Ogni dimora è un candelabro dove ardono in appartata fiamma le vite.
(Jorges Luis Borges)
. “Casa” è dove puoi ballare con qualcuno, e la danza è vita.
(Stephen King)
Quarantamila juventini uniti in un solo corpo, in un superuomo imbattibile forte di ciascuno di quella moltitudine di spiriti che bramano lo stesso obiettivo. Nei loro occhi, undici combattenti. Undici cuori impavidi in grado di assorbire l’energia contenuta nei boati e trasformarla in voglia di vincere.
Quando lo J-Stadium si riempie, e nell’attimo in cui la squadra scende in campo, avviene la scarica: e tutti quelli che poco prima erano uomini coscienti della propria individualità e delle distanze incolmabili con gli altri, di colpo si sentono uniti. Ogni diversità sugli spalti è abolita per 90 minuti, e ogni juventino è vicino all’altro come a sé stesso. Il rumore è assordante. Modulazioni diverse, oscillanti tra ronzii e boati, e più forte è il rumore più significa che l’azione è decisiva, più è evidente che ci si può avvicinare da un istante all’altro al momento magico, al culmine orgasmico del gol.
Fiato in gola, e fragore nei polmoni. Fino alla fine. Di ogni match, di ogni campionato, di ogni coppa, e ancora e ancora in quelle che verranno.
È questo lo scenario che ogni tifoso bianconero ha percepito davanti a sé, all’orizzonte della propria immaginazione, quando la dirigenza della Juventus ha annunciato, nel marzo del 2008, la costruzione di un nuovo stadio di proprietà sulle ceneri dello Stadio delle Alpi, casa fredda e angusta in cui la Juventus, dal 1990 fino al 2006 (anno in cui si ritornò al comunale ristrutturato in Stadio Olimpico), ha comunque festeggiato ben 7 scudetti.
Il sogno di inviolabilità, di non perdere in casa mai più nei secoli a venire, è stata un’ambizione grande e onirica durata più di un anno. Ma anche dopo qualche sporadica sconfitta, dopo 5 anni di J-Stadium, la sensazione evidente ormai sedimentata è che il senso di appartenenza di noi tifosi, e così l’attaccamento viscerale alla squadra e ai suoi eroi, sia cresciuto sempre più, ì come si era augurato Andrea Agnelli nel suo discorso inaugurale.
È dalla notte dei tempi, dalla guerra totale, dalla caccia, che il possesso di un territorio da difendere entro cui sbaragliare ogni avversario è un bisogno tribale connaturato all’uomo, e con lo J-Stadium l’intero popolo bianconero sa di possedere anche quel regno privato che prima non aveva mai avuto fino in fondo.
Lo J-Stadium è lì, esiste, per attendere e rappresentare la juventinità. È lì per lei, per dare forma fisica e confini di roccia a un’idea precisa di valori e filosofia di vita, a una storia più che centenaria, a un modo di stare al mondo. Se il calcio inglese è superiore agli altri movimenti calcistici nazionali in qualche aspetto, non è certo sul piano tecnico o tattico, ma semmai lo è nella capacità storica di elevare a scontro simbolico estremo il tema dell’appartenenza calcistica. Non ci sono mai stati, in Inghilterra, e sono rari i casi anche nel resto del mondo in cui il calcio sostituisce in buona parte ogni altra istanza identitaria, i luoghi e le città in cui lo stesso campo da gioco è condiviso da più compagini.
È possibile immaginare River Plate e Boca Junior alternarsi alla Bombonera? Oppure Celtic e Rangers dividersi l’affitto di Ibrox Park? O Stella Rossa e Partizan battagliare per le spese di rifacimento del manto verde del Marakanà? No. È del tutto evidente che una riserva privata e involabile contribuisce con forza a rendere un club ancora più leggendario.
È vero: la Juventus in quanto squadra di tutti gli italiani è da sempre abituata a giocare in casa la maggioranza delle partite (fatta eccezione per le trasferte a Milano, a Roma, a Napoli e a Firenze), ma possedere finalmente uno spazio proprio ha un valore simbolico superiore e universale.
Significa avere un tempio dove viene celebrato incontro dopo incontro il calcio bianconero, dove prende vita la filosofia legata alla Juventus, dove la storia ultracentenaria ribolle e affiora, nel bene e nel male.
Con lo J-Stadium, il tifo juventino, generalmente considerato piuttosto freddo a causa di palati troppo fini, abitudine alla vittoria e scarsa identificazione territoriale con la città di Torino per l’alta concentrazione storica di immigrati dal Mezzogiorno, è diventato invece temuto e caldissimo. Sette metri e mezzo tra la prima fila e il terreno di gioco e la magia di sentire nel petto il tambureggiare delle corse, il sibilo dei fendenti, i rimbombi secchi dei tiri da fuori, gli urli di dolore, le esplosioni di rabbia e di gioia. Tutta vicinanza, tutta prossimità all’immanenza degli eventi magici del gioco, ai gesti tecnici, agli stati d’animo di chi è in campo, tutta empatia con il tracciato psichico, nervoso ed emotivo che dalla squadra si trasmette al pubblico e dal pubblico alla squadra, determinandone i sussulti e le reazioni, le pause e le trasformazioni repentine, i narcisismi e le esplosioni di rabbia. Tutta vicinanza e partecipazione: interruttori viscerali che spingono noi tifosi a restituire al campo ondate maggiori di emotività.
Solo una critica, condivisa e condivisibile. Televisioni o no, lo J-Stadium avrebbe dovuto annoverare diecimila posti in più (forse una maggiore capienza avrebbe anche contribuito a calmierare il prezzo dei biglietti, oggi robusto, secondo l’antica legge della domanda e dell’offerta).
Negli stadi precedenti allo J-Stadium, la capacità di incidere degli spettatori era molto meno significativa.
Lo storico Comunale, perfetto ovale fascista costruito negli anni 30, viveva anche momenti caldi, ma aveva la pista d’atletica e le tribune scoperte, disperdendo il frastuono. Il Delle Alpi era gelido, in tutti i sensi. Le scenografie sembravano più vicine ai parcheggi che alla squadra in campo, e il tifo si disgregava come vapore nelle savane che separavano il prato dalle tribune. L’idea di barriera, di separazione, sembrava essere la sua filosofia di fondo. Distanze chilometriche, recinzione, fossati, capienza eccessiva con seggiolini al terzo anello da cui l’unica vista possibile era la Mole Antonelliana: un piano architettonico per altro del tutto concepito quando il calcio televisivo si era già palesato come futuro imminente, e quando la polifunzionalità degli impianti era un concetto sorpassato ovunque tranne che per i progettisti di Italia 90.
Che lo J-Stadium possegga un influsso magico per la juventinità, lo testimoniano anche i numeri.
In 5 anni, 5 scudetti vinti. 132 gare giocate con 102 vittorie (il 77%), 25 pareggi e solo 5 sconfitte, di cui 3 in campionato (Inter, Sampdoria e Udinese), 1 in Coppa dei Campioni (Bayern Monaco) e una in Coppa Italia (Fiorentina).
Per gli appartenenti alla fede bianconera quest’’aria nuova e più inebriante si respirò sin dall’inaugurazione contro il fraterno Notts County cui dobbiamo i così amati colori sociali, e sin dalla prima vittoria (4-1 contro il Parma). Nonostante qualche momento un po’ kitsch da avanspettacolo televisivo (il nastro portato dalla madrina Chiabotto), la maggior parte dei rituali della cerimonia d’apertura, come il saluto di Boniperti, il discorso del presidente Agnelli e la sfilata delle 50 stelle bianconere, furono chiari segnali verso la costituzione di un identità al tempo stesso nuova e ancora più marcata, che doveva pescare nel passato per solidificarsi nel futuro.
E per i nemici?
Cos’è stato lo Stadium in questi 5 anni per i nostri avversari? Molte cose insieme. Ma soprattutto una fonte inesauribile di giudizi e anatemi, a seconda delle opportunità e dei periodi dell’anno. Con la stagione in pieno corso, lo J-Stadium è stato trasfigurato in un vantaggio economico incolmabile e determinante, nel segreto oscuro del fatturato, in uno strumento di condizionamento arbitrale, in un trucco per eludere la giustizia (le comunicazioni di Conte con la panchina durante la squalifica), in un nuovo modo di sbeffeggiare l’etica e la legalità (le incredibili indagini sul presunto utilizzo di acciaio scadente da parte del solito Guariniello, poi archiviate), in un disastro all’italiana (le incredibili critiche sui disagi dei famigerati tiranti rei di ostruire a migliaia di paganti la sacrosanta visibilità), e infine in un avamposto della discriminazione razziale infantile (le polemiche a media unificati sugli altrettanto famigerati cori al rinvio dei portieri avversari perpetuati anche dai bambini).
A bocce ferme invece, lo J-Stadium è stato anche un esempio da seguire, un caso raro di avanguardia nel panorama giurassico degli stadi italiani e un luogo dove il tifo si sente forte e chiaro e fa tremare le gambe.
Di certo, non è presuntuoso dire che lo J-Stadium è soprattutto invidiato, anche perché da quando esiste, da 5 anni, la coppa dello scudetto è sempre stata consegnata al suo interno.
5 anni, 5 intensissimi anni pieni di momenti indimenticabili in successione, e anche qualche momento infelice.
Degli uni e deli altri, ecco una personale hit-parade, del tutto soggettiva.
Hit-parade dei momenti magici
Molti, moltissimi, difficile scegliere. I gol di Morata contro Dortmund e Real Madrid (con la qualificazione poi ottenuta in trasferta), il 3-0 al Chelsea dei fenomeni, la rimonta decisiva con l’Olympiakos con i quaranta mila dello Stadium quasi in campo, la rimonta contro il Bayern dello scorso anno, i gol da smottamento nelle sfide contro il Napoli di Vidal, Pogba e Zaza: tutti boati indimenticabili.
Eppure sul podio si trovano:
3° posto, bronzo. Gol di Vucinic da fuori area (Juventus – Milan 2-2 in Coppa Italia). Ritorno di un turno di qualificazione in cui l’intero popolo bianconero credeva moltissimo dopo l’andata, con 1-2 a San Siro con doppietta di Cáceres. Allo Stadium orgoglio rossonero, parziale sconfitta nel fortino dopo i 90 minuti, poi la veemenza di supplementari tutti all’attacco fino alla bordata di Mirko, missile terra-aria all’incrocio. Qualificazione in finale, imbattibilità con fortezza inviolata, e morale alle stelle per il finale di campionato.
2° posto, argento. Il poker di goleade alla Roma (2011-12/4-0 con 3 gol in 18 minuti) (2012-13/4-1 con 3 gol in 29 minuti) (2013-2014/3-0 e riposo) (2014-15/3-2 polemiche e gol di Bonucci al 93’esimo). Costante demolizione di uno degli avversari designati dai media (prima) e dal campo (poi) del primo quadriennio, prima con in panchina Luis Enrique, poi con il profeta boemo Zeman, poi con Garcia. Ma invertendo l’ordine dei profeti il risultato non è mai cambiato, che i boati siano arrivati tutti nei primi 15-30 minuti o in zona Cesarini.
1° posto, oro. Gol su punizione di Del Piero (Juventus – Lazio 2-1, 11 Aprile 2012). Una gara decisiva per uno degli scudetti più belli della storia bianconera. Fu impressionante, per tutta la gara, l’apporto dello Stadium: grida, applausi, cori, incitamento anche nei momenti più difficili come quelli subito dopo il pareggio di Mauri, e brivido dopo brivido nelle decine di occasioni sfumate di un soffio con Pepe, Vidal, Vucinic, e lo stesso Alex. Poi, spinto in rete dalla forza poderosa di un desiderio di vittoria che non poteva essere deluso, arrivò il pallone decisivo. Rincorsa breve, destro magico in mezzo alla barriera, traiettoria arcuata e perfetta con Marchetti (quel giorno in versione partita della vita) del tutto immobile, quindi il solito terremoto, lacrime e frastuono insieme per una gioia che ancora brucia dentro.
Hit-parade dei momenti tristi
Non moltissimi, per fortuna, i momenti brutti: alcune sconfitte un po’ brucianti ma in fin dei ordinarie contro Udinese e Sampdoria, débâcle per niente decisive; un 1-2 con la Fiorentina poi rimontato in trasferta (0-3 al Franchi, con tripla soddisfazione), e uno 0-2 indiscutibile contro un Bayern che dimostrò di essere nettamente superiore sul campo, costringendo il popolo bianconero all’unica sconfitta europea patita in casa. Ragion per cui il podio dei momenti brutti potrebbe essere:
3° posto. I fischi a Vucinic e Giovinco (Dopo Juventus – Siena 3-0, 24 Febbraio 2013). Una delle cattive abitudini dei tifosi della Juventus, amplificate dal ciclo vincente e dallo stesso impeto dello Stadium, è spesso quella di scegliere dei capri espiatori da immolare nei rari momenti negativi. Mai, nella propria fortezza, bisognerebbe fischiare un proprio giocatore in azione. Antonio Conte, da vero leader, fu molto abile a ricompattare il monolite formato da squadra, società e tifosi.
2° posto. La sconfitta con l’Inter di Stramaccioni (Juventus – Inter 1-3, 3 Novembre 2012). I proverbiali paradossi del calcio. La prima sconfitta della storia della Juventus nella sua casa è avvenuta contro una delle squadre peggio allenate nella storia recente del calcio Italiano, e dall’allenatore più miracolato della storia intera del calcio italiano: quell’Andrea Stramaccioni che fu presentato da tutti i media nazionali italiani come il trionfatore della Champions League delle squadre primavera di tutta Europa (in realtà, a quel tempo si trattava di un torneo a inviti di scarso interesse e molto meno importante del torneo di Viareggio). Il risultato, 1-3, infranse i sogni di imbattibilità eterna che popolavano i pensieri di molti tifosi, ma col senno di poi contribuì a ricompattare una Juventus talvolta svogliata e a far affondare i tremebondi nerazzurri negli abissi del loro specchio deformante.
1° posto. Senza dubbio il pareggio a reti inviolate in semifinale di Europa League (Juventus – Benfica 0-0, 1 maggio 2014). Una serata che poteva e doveva essere storica, e che finì con la più grande delusione bianconera in 5 anni di J-Stadium. Proprio lo J-Stadium era stato designato per ospitare la finale secca della competizione, con l’occasione, pressoché unica, di legare indissolubilmente alla nuova casa della Juventus anche la conquista del primo trofeo Internazionale del dopo Calciopoli. Invece l’urlo liberatorio atteso per 90 minuti quella notte restò paralizzato in gola, causa il salvataggio sulla linea di Luizao su colpo di testa di Vidal e del fuorigioco di Pogba sull’assist acrobatico per il gol annullato di Osvaldo.
5 anni, tuttavia, non sono molti. Siamo solo all’inizio, altri momenti magici arriveranno intervallati da qualche altra delusione. Fa parte dell’ordinario in una società di calcio vincente come la Juventus.
Lo straordinario accade invece in giorni indimenticabili come quello dell’addio di Alessandro Del Piero.
Un giro di campo lento, a testa alta, accompagnato da un applauso ininterrotto e confidenziale, quasi un vis a vis di Alex con ciascuno dei presenti. Un ballo lento, tra spasmi di gioia e di tristezza, governato dal carisma e dalla carica ricettiva del recordman della juventinità. Quasi un esercizio spirituale, che sarà ripetuto e ripetuto ancora.
Perché, mai come quando si è pieni di dei, è doveroso costruire il tempio.