Il 27 maggio 2004, giorno della morte di Umberto Agnelli, per tutti il Dottore, si intrecciò a filo doppio con quello dell’annuncio di Capello sulla panchina della Juventus.
Fu un tutt’uno, come a voler far capire ai tifosi: tranquilli, di Agnelli in sella ora non ce ne sono più (il più vicino era all’epoca poco più che maggiorenne ed era ancora perso negli studi dall’altra parte del mondo) ma c’è una società salda che vi regala il più forte allenatore sulla piazza, dopo una stagione anonima, sia in campionato che in Champions.
Sembrava davvero un segno del destino, quello. Una società che aveva imparato a camminare con le sue forze, e ne dava un segnale proprio nelle ore dell’uscita di scena di un uomo silenzioso, carismatico, ma mai quanto il fratello, che però si era preso la Juve una decina di anni prima insieme alla triade ed aveva costruito una squadra imbattibile…
Quasi.
Perché se quello che appariva a molti, in quei giorni, era proprio l’immagine di società forte nonostante tutto, ciò che covava sotto la cenere era qualcosa di completamente diverso. La morte di Umberto, infatti, sarebbe coincisa con l’inizio del periodo più nero della storia della Juve. Le intercettazioni di Calciopoli, avremmo saputo, cominceranno qualche mese dopo e si protrarranno per tutto il campionato successivo.
E per quanto ci si sforzi, il pensiero che proprio questa assenza (di Umberto, e della Famiglia in generale) abbia favorito tale iter (iter, dal latino, strada, senza la “n”, che avete capito!), indebolendo dalle fondamenta la Società, soprattutto nel momento cruciale dell’estate 2006, è forte, fortissimo.
E quasi viene da chiedere scusa, guardando quello che oggi sta facendo il ragazzino che all’epoca era appena maggiorenne e perso negli studi dall’altra parte del mondo, se per un solo istante qualcuno aveva pensato che potesse esistere una Juventus forte senza un Agnelli che la aiutasse a scrivere la storia, giorno dopo giorno.