Il 10 affibbiato l’estate scorsa a Pogba dopo la dipartita del turpe Tevez si prestò a diverse letture, oscillanti fra la paraculata commerciale e il tentativo di responsabilizzare il francese e farne un leader effettivo. A campionato non ancora finito ma incanalato è possibile stilare un bilancio di questa iniziativa e della stagione del buon Paul Labile, che peraltro avrà la coda potenzialmente prestigiosa dell’Europeo.
E il verdetto è che il trucco ha funzionato. Con calma, ma ha funzionato. Non è stata una passeggiata: divenire da elemento decorativo seppure lussuoso, da succulenta ciliegina su una torta collaudata, leader di un centrocampo da rifondare non poteva esserlo, del resto; ma all’inizio Pogba, forse gravato dalle aspettative e dal peso simbolico della maglia che non è – evidentemente – solo un trito luogo comune, è apparso in difficoltà, acerbo, superficiale pur nella classe cristallina, talvolta svagato, sovente implacabile nello scegliere, fra diverse possibili, quasi sempre l’opzione di gioco sbagliata per eccesso di svolazzo, di cineseria, di ricerca del difficile o dell’astruso fine a se stesso, come certi musicisti virtuosi che si suole definire senz’anima. Senonché appunto il musicista virtuoso sarà pure, per i detrattori, “senz’anima”, ma ha pur sempre in dote la tecnica e la pulizia che altri comunque non avranno: e a gioco lungo la qualità s’impone per chi non è sordo (absit iniuria) sul grezzo “de core”. Pogba è cresciuto piano, sferzato da un Allegri saggio ed equilibrato, comprensivo sulle incertezze di un giovane (di quelli che sembrano vecchi perché in giro da un pezzo ma giovane assai) e inesorabile nel richiamarlo al dovere di essere all’altezza di se stesso e del suo talento, e seppure imperforabile dalle sollecitazioni di liberare PP dalle incombenze del centrocampista a tutto tondo per sistemarlo dietro le punte, a risolvere definitivamente il rebus tattico lasciato aperto dal mercato estivo. No, Pogba mezzala era e mezzala è rimasto: crescendo però armoniosamente, con tutta la squadra uscita dal torpore e dalle macerazioni dei primi due mesi. Fino a diventare, da ancora dispensabile in un Lazio-Juve dell’andata sostituito egregiamente da Asamoah nella sua miglior apparizione stagionale, a imprescindibile e strapotente. Paradossalmente la massima esibizione di questa forza è venuta nella peggior partita della Juve dopo ottobre, l’improvvida scampagnata a San Siro per il ritorno di coppa Italia con l’Inter: quando è entrato, complice quanto si vuole la stanchezza degli avversari, ha dato la plastica impressione di poter ribaltare l’esito da solo, in pochi minuti, quasi con la mera presenza. E poi i gol e gli assist, sempre più puntuali. E insieme, come altri hanno qui giustamente sottolineato, uno sbattimento difensivo mica da ridere, poco appariscente e infatti sottovalutato ma sostanzioso.
Insomma il richiesto salto di qualità è stato fatto, la dimensione internazionale sostanzialmente raggiunta, appena da consolidare (ma vale anche per la squadra che non può essere variabile indipendente), la firma sull’ancora indicibile ma che presto dovrebbe esser detto nitida e vistosa, la leadership conseguita.
Il 6 è davvero diventato 10. E – il bello – ancora con margini assai ampi di miglioramento.
Come e dove vada a finire un discorso del genere è ovvio.
Quindi non lo scriveremo.
Massimiliano Mingioni