C’è una cosa che ogni juventino dovrebbe ripetere a se stesso, almeno da qui alla Supercoppa del 23 dicembre: Mario Mandzukic è il necessario, il titolare del segreto, l’uomo da cui dipendono i prossimi due cicli di partite. Non perché poi si apre il mercato, quello vive di vita propria, ma perché per determinate convivenze, a determinati livelli, la strada disegnata aiuta. E’ come nel ciclismo, in salita ognuno va per conto suo, le gambe o la morte, nella più solidale delle ipotesi giusto uno scambio di borraccia; al che si scollina nella posizione progettata, ci si alza sui pedali, ci si batte sul petto, sgranchendo le ossa e via giù: la discesa la si può far insieme, tagliandosi l’aria a vicenda, con il fresco in faccia, il traguardo che è solo più una questione di cronometro.
Ecco, nel calcio non ci sono però le volate. Ci sono però compresenze studiate anche a tavolino, e Mandzukic rientra in questo progetto. C’è qualcosa di pensato, il reparto offensivo 2016/17 della Juventus non lo si può guardare diversamente. L’anno precedente ce n’erano due per fare ciò che è richiesto a Mandzukic (Morata e Zaza), l’anno prima ancora la spallata dell’emergente travolse Llorente, che era femmina vecchio stampo, appagata dall’accondiscendenza. La fusione delle due precedenti esperienze ne ha prodotta una nuova, un terzo uomo che non è terzo. Lo ha convinto così, Massimiliano Allegri, che con il lato maschio di Mario ha perso almeno due grandi battaglie preparatorie.
La nuova Juve è però andata in guerra su tre fronti, lo ha fatto sostanzialmente annunciandolo al mondo. Una guerra sportiva che nessuno può permettersi di dire che durerà due anni. In partenza, appunto, c’è Mario, con mansioni nuove e vecchie. Psicologiche le prime, tecniche le seconde. Che più vecchie non si può. Per la missione gli viene chiesto, senza accorgersene e senza poter accettare che possa essere esattamente così, di tornare alle origini fuori dal campionato croato. Solo nei due anni a Wolfsburg l’attaccante segnava in media una rete ogni tre partite, anche nella poco felice Madrid è stato, come da attitudine acquisita, pedina da un gol ogni centottanta minuti.
Noi, Juve, dei gol come concetto generale, contabile e banale, non ce ne facciamo niente. O tutto. Contano quali e non quanti. Contro chi e non con chi al fianco. Conta che Manduzkic dia positività, ci stia dentro, che faccia il protagonista. Poi, nel caso, con i conti in mano, ci sediamo anche a parlare. Per ora e per qualche mese, basta e deve bastare il mister.
Luca Momblano
Mario Mandžukić: la rabbia, il cuore
di Elena Chiara Mitrani
L’infanzia trascorsa in Germania a causa della guerra, gli inizi nel calcio croato, le vittorie con il Bayern, il passaggio all’Atlético e poi alla Juventus. Guerriero in campo, “normale” nella sfera privata: ritratto di Mario Mandžukić.
Torino, luglio 2015. «Non mi piace parlare di questo, credo che sia irrilevante». Con queste parole, Mario Mandžukić rispedisce al mittente una domanda sui suoi tatuaggi ricevuta da un giornalista durante la conferenza stampa di presentazione con la Juventus. Lo sguardo che accompagna la risposta non ammette repliche. Questo scambio è forse quello che i tifosi bianconeri meglio ricordano, di quella conferenza stampa: la solita trafila di domande banali e risposte politicamente corrette è dimenticabile, gli juventini scoprono Mario nel momento in cui fa muro in maniera secca davanti a un’ingenua domanda personale percepita come innocua dal giornalista che la pone. Il croato è uno che non si tira indietro quando c’è bisogno di fare il duro, e la sua sfera personale non si tocca.
Mario Mandžukić nasce il 21 maggio del 1986 a Slavonski Brod, nella Jugoslavia ancora unita. La città si trova su quello che poi sarebbe diventato il confine tra Croazia e Bosnia; la guerra mette in pericolo l’incolumità della famiglia Mandžukić agli inizi degli anni ’90. Nel 1992, il padre Mato decide di emigrare in Germania e si trasferisce con moglie e figli a Ditzingen, vicino a Stoccarda. Molti anni dopo, dichiarerà a Spox.de: «L’unica cosa che mi interessava era la sicurezza della mia famiglia. La gente veniva uccisa fuori dalla nostra porta di casa. Non potevamo restare lì un minuto di più».
Proprio a Ditzingen emerge per la prima volta il talento calcistico di Mario, che a sei anni giocava nella squadra locale, così come il padre, difensore. La carriera di Mato è breve; il Diztingen era in quarta divisione ma questa esperienza rappresenta per lui l’occasione di giocare con futuri professionisti quali Fredi Bobic e Sean Dundee. Mario, parlando della carriera del padre, si disimpegna spesso dicendo: «Quando l’ho visto giocare, si era già lasciato alle spalle gli anni migliori».
Nel 1996, terminata la guerra, ai Mandžukić viene rifiutato il rinnovo del permesso di soggiorno, e così tornano a casa, a Slavonski Brod, Croazia orientale. Mario inizia la sua avventura calcistica nella squadra locale, l’NK Marsonia, per poi passare nel 2003 allo Željezničar, altra squadra del posto, omonima del più famoso club di Sarajevo. È qui che il giocatore, ormai diciassettenne, viene passato in prima squadra. I 14 gol in 23 partite nella seconda divisione croata fanno entrare Mario nel mirino dell’NK Zagabria, dove l’attaccante gioca per due stagioni sotto la guida di Miroslav Blažević.
Figura storica del calcio croato, Blažević è famoso per aver conquistato il terzo posto con i Vatreni durante la Coppa del Mondo 1998, alla prima partecipazione della Croazia a questa competizione. Il tecnico finisce per lasciare un marchio indelebile su Mandžukić, affibbiandogli il soprannome di Djilkos (pronuncia gil-kosh), parola che nell’espressione originale ungherese (gyilkos) significa killer, e nello slang croato sta per sfrontato, ma anche grezzo. L’intento originale di Blažević era quello di fare un complimento a Mario, che però non ha mai molto apprezzato il soprannome, al punto da dichiarare al quotidiano croato Sportske Novosti, in un’intervista del 2011, che lo ritiene irrispettoso e che non vouole più essere chiamato così. Al di là di questo malinteso, Blažević è il primo coach che vede in Mandžukić doti speciali: schierandolo stabilmente al centro dell’attacco dell’NK Zagabria lo mette in condizione di segnare 50 gol in due stagioni, che gli valgono la chiamata al club più prestigioso di Zagabria, la Dinamo. Pochi mesi dopo il debutto con la Dinamo, arriva anche la prima convocazione in nazionale, nel novembre 2007, per una partita contro la Macedonia valida per le qualificazioni agli Europei del 2008. Alla seconda partita con la maglia a scacchi biancorossi, Mario trova anche il primo gol da internazionale, purtroppo inutile, segnato durante la partita persa per 1-4 in casa contro l’Inghilterra.
Mario resta alla Dinamo per tre stagioni, il tempo di collezionare 65 gol in 141 partite e di finire sotto i riflettori prima in patria, poi in Europa. La doppietta segnata durante la gara di Coppa UEFA con l’Ajax nel 2007 lo porta per la prima volta alla ribalta a livello internazionale, e alla fine della stessa stagione i capitani delle squadre croate lo eleggono miglior giocatore del campionato di casa. Nel 2008/09 vince la classifica dei cannonieri e Sportske Novosti gli assegna il titolo di MVP. Il suo palmares inizia intanto a popolarsi: con la Dinamo conquista tre campionati croati e due coppe nazionali in tre stagioni. Diverse squadre si interessano a lui, che però non nasconde una preferenza per la Germania, la sua seconda patria. Si accasa così al Wolfsburg nel 2010; la squadra della Volkswagen se lo assicura staccando un assegno da € 7 milioni.
All’arrivo di Mandžukić, i Lupi stanno per andare incontro a una stagione difficile: gli insperati fasti del 2008/09, annata che ha visto i biancoverdi di Sassonia conquistare il loro primo titolo nazionale, sono lontani. In panchina c’è l’inglese Steve McClaren, e tra i rinforzi estivi c’è una vecchia conoscenza bianconera, Diego Ribas da Cunha, mentre in difesa gioca (ancora per poco) il futuro juventino Andrea Barzagli. La concorrenza con Džeko è all’inizio problematica per Mario, che viene spesso schierato come esterno d’attacco sinistro nel 4-3-3, o come esterno di centrocampo sia a sinistra che a destra, nel 4-2-3-1 o 4-5-1 di McClaren. Gli esperimenti del tecnico inglese non vanno a buon fine e non mettono a frutto le potenzialità di Mario, tant’è vero che con l’arrivo ad interim di un nuovo allenatore, il traghettatore Pierre Littbarski, l’attaccante croato finisce in tribuna per tre gare su cinque. Se con i primi due allenatori dei Lupi Mandžukić fatica a mostrare il suo valore, il ritorno in panchina di Magath è una benedizione per il croato, che diventa il punto focale dell’attacco del Wolfsburg alla partenza di Džeko, passato al Manchester City nel gennaio 2011. La stagione resta critica e la squadra si trova spesso in zona retrocessione, ma Mandžukić contribuisce in maniera decisiva alla salvezza, segnando 8 gol in campionato, di cui 7 proprio nelle ultime partite: spicca in particolare la doppietta messa a segno nella gara decisiva vinta 3-1 in casa dell’Hoffenheim all’ultima giornata. Felix Magath, bestia nera per i tifosi bianconeri ma talismano per il Wolfsburg, può dirsi contento.
Per l’annata successiva, 2011/12, Mandžukić viene confermato al centro dell’attacco dei Lupi. La stagione è positiva: 12 gol e 10 assist in Bundesliga e il titolo (sebbene condiviso con altri giocatori) di capocannoniere a Euro 2012 valgono all’attaccante croato una chiamata da Monaco, dove lo aspetta il Bayern di Heynckes.
Il passaggio di Mandžukić al Bayern viene ufficializzato subito dopo l’eliminazione della Croazia dagli Europei del 2012, più precisamente il 27 giugno 2012. Il compenso pagato dai bavaresi al Wolfsburg è di € 13 milioni; il giocatore firma un contratto triennale con opzione per il quarto. Ironia della sorte, uno degli idoli di Mandžukić era sempre stato Ivica Olić, centravanti croato ex NK Marsonia come Mario, ma più vecchio di 7 anni. Olić, molto amato dalla tifoseria bavarese, compie il percorso inverso rispetto a Mandžukić proprio nel 2012, passando al Wolfsburg. Arrivando al Bayern al posto del più esperto connazionale, Mario afferma di volerne seguire l’esempio.
A inizio stagione, l’idea è che Mandžukić sia il vice di Gómez in attacco, ma Mario scalza presto il tedesco dal posto di titolare, complice anche un infortunio di quest’ultimo. A Heynckes va il merito di aver capito al meglio Mandžukić: il tecnico è stato in grado fin da subito di sfruttare al massimo le caratteristiche fisico-atletiche dell’attaccante croato, schierato come unica punta in un 4-2-3-1 che porterà i bavaresi a vincere il loro primo treble.
Una sola piccola ombra macchia la prima annata di Mandžukić in Baviera: il 20 novembre 2012, durante la gara contro il Norimberga, il giocatore esulta polemicamente con il braccio alzato, mimando quello che sembra un saluto romano, insieme al compagno Xherdan Shaqiri, svizzero di origini kosovare, che rivolge alla curva il saluto militare. L’episodio, secondo la stampa serba, rappresenterebbe una dedica ai generali croati Markač e Gotovina, condannati per crimini di guerra e contro l’umanità ma assolti dall’ONU due giorni prima della partita. L’ufficio stampa del Bayern getta acqua sul fuoco affermando che l’esultanza di Mandžukić non ha nulla a che vedere con il significato politico che le era stato attribuito, e che il giocatore stava semplicemente celebrando il gol «salutando la Croazia e i suoi tifosi». Il quotidiano croato Vecernji List riporta però un virgolettato di Ivan Cvetković, agente dell’attaccante, che si dice «orgoglioso di Mario ed entusiasta di come ha celebrato il gol, unendosi alla gioia di tutti i croati per il ritorno dei nostri generali».
Al di là di questo episodio, Mario è uno degli uomini chiave di quel Bayern che nel 2012/13 non lascia scampo a nessuno: stravince la Bundesliga con 25 punti di vantaggio, conquista la Coppa di Germania a inizio giugno, e compie un vero capolavoro con la vittoria della Champions League dopo la bruciante sconfitta nella finale casalinga l’anno precedente. Dietro Mandžukić, sulla trequarti ci sono Robben, Müller e Ribéry: la squadra è solida e spietata, passeggia sulla Juventus di Conte ai quarti (con Mandžukić a segno allo Stadium), demolisce il Barcellona in semifinale (con un impressionante punteggio di 7-0 sulle due gare) e batte l’outsider Borussia Dortmund nella finale disputata a Wembley. Proprio Mandžukić apre le danze in finale con un gol al 60’, risultando, in questa occasione, più decisivo del rivale Lewandowski, destinato di fatto a rimpiazzarlo al Bayern l’estate successiva.
L’esultanza di Mario dopo il gol in finale di Champions è emblematica: il croato è sotto gli occhi di tutti mentre si porta le mani alle orecchie per ascoltare il boato dello stadio, ma solo osservando bene il seguito della sua esultanza si può vedere che, andando verso i tifosi del Bayern, Mandžukić accenna un altro gesto, quello di battere la mano sullo stemma del club bavarese. Questo momento resta il picco della sua carriera finora, ma già dall’anno successivo il suo rapporto col Bayern si incrina.
Pep Guardiola sbarca in Baviera nell’estate 2013: dopo un anno di pausa, l’allenatore Catalano arriva in Germania per portare la propria idea di calcio e cimentarsi con una realtà diversa da quella della Liga. Fin da subito, i rapporti tra il nuovo tecnico e Mandžukić sono tesi. D’altra parte, secondo il credo di Guardiola il centravanti è lo spazio, l’ingombrante numero 9 croato non si adatta alla sua idea di gioco, con quei piedi ritenuti grezzi e la sfacciata anarchia tattica. Poco importano la carica di Mario e il suo spirito di sacrificio in campo, poco importano persino i suoi gol (che alla fine dei due anni con il Bayern saranno comunque parecchi, 48 in 88 uscite ufficiali); per Guardiola, il centravanti croato non è l’uomo giusto. Ci prova, eppure, a convertirlo tatticamente, schierandolo esterno sinistro contro il Chelsea nella Supercoppa Europea del 2013. Ma, per Mario, questo è solo l’inizio della fine.
Sulla conclusione del suo rapporto con il Bayern, ci sono state dichiarazioni politicamente corrette, come quella rilasciata dall’attaccante a fine 2014 a Sportske Novosti: «Siamo onesti, non ho grandi affinità con il gioco che Guardiola ha impostato al Bayern. Già prima della partita contro il Real Madrid (semifinale Champions 2014, ndr) avevo capito che il suo modo di giocare non era adatto a me. E quindi, se non ti senti a tuo agio, è meglio per tutti separarsi. Ringrazio la società per avermi offerto un prolungamento di contratto, e Guardiola resta un grande allenatore. Auguro loro il meglio, ma è tempo di nuove sfide». Ma, sempre attraverso il maggior quotidiano sportivo croato, Mandžukić si è anche sfogato: «Pep Guardiola mi ha deluso, non mi ha trattato con rispetto. Non mi ha permesso di diventare il miglior cannoniere della Bundes. Ogni cosa era meglio all’epoca di Jupp Heynckes, e non sono il solo a pensarlo. Non voglio persone come Guardiola nella mia vita: un caffé con lui non lo prendo; se attorno a qualcuno avverto energia negativa, lo evito. Per il Bayern ho dato tutto e quando Guardiola è arrivato ho cercato di adattarmi, ma per far sì che le cose funzionino bisogna essere in due».
Nonostante le incomprensioni con Guardiola, Mandžukić mette a segno 17 reti in 25 partite nella sua seconda stagione con il Bayern. Progressivamente, però, il tecnico catalano lo schiera sempre meno (da qui l’accusa da parte di Mario di non avergli permesso di vincere il titolo di capocannoniere). L’atteggiamento del croato nello spogliatoio diventa negativo, il suo sentimento di sfida nei confronti dell’allenatore è soffocante. Finisce anche per sfoderare troppa aggressività in allenamento e per far male al compagno di squadra Schweinsteiger: l’episodio viene riportato dalla stampa e getta Mario in un vortice di accuse sebbene, osservando le immagini, sembri in realtà che il suo brutto tackle sia anche involontario, frutto di una perdita di equilibrio.
Nel frattempo, il Bayern ufficializza l’acquisto di Lewandowski. Tra fine maggio e inizio giugno 2014, poco prima di partire per la Coppa del Mondo in Brasile, Mandžukić preferisce dedicarsi alla famiglia e alla sua città natale piuttosto che restare in buoni rapporti con il Bayern. Ormai messo da parte, torna a Slavonski Brod, in quel momento colpita dalla peggior inondazione mai vista nei Balcani da più di un secolo. Impegnarsi in prima persona negli sforzi umanitari è per lui troppo importante.
Dopo una Coppa del Mondo opaca (la Croazia non si qualifica per la fase a eliminazione diretta, vittima delle sconfitte contro Brasile e Messico nella fase a gironi), Mandžukić passa all’Atlético Madrid nell’estate 2014, per € 19 milioni.
Mario il guerriero arriva nella squadra di Simeone per rimpiazzare Diego Costa, autentica star della stagione 2013/14, partito in direzione Chelsea. All’inizio sembra l’uomo adatto: vista la sua attitudine da condottiero mai domo, il croato sembra fatto apposta per integrarsi nella mentalità rojiblanca. L’immagine che rende meglio di tutte l’idea di Mandžukić, e soprattutto di cosa possa essere un Mandžukić nell’Atlético, è quella dello scontro con Sergio Ramos durante il derby dei quarti di Champions League, che vede il croato col volto insanguinato dopo una violenta testata. In questa foto c’è tutto quello che sappiamo sul Mandžukić giocatore: un guerriero in campo, pronto a lottare con ogni mezzo, anche quando si sfora in comportamenti sopra le righe.
Non c’è, però, quella personalità che Mario fa di tutto per tenere riservata: l’attaccamento alla famiglia, agli affetti tenuti nascosti se non per qualche piccolo dettaglio, come i nomi della fidanzata Ivana e del cane Lenni incisi sugli scarpini.
L’avventura all’Atlético di Mario, nonostante i 20 gol in stagione, dura soltanto un anno. Simeone finisce per ammettere a Radio Onda Cero che «Mario dev’essere rifornito in continuazione, Diego Costa a volte è autosufficiente. Però, i 20 gol di Mario nell’Atlético valgono più dei 28 che ha segnato l’anno scorso al Bayern». A Madrid, qualcosa a un certo punto va storto, la capacità realizzativa di Mario si inceppa, il giocatore si ritrova ai margini dello spogliatoio, non impara lo spagnolo e non riesce a farsi capire dal tecnico. Gli spagnoli lo cedono senza rimpianti alla Juventus per € 18 milioni, il primo attaccante venduto dall’Atlético senza generare plusvalenze negli ultimi dieci anni, dopo Torres, Forlán, Agüero, Falcao e Diego Costa.
Luglio 2015, Mario arriva alla Juventus. Quando visita per la prima volta gli spogliatoi dello Juventus Stadium, compie una scelta simbolica e non da tutti; sceglie infatti come proprio posto quello in fondo, di fronte alla porta, accanto a Buffon, lasciato libero l’anno prima da Pirlo. È un posto da leader, che domina lo spogliatoio. Da nuovo arrivato, Mandžukić non ha paura del valore simbolico di ciò che quel posto in particolare rappresenta, ed è pronto a proporsi come uno dei trascinatori della squadra.
La stagione della Juventus comincia in maniera diffcile, dopo un’annata ricca di successi e con l’unico rimpianto della finale di Champions persa contro il Barcellona. Pare arduo fare meglio, ma la squadra è molto cambiata e fatica ad ingranare. Il primo lampo di Mandžukić arriva a Manchester, nella sfida di Champions League contro il City. A inizio stagione, il croato salta tante partite a causa di un brutto taglio al gomito che finisce per fare infezione, i tifosi non riescono subito a inquadrare Mandžukić, infatuati di Morata dopo i numerosi gol messi a segno dallo spagnolo l’anno precedente e curiosi di vedere più spesso in campo Dybala. Mario si sblocca in campionato solo il 25 ottobre, segnando il raddoppio contro l’Atalanta, e finisce poi per prendersi il posto da titolare mettendo a segno 10 gol in campionato e diventando uno degli uomini-simbolo dello scudetto conquistato in rimonta.
La scintilla tra Mandžukić e i tifosi bianconeri è probabilmente scoccata durante la sfida a Torino contro il Bayern quando, con la squadra sotto per due a zero, il numero 17 bianconero, forse anche mosso da vecchi rancori, ha messo in campo tutta la sua potenza e la sua rabbia, battendosi su ogni pallone, fino a riuscire a regalare a Dybala l’assist per il gol che ha riaperto la partita. Il suo affrontare a muso duro Lewandowski la dice lunga sulla carica agonistica di Mandžukić e, probabilmente, su ciò che deve ancora covare dentro di sé per il modo in cui si è conclusa la sua aveventura al Bayern.
La gara di ritorno proprio contro il Bayern fa emergere invece i limiti di Mandžukić, incapace di proporsi come punto di riferimento per le ripartenze palla al piede e di mantenere bassa la difesa del Bayern come aveva saputo fare Morata. Il suo ingresso in campo al posto dello spagnolo sposta gli equilibri della partita e finisce per favorire la rimonta bavarese. Inoltre, nonostante le molte gioie arrivate grazie a Mario (particolarmente decisivi e memorabili i suoi gol contro la Fiorentina, sia all’andata che al ritorno), 13 gol in una stagione paiono pochi per quello che è di fatto il centravanti titolare di una squadra con ambizioni europee. Serve un altro tipo di giocatore: a luglio, nello stupore generale, sbarca a Torino Gonzalo Higuaín. Inutile fingere di non vedere: queste prime giornate di campionato ci hanno detto che l’argentino deve essere la prima scelta di Allegri, e non può giocare in coppia con il croato. Mandžukić è apparso nervoso e polemico nelle sue sporadiche apparizioni, e per adesso non ha trovato il gol, nonostante qualche ottima occasione contro il Palermo e la Dinamo Zagabria. Quel qualcosa che aveva incominciato a girare bene l’anno scorso si è inceppato non appena Mario ha avvertito sulle proprie spalle il peso della competizione: non sentendosi più al centro del progetto, è possibile che abbia cominciato ad accumulare delusione e tensione. Purtroppo le occasioni precedenti in cui il giocatore si è trovato in questa situazione (Monaco e Madrid) non sono incoraggianti, ma la sperenza dei tifosi juventini è che l’attaccante croato riesca presto a ritrovare la rete in maglia bianconera (dopo essere andato a segno 4 volte con la Croazia durante la recente pausa per le qualificazioni ai Mondiali) e che, anche se gli sarà difficile accettare di essere la seconda scelta per il ruolo di prima punta, possa restare concentrato in modo da dare il suo apporto quando chiamato in causa e regalare ancora gioie ed emozioni.
Un poker d’assi, una coppia di dadi, un ideogramma cinese, una grossa croce, un pallone; sono solo alcuni dei tatuaggi di Mario, disegni sul corpo da guerriero di un giocatore che, nonostante i tanti trofei conquistati in carriera, forse non è un campione, ma ha saputo guadagnarsi l’affetto dei tifosi per due ragioni: il cuore e la rabbia che mette in campo, e la capacità di essere, fuori dal campo, una persona normale.
di Francesco Andrianopoli
Approfondimento tattico sull’attaccante bianconero.
Quando si pensa a Mandžukić, il pensiero va immediatamente alla sua grinta, alla sua rabbia agonistica: in campo è una belva, che interpreta il ruolo di attaccante alla maniera dei grandi corazzieri del passato, giocatori che non pensavano solo a mettere la palla in rete, ma anche (o forse soprattutto) a sfidare i propri marcatori “mano a mano”; non è importante soltanto battere l’avversario nel punteggio: si deve anche sconfiggerlo fisicamente, pressarlo, picchiarlo, punirlo, se non proprio provocarlo.La prima, grande specialità della casa è il gioco aereo, visto che stiamo parlando, senza mezzi termini, di uno dei migliori colpitori di testa d’Europa, ma la sua dote principale è il suo incessante dinamismo; il croato mette una clamorosa pressione sulle difese avversarie, per ogni minuto in cui è in campo non smette di pressare, spingere, saltare, colpire i propri avversari diretti; inoltre non rinuncia mai ad andare a caccia di un pallone vagante.
Quindi lotta come un centravanti classico, stacca di testa come un centravanti classico, sa segnare come i centravanti classici, senza tanti fronzoli e preferibilmente di prima; ma i paragoni con i classici centroboa del passato finiscono qui, perché non si tratta infatti di un centravanti statico, del giocatore che “fa reparto da solo”: è maggiormente a suo agio quando può giocare in coppia con (e a supporto di) un attaccante più agile e veloce, o favorendo gli inserimenti di trequartisti/esterni molto offensivi, perché lui stesso è il primo che ama svariare su tutto il fronte d’attacco.
Le sue zone di caccia preferite sono quindi il cuore dell’area, per andare a concludere, o le fasce, per un movimento ad uscire che libera lo spazio centrale per il taglio di un compagno, oppure 15-20 metri più indietro, nella zona centrale del campo, dove va a lottare per la “spizzata” in favore dei compagni o a proporsi per una sponda: non è invece abituato a giocare palla nella zona nevralgica della trequarti (dove i giocatori di maggior classe amano ricevere il pallone), e non gli si può chiedere di calciare da fuori area, di saltare l’avversario in dribbling, né di bruciarlo con uno scatto nel breve.
È un giocatore di supporto, nel senso che può aiutare immensamente qualsiasi squadra, ma ha anche bisogno di supporto, di avere compagni accanto a sé che possano sfruttarne i movimenti ad allargarsi, le spizzate, le sponde.
Se viene lasciato solo, isolato, la sua utilità per la squadra precipita, non avendo nelle sue corde la capacità di creare dal nulla azioni individuali in percussione, né la qualità per districarsi nello stretto, il che spiega anche le difficoltà incontrate all’Atlético Madrid: le squadre di Simeone, quando recuperano palla, sono generalmente compatte dietro la linea del pallone, e preferiscono ripartire con giocate immediate, dirette, verticali, piuttosto che consolidare il possesso palla: un gioco che prevede attaccanti che sappiano punire una difesa sbilanciata con accelerazioni brucianti, lanciandosi alle spalle dei difensori, oppure attaccandoli nell’1vs1 o con rapide triangolazioni.
Un compito che si può chiedere, per l’appunto, a gente con lo spunto individuale di Griezmann o Agüero, la verticalità di Falcao e di Torres, la travolgente progressione di Diego Costa: Mandžukić, invece, in un gioco del genere era e sarà sempre un pesce fuor d’acqua.
Allegri invece ha saputo sfruttare alla grande il suo doppio ruolo di giocatore di sacrificio che al contempo sa finalizzare alla grande, lotta su tutti i palloni e non tira mai indietro la gamba, ma sa al tempo stesso mettersi al servizio di compagni più veloci e tecnici (come Dybala e Cuadrado), la cui tecnica e velocità possono essere esaltate dalle sue sponde, dalle sue spizzate di testa, dai suoi movimenti ad allargarsi.
Dopo un lungo peregrinare per i campi di mezza Europa, forse ha trovato il suo habitat naturale: una squadra tradizionalmente avversa alle prime donne e che ama il gioco di squadra e il sacrificio, che sono il suo pane quotidiano. Un posto dove sentirsi finalmente a casa, anche senza una maglia da titolare garantita, ma con la consapevolezza di godere della piena fiducia e dell’apprezzamento da parte di allenatore, società e compagni.
FONTI:
- Christian Giordano: Mario Mandžukić: La bestia nel cuore, Rainbow Sports Books
- C.M. Brandon su Unusual Efforts, A Look at Mario Mandžukić reveals footballers have hidden depths, just like us!
- Ten Things about Mario Mandžukić, Bundesliga.com
La storia del Puma e dell’imponderabilità
Quante volte ci si ritrova a fantasticare con gli amici, con i colleghi o anche solo con i parenti a tavola sull’esito (in primis bianconero) della UEFA Champions League 16/17?
C’è chi pensa che la Juventus abbia allestito uno squadrone pronto a dominare tutte le armate del vecchio continente, e ormai al livello stellare (se non oltre) dei “Potenti” dell’ultimo lustro.
Chi un po’ più prudentemente parla di formazione rinforzata e competitiva, e chi, decisamente meno confidente nella (e con la) sorte, preferisce quasi glissare sull’argomento, indicando nel passaggio del group stage il vero target della Vecchia Signora (anche) per la stagione in fieri.
Senza dimenticare i pessimisti cosmici, quelli secondo cui ‘Madama’ porta sempre a termine mercati orribili (eufemismo), vendendo costantemente i migliori (fa niente se spesso questo capita a cifre fuori mercato!), e comprando presunti rincalzi dal profilo discutibile (tecnico o di massa grassa, non fa grossa differenza), utili forse a centrare la qualificazione in UEFA Europa League.
Discorsi sicuramente molto belli, appassionanti e talvolta pure con una capacità sorprendente di “aggregare” le tipologie più disparate di individui, e livellare anche le più aspre tra le differenze sociali.
Fraseggi e contrasti di parole animati, con la forza squassante di porre sullo stesso piano il Manager pluridecorato e l’operaio di fabbrica, l’impiegata e il primario d’ospedale. Incastri e scambi dialettici però che rischiano di essere oscurati da uno degli aspetti preponderanti della massima competizione europea per club, quello strabiliante mix di momentum (l’inerzia nella concezione americana del termine) e casualità, in grado mutare i valori di forza in modo violento ed improvviso, e in ogni caso di tratteggiare con contorni molto diversi il percorso di una compagine, presentandosi spesso a chiedere il conto all’interno di un doppio confronto.
Lo dovrebbero sapere molto bene proprio i tifosi della Juventus, che più volte hanno assaggiato, a proprie spese, il sapore di questa miscela esplosiva, tastandola nel male (con quel retrogusto dannatamente fastidioso, quasi insopportabile), ma grazie al Dio del pallone anche nel bene, provando un piacere difficilmente definibile con fredde parole, o macchinose e ricercate locuzioni. Episodio esemplificativo della goduria senza controllo a tinte bianconere non può che essere quello della notte del 7 Marzo 2006.
La Champions League 05/06 arriva alla fase ad eliminazione diretta dopo la routine (ormai canonica) della prima fase. La Juventus domina l’insidioso (ma non impossibile) gruppo A, relegando il Bayern Monaco in seconda piazza e candidandosi come una delle squadre da corsa per la finale di Parigi Saint Denis.
Il sorteggio regala in sorte ai bianconeri un avversario molto solido, ma di valore nemmeno lontanamente paragonabile alla corazzata (sotto qualsiasi punto di vista la si volesse guardare) nelle mani di Fabio Capello. Dall’urna esce il Werder Brema di Micoud, Klose e Frings, e sui volti di Moggi e Giraudo si palesa un malcelato sorrisetto, quasi di compiacimento, per aver evitato scogli ben più appuntiti (Real, eliminato comunque l’anno prima, e Chelsea su tutti).
Il ghigno dolce dipinto sui visi dei massimi dirigenti della Vecchia Signora inizia a spegnersi nell’andata di Febbraio, al Weser Stadion.
Nella città anseatica, una delle più belle in assoluto del Nord della Germania, impreziosita dallo stupendo quartiere storico Schnoor, e da un Markt di bellezza stordente, la Juventus gioca una partita pessima. I bianconeri la perdono (giustamente) tre a due nel recupero, con la firma del francese Micoud, uno che in Italia conosciamo bene per i suoi trascorsi parmigiani.
Il risultato di Brema è negativo, almeno quanto la prestazione a tratti sconcertante, ma la fiducia non abbandona la truppa Capelliana, che si presenta al ritorno del 7 Marzo al Delle Alpi convinta di ribaltare l’esito della sfida teutonica. E come potrebbe essere altrimenti quando puoi schierare, in casa e tutta insieme, gente del calibro di Nedved, Ibrahimovic e Vieira?
Anche il pubblico ci crede e prova a spingere la squadra ai quarti, ma dopo soli quindici minuti, il gelo piomba sulla già fredda Torino. Ancora Micoud, sempre lui. Il francese timbra un gol superbo e mette nei guai la Juventus,
smorzando improvvisamente l’entusiasmo sugli spalti. Parte così un’affannosa ed impaurita rincorsa alle due reti necessarie per la qualificazione torinese, ma il risultato non cambia e alla pausa lunga ci si va con i tedeschi avanti.
Nella ripresa l’ingresso di Del Piero cambia la musica, e proprio su una brillante iniziativa del capitano, si perviene al punto del pari del suo gemello diverso, il cobra Trezeguet.
Mancano 25 minuti al triplice fischio e il momentum sembra sorridere alla Juventus, ma l’impulso locale piano piano finisce per spegnersi. La rassegnazione e la frustrazione subentrano alla speranza in tutto il mondo bianconero.
Quando lo sconcerto ormai la fa da padrone però, sul proscenio della partita salgono due personaggi d’autore. Uno è il protagonista, il Puma Emerson, l’altro il deuteragonista Wiese, ex portiere di buon livello, ora Wrestler per la WWE.
L’estremo difensore ospite esce in presa con sicurezza, sventando una delle ultime chance Juventine, ma una volta accovacciato a terra perde misteriosamente il pallone. A quel punto la leggenda narra che Cannavaro urli ‘Pumaaa, pumaaa’ ad Emerson (che è di spalle alla palla), affinché il brasiliano si renda conto della situazione favorevole e depositi banalmente la sfera in rete. E’ il tripudio bianconero. Uno degli orgasmi calcistici più forti probabilmente mai provati, sicuramente il più impetuoso, in quanto totalmente inatteso anche solo un decimo di secondo prima. Bello, meraviglioso, o forse persino celestiale.
La storia di Emerson però, forse vale la pena ricordarla anche e soprattutto quando per un’inezia finiamo per restarci male, quando per un rinvio errato di Evra si vanificano 180 minuti (o 90) di qualità massima. Semplicemente perchè con il Mix di Momentum e casualità bisogna imparare a conviverci, e capire che l’All-in sulla singola annata, in UCL, non ha nessun senso. Ragionare quindi solo sulla stagione 16/17 in chiave vittoria finale ha poco senso, ha molto più valore farlo relativamente al prossimo lustro, su un periodo di tempo più lungo e meno influenzabile dall’episodio.
E allora si che la Juventus e i suoi tifosi saranno finalmente pronti ad affrontare il torneo con la consapevolezza adeguata nei propri (potenti) mezzi e portarlo a casa, magari anche più volte.