“C’è un momento di profonda solitudine – a volte dura un secondo, a volte dura soltanto una frazione di secondo -, quando stai per fare una cosa e i tuoi avversari non sanno cosa farai, i tuoi compagni non sanno cosa farai, e soprattutto non lo sai ancora neanche tu: lì il calcio non è più uno sport di squadra, e sei solo con la palla che sta arrivando. In quel momento conta enormemente come stai, come ti senti fisicamente, che motivazioni hai; conta il lavoro che hai svolto in allenamento, conta se senti o no la stima dell’allenatore e dei tuoi compagni, conta come ti va la vita privata, conta tutto. E sei solo. Se nel fondo di te stesso non stai bene, in quel momento farai sicuramente la cosa più ragionevole, la più conservativa, e dunque, alla fin fine, la più prevedibile: farai di tutto per uscire da quella solitudine, per riunirti subito a compagni e avversari in una logica di gioco che valga per tutti. Ma se invece stai bene, se sei in pace con te stesso e con il mondo, allora quell’attimo di solitudine diventa un vantaggio immenso, perché puoi liberare l’istinto e fare quello che devi mentre ancora nessuno sa cosa sia, nemmeno tu. Diventi quello che fai, per così dire, sparisci nel tuo gesto. Sono momenti di grazia assoluta, il vero nirvana del gioco del calcio. Le cose più belle che ho fatto nella mia carriera le ho fatte così, nel fondo di questa solitudine, svuotato di ogni pensiero e dunque libero dalla pressione psicologica, dagli schemi del mister, dalla ragionevolezza, da ogni logica di azzardo o convenienza: le ho letteralmente fatte e basta. Sono momenti così belli, così pieni di quel nulla preziosissimo, che poi, ovviamente, non li ricordo: ricordo il subito prima e il subito dopo, ma il momento magico svanisce, perché è un dono talmente puro che basta a se stesso. E’ come non esserci più, o meglio, è come esserci in una forma diversa, più alta e misteriosa, inconcepibile, istintiva, extranaturale. E’ meraviglioso” (Alessandro Del Piero “10+, il mio mondo in un numero”).
Io invece, caro Ale, so esattamente cosa Paolino sta per fare. L’ho capito nel momento in cui Cuadrado gli ha dato quella palla lì, in quel modo lì, in quel momento lì. Certo non l’ha stoppata benissimo, un tocco di troppo, ma ci ha messo un attimo per coordinarsi di nuovo. Io ho già visto tutto questo, ho già visto quel tiro lì, in quello spazio lì, in quel momento lì, ma lui l’ha già visto prima di me. Tant’è che non urlo “tira!” (non ne ho avuto il tempo) ma direttamente “gol!” perché ho già visto quel tiro lì, in quel modo lì, in quell’angolo lì, in quel momento lì.
E mentre la palla va dove deve andare e Paulo è già girato verso la Sud perché sa come va a finire quando fai quel tiro lì in quel momento lì, in un battito di ciglia rivedo il Borussia e la Steaua, i Rangers e il Real Madrid: tutti storditi dalla bellezza di quel tiro lì, in quel modo lì, in quel momento lì. Un battito di ciglia, pallone all’incrocio, il grido che da solo mio è diventato di tutti, un sorriso ripensando a quel che ho (ri)visto prima di capire tutto: è di nuovo il 1996. Ed è bellissimo.