Dormire? Spero stiate scherzando. Non dopo questa notte così. Non dopo le ennesime lacrime per questa coppa maledetta che proprio di dirci bene non ne vuol sapere.
Di Atene e Amburgo ne ho solo sentito parlare per mere questioni spazio-temporali, ma mi è stato detto che trattavasi di una di quelle serate dove se qualcosa può andarti bene o male ti va peggio e quindi Magath che indovina il gol della vita e tanti saluti. Dell’Heysel che pure (e per fortuna) mi sono perso ho rimosso ogni frammento dei filmati visti e rivisti su Youtube: mi pare di ricordare un discusso rigore realizzato da Platini e poco altro. Anzi niente. Come Zero. Come Zeta. Come quel settore maledetto di quello stadio maledetto.
Di Roma ricorrerà quest’anno l’anniversario: vent’anni, una vita fa normalmente, figuriamoci nel calcio. La maglia blu, i laccetti che tenevano su i calzerotti di Del Piero, il nonno che mi sorride (lui, tifoso del Napoli ma che proprio non ce la faceva a vedermi giù) e mi dice di non preoccuparmi dopo il pareggio di Litmanen, perché “ci vedeva meglio”. Aveva, ancora una volta, ragione lui. Non potete immaginare quanto mi manca.
L’anno dopo, invece, fu una botta. Forse la peggiore di quelle passate e di quelle che dovevano ancora arrivare. Eravamo più forti. Eravamo quelli che avevano scherzato l’Ajax a domicilio. Eravamo quelli che Sir Alex aveva preso a modello per la squadra che poi, di lì a poco, avrebbe vinto tutto. Eravamo quelli di Tokyo e dell’1-6 a Parigi, con il PSG trattato come un Troyes qualunque. Semplicemente, eravamo la squadra più forte del mondo capace di vanificare uno dei gol più belli della storia delle finali di Champions per aver sottovalutato la serata di gloria di tale Lars Ricken. Che, poi, è quello che accadde anche l’anno dopo quando fu Hellmut Krug a vestirsi da Ricken, valutando che mezzo metro non fosse una distanza sufficiente per fischiare un fuorigioco a Mijatovic
Il 1999, invece, a distanza di anni è qualcosa che ancora non mi spiego. Perché se in campionato anticipammo ciò che avremmo visto più tardi con Del Neri e Ferrara/Zaccheroni, in quelle notti che di solito non ci dicevano bene, facevamo faville. Anche senza Del Piero e con uno Zidane a mezzo servizio. Ma con un Davids ai massimi storici, un Antonio Conte che spense il Pireo a due minuti da un’eliminazione certa e un Inzaghi che ci fece sperare che quelli del Sir Alex di cui sopra non avessero ancora appreso la lezione. Quando, invece, l’avevano appresa alla perfezione, come avrebbero poi dimostrato nel secondo tempo della semifinale a Torino e nei 100 secondi finali dell’ultimo atto a Barcellona.
Di Vigo e dell’Atene di verde (del Panathinaikos) vestita ho in mente solo l’insonnia a posteriori, un pò come stanotte. Diversamente dal rigore con cui Alex concesse a Molina l’onore delle prime pagine della Galizia intera e dal 2-0 a Leverkusen. Ma, soprattutto, diversamente dalle lacrime di Pavel. Che, il 14 maggio 2003, furono anche le mie e quelle di un intero popolo. Perché se anche in coda alla partita perfetta (e dopo un cammino che ti aveva visto eliminare il Deportivo al novanta e non si sa cosa esimo e il Barca al Camp Nou grazie agli antieroi più antieroi di tutti) a prevalere deve essere il rimpianto, allora ditecelo prima e non ci mettiamo più il pensiero. Quel che sarebbe stato a Manchester lo intuì nel momento dell’apoteosi con il Real. Anche se il cuore lottò per prevalere sulla ragione fino al rigore di Sheva (lo so, dovrei odiarlo ma non ci riesco). O fino al morso di Suarez che servì a riportarmi giù dal luogo in cui Alvaro e il suo 3/3 tra semifinali e finale mi avevano catapultato.
E così anche stasera. Ho capito tutto quando Muller (lui si che riesco benissimo a odiarlo, soprattutto perché ha capitalizzato un errore di Evra, quello che l’avrebbe meritato meno di tutti) ha fatto gol al pallone toccato numero tre, nonostante i 70 minuti europei più belli degli ultimi dieci anni. Perché Capello aveva una squadra troppo brutta e troppo forte per essere vera, Ranieri bene ma non benissimo fatta eccezione per ADP e il Bernabeu (anche se il gol di Iaquinta al Chelsea fu un capolavoro) e Conte si trovò a pagare un progetto ancora troppo precoce, nonché una nevicata di proporzioni omeriche in un posto dove la prima volta che ci metti piede a tutto pensi tranne che alla neve.
Certe notti, queste notti, per noi sembrano andare così. Sogno, speranza, disperazione, lacrime, voglia di ripartire nonostante tutto e nonostante tutti. Perché in fondo, per quanto possano andare quasi sempre male, certe notti, queste notti, “somigliano a un vizio che non voglio smettere mai“. In attesa di rimettere in pari i conti con il destino.
Dormire? No, non ancora. Preferisco restare alzato ancora un pò, tanto ci ho fatto l’abitudine. Come sei bella, Juve mia.
p.s. per rispondere all’ottimo Simone Navarra: Eupalla è una stronza.
Claudio Pellecchia.