L’insostenibile e inutile peso della numero 10

Da bambino anche io volevo la numero 10. Come tutti. Anzi, mi sa che qualche volta l’ho pure indossata: era una di quelle maglie d’acrilico che danno nelle scuole calcio di quart’ordine, che ti facevano sentire un freddo fottuto d’inverno e un caldo infernale d’estate. Risultati alterni. Quindi optai per una meno responsabilizzante 9, convinto che il mio futuro da calciatore sarebbe stato da Pippo Inzaghi di poveri(ssimi). Respinto con perdite anche lì. Poi un progressivo scalare di ruolo, alla Zambrotta: esterno alto, esterno di centrocampo, terzino, difensore centrale. Prima di rendermi conto che, forse, era il caso di dedicarsi ad altro di meno impegnativo.

Probabilmente è per questo che, per la seconda volta nelle ultime sei stagioni (credo sia un record, ma vado a memoria e quindi mi sbaglierò certamente) la nostra 10 resterà senza padrone. Il peso della responsabilità. Non tanto e non solo quella tecnica quanto, piuttosto, quella che, in una visione romantica che non ha più motivo d’essere nel calcio di oggi, vuole il diez legato alla patria in cui ha deciso di essere profeta indossando quel numero. E, sarà un caso, ma gli ultimi due diez hanno avuto vita relativamente breve e concluso il loro percorso in bianconero in maniera rivedibile. Fuori dal campo, of course. Dentro tanta roba entrambi, ma le modalità dei saluti (parere strettamente personale), benché diverse, hanno un comune punto di contatto nella rivedibilità della gestione della separazione consensuale (?). Modalità che non possono essere analizzate in questa sede ma che costituiscono comunque una parte del problema.

L’altra, ovviamente, siamo noi. Che ci ostiniamo a dare importanza a qualcosa che importante non è più. Il ’10’, anzi un ’10’, oggi non significa nulla. C’è chi lo ha fatto indossare a Boateng e Honda, chi lo ha ritirato in onore di chi avrebbe fatto carte false per andare al Marsiglia, chi pensa di ritirarlo per uno che non ha ancora capito che contro ‘Father Time’ non può vincere. Come possiamo, perciò, pretendere, che un calciatore del XXI secolo comprenda la sacralità di certi gesti? Come possiamo pensare che un professionista, alla ricerca del meglio (per se stesso), anteponga al conquibus concreto qualcosa di empirico come l’importanza di un numero che significa qualcosa solo per gli altri?

E’ per questo che mi stupisco dello stupore di queste ore. La Juventus non ha un numero 10. Ce ne faremo una ragione. Non sarà per questo che vinceremo o perderemo tutto. E magari Dybala davvero non se l’è sentita solo per un mero fatto scaramantico e non per evitare che, dopo quell’offerta del Barcellona che, presto o tardi, arriverà e ce lo porterà via, qualcuno gli possa rinfacciare di essere un traditore e/o un mercenario di tifosi, squadra, maglia e numero. Oppure, tempo una settimana e arriverà chi quel numero lo richiederà espressamente, per una, due dieci (toh) stagioni. Sono tutti problemi relativi, soprattutto al cospetto del vero tema fondamentale: l’accettazione di una realtà che non ci piace, ma c’è ed è evidente. E cioè che cambia il calcio, cambiano i calciatori e devono cambiare anche i tifosi. Ancora legati ad una concezione ancestrale e superata di questo gioco che ci fa impazzire (non sempre nel senso buono del termine) e ancora alla ricerca dell’erede di uno degli ultimi veri 10 (sempre in relazione all’idea che tutti hanno di un VERO 10)

Il quale, tempo fa, nella prima delle sue due dimenticabilissime fatiche letterarie, scriveva: “Il 10 è il mio numero. E’ il numero che ho sempre sognato nella mia vita calcistica. Ma non l’ho avuto subito, ho dovuto rincorrerlo. Ho iniziato a giocare con il 7: da cui, poi, la decisione di riprendermi quello in Nazionale. Ho continuato con il 9 negli ultimi anni delle giovanili del San Vendemiano. Sempre con il 9 ho fatto tutte le giovanili del Padova. E sempre speravo che, per qualche ragione, mi venisse dato una volta quel cavolo di numero 10 che mi faceva sognare. Niente. E quello che giocava col 10? Non dico che mi stava antipatico però pensavo: ma perché sempre a lui e mai a me”?

Già. Perché?

 

Claudio Pellecchia.