Per ovvie ragioni anagrafiche mi risulterebbe difficile parlare con cognizione di causa del Cesare Maldini calciatore. Testimonianze e filmati dell’epoca lo descrivono come un difensore avanti ai suoi tempi, nato come difensore di fascia (uno dei primi ad esprimersi al meglio nella doppia fase) e poi evolutosi come libero dagli eccellenti mezzi tecnici, un autentico lusso nel calcio italiano di fine anni ’60. Certo, magari potrei aiutarmi avventurandomi in uno scontato paragone con Paolo (lui si visto giocare dal vivo, per fortuna) dato che il percorso prettamente tecnico, fatte le debite proporzioni, è stato simile: ma sarebbe ingiusto nei confronti dell’uno e dell’altro. Per questo mi piacerebbe parlare di lui nell’unico modo che conosco, che è anche l’unico che mi è possibile: legandolo, cioè, al Mondiale del 1998, il primo di cui abbia avuto effettiva contezza visto che nel 1994 avevo 6 anni e, per darvi un’idea, nella mia visione delle cose tutti i rigoristi nella finale con il Brasile erano Roberto Baggio.
Il ‘mio’ Cesare Maldini, è e resterà sempre il commissario tecnico della Nazionale che andò a Francia ’98. Dal mio punto di vista una delle tre più forti di sempre, anche più di quella che avrebbe trionfato in Germania otto anni dopo. Un uomo, prima ancora che un allenatore, che mi trasmetteva un inspiegabile ma rassicurante senso di tranquillità, oltre che a suscitarmi una naturale simpatia, forse anche per via della divertentissima parodia di Teo Teocoli (che, però, il diretto interessato pare non gradisse).
Mai sopra le righe, mai una polemica, mai una parola fuori posto, mai qualcosa che tradisse l’inquietudine di chi era chiamato a fare uno dei mestieri più ingrati di sempre: il commissario tecnico di una Nazionale che di ct ne ha, come si sa, altri 56 milioni. Sembra scontato, lo so: eppure, credetemi, nel calcio strillato e frenetico di oggi, uno così, tutto d’un pezzo, saldo nei propri principi di educazione e rispetto (dato sempre, ricevuto a fasi alterne, soprattutto dalla stampa) si fa fatica a ritrovarlo. Ed è per questo che mancherà ogni giorno di più.
Questo l’uomo, sul quale continuare a soffermarsi vorrebbe dire scadere nel retorico. Sull’allenatore il discorso si fa un pochino più complesso. Anche perché filtrato dal me decenne che, allora come oggi, non si spiegava come mai non facesse giocare assieme Baggio e Del Piero, oppure perché il talento di Enrico Chiesa fosse stato imbrigliato in fascia nel secondo tempo della partita con la Norvegia. Col tempo, poi, mi sono reso conto che queste e altre scelte, più o meno discutibili, altro non erano che il frutto di un background più trapattoniano che lippiano (giusto per restare in tema di commissari tecnici), figlio di un calcio vecchia scuola in cui il 4-4-2 era una coperta di Linus troppo comoda per non essere esperita. Non me la sento, però, di fargliene una colpa, anche perché il tutto va riferito al contesto storico dell’epoca: che, per chi se lo fosse dimenticato, parlava di una Under 21 allenata magnificamente e reduce da tre trionfi consecutivi agli Europei di categoria a metà degli anni ’90. Nessuno, quindi, meritava quel posto più di lui. Posto, tra l’altro, abbandonato con la consueta signorilità dopo una sconfitta ai rigori con la Francia poi campione che avrebbe preteso tributi meno onerosi delle dimissioni.
Poi il cameo con il Milan nell’anno di (dis)grazia 2001, l’eccellente Mondiale nippo-coreano alla guida di un sorprendente Paraguay (eliminato agli ottavi dalla Germania finalista) e, infine, il silenzio. La colonna sonora migliore, nonché quella preferita, per accompagnarlo fuori da quel mondo nello stesso modo in cui vi era entrato: in punta di piedi, senza disturbare, perché chi ha carattere non alza (quasi) mai la voce. Un insegnamento che ho ritrovato in Paolo, leale e degno avversario di mille battaglie e che spesso mi sono ritrovato ad invidiare: chissà come deve essere stato crescere con accanto un uomo del genere, mi sono chiesto spesso.
Così come, qualche giorno fa, quasi per caso, mi sono chiesto cosa stesse facendo, come se la stesse passando. Un pensiero fugace, prima del consueto concentrato di ansie e timori in vista del sabato sera con l’Empoli. Risvegliarmi il giorno dopo con la notizia della sua scomparsa mi ha lasciato un profondo senso di malinconia. Se n’era andato un altro pezzo della mia infanzia e una delle poche testimonianze viventi di un un calcio non più possibile: forte, leale, rispettosa dell’avversario, con la stretta di mano di inizio gara sincera come quella data nel finale. Un calcio che è utopia pura rispetto agli isterismi che, anche in queste ultime ore, stanno animando il campo e tutto il rivedibile carrozzone che gli sta attorno. Un calcio per il quale ho una profonda nostalgia, pur non avendolo mai vissuto. Perché dev’essere stato meraviglioso vedere Cesare Maldini al tempo di Cesare Maldini.
Marotta: «Maldini, un esempio»
«È una perdita importante per il calcio. Ora è un business e ha perso l’identità che c’era a quei tempi». I tempi sono quelli di Cesare Maldini, primo italiano a sollevare al cielo una Coppa dei Campioni con il Milan, nel nel 1963 , commissario tecnico prima dell’Under 21, con cui vinse gli Europei del 1992, 1994 e 1996, quindi della Nazionale maggiore ai Mondiali di Francia del ’98.
Le parole sono quelle pronunciate da Giuseppe Marotta, presente al funerale di Maldini, scomparso a Milano due giorni fa. «Lo guardavo in TV, partite in bianco e nero con Cesare Maldini e Scirea – ha aggiunto l’amministratore delegato della Juventus – Hanno generato emozioni indimenticabili. Ho preso ad esempio Maldini anche dal mio punto di vista dirigenziale, soprattutto nella tranquillità che è riuscito a trasmettere»