Sono frocio e napoletano, ebreo e juventino, romano e abruzzese d’origine. Se volete aggiungere qualcos’altro fate pure. Questa discussione sull’essere e sulla differenza fa ridere. Perché comincia da una partita di pallone e da quanto dice un allenatore di calcio nel momento della rabbia. Cosa conta? Cosa conta quello che strilla quell’uomo che perde una partita? Maurizio Sarri è un pedalatore onesto, di quelli che trovi nel mondo dello sport nella parte dei preparatori atletici, dei mister contenti per esser chiamati così, all’inglese, loro che di straniero non hanno nulla. Sono pane e salame, zuppa di fagioli e schemi semplici, tanta ginnastica e poco gioco, muscoli e applicazione. Non è antipatico questo soggetto cresciuto nell’Empoli e andato al Napoli per vincere. Ha preso una squalifica di poco o niente pur avendo offeso un collega con parolacce che sanno di ortaggi e pregiudizi. Sicuramente ha avuto un peso il fatto che uno dei grandi elettori di Tavecchio sia il presidente partenopeo De Laurentis, e quindi la valutazione che si fa di Sarri e delle sue parole deve essere comprensiva anche del buon giudizio finale che ha avuto.
Le parole sono importanti, diceva un poeta ammazzato un po’ d’anni fa. Facendo i cattolici aggiungiamo che se viene offeso o vilipeso chi non si può difendere si realizza un peccato, si colpisce l’uomo sulla croce. Ogni volta che voltiamo lo sguardo davanti alla ignominia un pezzo della nostra anima va a farsi benedire, sparisce. Però l’allenatore dell’Inter, Roberto Mancini, non è il prigioniero legato ad un palo. Secondo quanto afferma un cronista della Gazzetta dello sport non sarebbe nemmeno così rispettoso di differenze e arcobaleni. Quanto avvenuto sul terreno dello stadio di Napoli forse allora doveva rimanere lì, od al massimo a poca distanza dal rettangolo verde. Ma affermare questo concetto cosa significa? Avallare le offese ai napoletani oppure ai romani in quanto tali cosa è, dove porta? Chi tifa Juventus sa che in fondo al tunnel c’è lo scempio della logica e della giustizia che è stato compiuto nella primavera-estate del 2006. Lo si sente dentro questo carico di fango ingoiato e ogni vittoria, da qualche anno in qua, è solo un lenitivo, un qualcosa che accarezza. La cura è però ben altra cosa.
Difendere Sarri e le sue parolacce è tutto questo. Le offese di De Rossi a Mandzukic sono la stessa cosa. Appartengono alla categoria delle cose imparate nella strada, nei campi di calcio fatti con maglioni e zaini, nelle periferie di città dove i diversi hanno poco e quel tanto che basta lo prendono con la forza. Il panorama è frastagliato e guardare una partita di pallone non è mai solo una cosa. Guardare Dybala segnare non è solo quello. Perché si pensa al papà che non può vedere quei goal, ai fratelli sfortunati, a tutto quel Sud America che non conosce razze tanto sono confuse e mescolate le provenienze. E’ questa la loro forza, direbbe Gianni Brera. Scrivere di Sarri è allora un modo per spiegare a De Rossi che ha sbagliato, ma non perché ha litigato con un avversario legnoso e che sa usare i gomiti. Bensì per lo sport che viene visto in tv, dai bambini che ormai leggono i labiali, che imitano i campioni, che fanno i De Rossi ogni volta che prendono a calci un pallone.