi, Dybala un giorno capirà ma nel frattempo sarà diventato una cosa grandissima), l’abnegazione applicata anche nel defilarsi, i ripiegamenti. Tantissimo, eppure non ancora abbastanza. Mai abbastanza, se sei alla Juve. Mandzukic l’ha capito prima. Del talento e di chi sia meglio o peggio ne parliamo dopo. Ci sono ancora troppe spallate e troppe spaccate in questo truce cantiere di fine stagione. Al che, se vorrete ancora, lo peseremo anche con i gol.
Luca Momblano.