Juve e Atalanta, una lunga storia d’amore e di mercato

Vi mancava il calciomercato? Improbabile, dato che questo filone giornalistico – o, come noi insinuiamo da tempo, questo ramo della letteratura fantascientifica – è ormai onnipresente, pervasivo, e non si fa in tempo a chiudere una sessione che già si vagheggia delle trattative future. Però gennaio è dietro l’angolo, ed ecco riaprirsi la caccia ai talenti. Quella della Juve, non potendo ovviamente competere con la faraonica campgna di rafforzamento dell’Inter già proiettata a fornire al cholo Simeone, per la prossima stagione, Cristiano Ronaldo, Messi e James Rodriguez, si appunta più modestamente sugli ultimi succulenti frutti di uno dei  più proficui vivai italiani, quello dell’Atalanta. Caldara sembra in dirittura d’arrivo, si ragiona di Gagliardini e Kessié. Come tutti sanno, non è una novità: la Dea è forse la più assidua fornitrice alla Vecchia Signora di materiale umano spesso di prim’ordine.

La storia pare cominciare addirittura negli anni ’20 con tal Fenili ma diventa più concreta alla fine degli anni ’40, che vedono approdare in bianconero Cergoli, l’ungherese Kincses, Mariani e soprattutto due pilastri della biscudettata Juve bonipertiana, il mediano Mari e l’arrembante terzino Manente, cui seguirà, un anno più tardi, il robusto centrocampista Karl Hansen omonimo ma non parente del fuoriclasse John e anche lui campione d’Italia nel 51-52. Dopo un altro paio di minori i rapporti si affievoliscono, e negli anni ’60 il miglior talento orobico (Domenghini) è appannaggio dell’Inter, mentre a Torino arriva nel ’63 il duttile attaccante brasiliano Dino Da Costa, che si fermerà per un triennio. È tuttavia nel decennio successivo che quella fra Juve e Atalanta diventa un’alleanza strategica: si comincia nel 70-71, allorché Boniperti e Allodi rifondano una squadra puntando sui giovani: così a Bergamo va il valoroso ma ormai spolmonato Leoncini e il percorso inverso lo fanno ben 4 giocatori: il meteorico Montorsi, che praticamente non vede mai il campo; il difensore Zaniboni, che in due stagioni lo vede pochino; il centrocampista Gianluigi Savoldi detto “Titti”, fratello del più noto Beppe, piuttosto chiuso dai vari Capello e Causio, e Haller, e che nondimeno sarà utile rincalzo per tre stagioni, per poi ritornare dopo due anni nel 75-76 senza però trovare mai spazio; infine l’attaccante Adriano Novellini, che si fermerà per un triennio risultando particolarmente utile nel girone di ritorno del vittorioso campionato 71-72, quando sostituirà degnamente Bettega colpito dalla tubercolosi. Nel ’74 la Juve si accaparra il modesto centravanti Musiello, anche lui impiegato per lo più in coppa Italia. Ma i colpacci sono di là da venire: l’anno successivo Boniperti sceglie a Bergamo l’erede di Sandro Salvadore nella persona del ventunenne Gaetano Scirea: eredità pesante per la quale, come la storia fin troppo nota s’incaricherà di dimostrare, il ragazzo aveva spalle più che adeguate. In quegli anni la Juve oltre a dirottare a Bergamo giocatori un po’ spremuti (ad esempio Giampiero Marchetti) vi destina per l’apprendistato alcuni ragazzi del vivaio, e continua altresì a pescare. Così nel ’77 ecco Antonio Cabrini, altro acquisto magistrale sul quale è inutile qui spendere ulteriori commenti; l’anno dopo arriva Pierino Fanna, che staziona a Torino per un quinquennio senza forse mantenere tutte le promesse (darà obiettivamente il meglio di sé al Verona e all’Inter) ma collaborando fattivamente a 3 scudetti e in particolare il 19° nella sua miglior stagione juventina, e a una coppa Italia.

Nella stagione 79-80, caso pressoché unico, lo shopping da Bergamo esaurisce l’intero mercato juventino: ecco infatti il portiere Bodini, i centrocampisti Prandelli e Tavola e il cavallo (pazzo) di ritorno Marocchino, cresciuto nella nostra primavera. Nessun campione, va bene: però Bodini, epitome del secondo schiacciato da Zoff, si ritaglierà spazi importanti dopo il suo ritiro con la coppa Italia ’83, la supercoppa ’85 e la coppa campioni dello stesso anno, in particolare a Bordeaux dove con le sue parate spingerà la Juve in finale, e trascorrerà da noi un decennio; Prandelli sarà bianconero in sei anni ricchi di titoli, paradossalmente penalizzato dalla sua migliore caratteristica, ossia l’eclettismo che gli fa ricoprire svariati ruoli, facendo bene in tutti senza eccellere in nessuno. Tornerà poi in nerazzurro per chiudere la carriera da calciatore e iniziare quella di allenatore; Tavola patirà il peso della maglia numero 10 e con vari intervalli giocherà 3 stagioni lasciando come ricordo solo un bellissimo gol in Coppa Coppe a Danzica; Marocchino infine sarà estroso e discontinuo protagonista di due scudetti e di qualche serata danzante di troppo, come ricorderà un celebre striscione di accoglienza a Lodz (“Marocchino vieni a ballare con noi in discoteca”) esposto dalle locali tifose.

Dopo il parcheggio e successivo ritorno del prodotto del vivaio Storgato si arriva agli anni grami: nell’86 l’Atalanta mette in vetrina il centravanti Pacione, capocannoniere in B, e il tornante Donadoni. La Juve si assicura il primo che andrà però incontro a una serata ammazza-carriera contro il Barcellona in coppa dei campioni, in cui si divorerà 3 palle-gol facilissime condannando la Juve all’eliminazione, e diventando l’emblema dell’attaccante pa(stic)cione. Sul secondo Boniperti pensa di potere esercitare la consueta esclusiva, ma viene spiazzato dal cospicuo rilancio del Milan, che se ne assicura le prestazioni: colpo non solo magistrale tecnicamente, visto che Donadoni si rivelerà un campione, ma di grande efficacia simbolica, rappresentando l’inizio della fine del dominio bonipertiano e il segnale della futura egemonia berlusconiana. Il solito viaggio lo fanno comunque Roberto Soldà, ipotizzato come erede di Scirea ma decisamente non all’altezza, e il povero Marino Magrin, improbabile sostituto di Platini in una squadra da fine Impero.

Un po’ meglio Daniele Fortunato, regista arretrato intelligente sebbene un po’ lento, a suo agio sia con la squadra di Zoff che con i lambiccati schemi di Maifredi, e buon protagonista di una coppa Uefa e una coppa Italia.

Nell’estate ’93 il redivivo Boniperti dirotta nelle casse orobiche ben 11 miliardi per il roccioso difensore Porrini, che se la caverà assai male (anche schiacciato dall’ipervalutazione) il primo anno, ma si rifarà decisamente come jolly difensivo nel successivo e trionfale ciclo lippiano. Ciclo che vedrà arrivare ottimi rinforzi come Alessio Tacchinardi, Paolo Montero, Bobo Vieri e Pippo Inzaghi, tutti troppo noti e vicini perché se ne debbano rivangare i fasti juventini. Meno riusciti gli innesti di Mirkovic e Damiano Zenoni, mentre Padoin e Peluso, seppure criticati come acquisti di basso profilo delle sessioni invernali guadagneranno – specie il primo – un grande affetto dai tifosi come gregari utili e umili.

In definitiva un bilancio corposo e nel complesso soddisfacente: oggi la Dea sembra di nuovo una grande fucina, e la Juventus è in prima fila. Di Scirea e Cabrini temiamo ne nascano pochi, ma ci sono degli ottimi livelli intermedi. Come direbbe il classico (o sedicente) esperto di mercato, “filtra ottimismo”.

Massimiliano Mingioni

 

Ho visto cose che voi juventini… / 13  – Lunga vita ai gufi
Giuseppe Gariffo

 

 classifica

 

Se qualche anno fa il geometra Galliani avesse potuto avere, a suo uso e consumo, una classifica del genere, avremmo vissuto una sua celebrazione urbi et orbi e magari anche l’istituzione ad hoc di una patch sulla maglia rossonera. Neanche un tweet del profilo ufficiale Juventus, invece, e soltanto uno per gli altri numeri impressionanti di questo fine 2016: i 100 punti nell’anno solare e il 100% di vittorie casalinghe in uno Juventus Stadium nel quale, anzichè costringere ogni maggio gli inservienti a sostituire il Tricolore per aggionare il numero apposto, si potrebbe ornare l’entrata ovest con un sempreverde “Lasciate ogni speranza, voi ch’intrate”.

 Un alieno appena atterrato sul pianeta penserebbe che – pur essendo alla ricerca del sesto scudetto consecutivo, che non avrebbe pari nella storia del calcio nostrano – società e tifoseria bianconera siano ormai focalizzate sulla conquista dell’Europa e tendano a considerare normale routine le vittorie in serie A. Sappiamo bene che così non è, e che le celebrazioni sobrie siano, prima ancora che di una tradizione sabauda, figlie della consapevolezza che il campionato è ancora tutto da conquistare e che solo fra pochi giorni si assegnerà il primo trofeo stagionale: quella Supercoppa Italiana che “vale come la Coppa del Nonno” se la vinciamo noi, ma finisce per somigliare maledettamente alla Champions League se la perdiamo.

Perché invece le vittorie italiane sono sempre più gustose, altro che noia! E questa sapidità la dobbiamo a una variante umana molto diffusa in Italia, che potremmo definire banalmente antijuventino e che da alcuni anni assume sempre più le sembianze ornitologiche del gufo. Se non esistessero i gufi, essere juventino sarebbe molto meno interessante. Perfino il presidente Agnelli, nel discorso della cena aziendale di fine anno, ne ha colto gli aspetti peculiari sfruttandoli in ottica motivazionale. “Non importa chi vince, basta che non sia la Juve”, lo slogan più o meno celato. Non so voi, ma ogni anno io aspetto con ansia i primi commenti estivi del tipo “quest’anno per voi sarà dura, non lo rivincete”, “torneranno le milanesi e la festa è finita”, “Roma e Napoli ormai vi hanno raggiunto”, anche se spero sempre in qualcosa di più intrigante, del tipo “vedrai che Higuain alla Juve non farà niente, lui e Dybala non possono giocare insieme e Pjaca a gennaio andrà via”. E, vi giuro, c’è stato chi me l’ha detto. Non controbatto mai, allargo le braccia possibilista e registro o screenshotto. Poi a maggio restituisco, attingendo dalle risposte a nuovo materiale per il futuro, perché a ogni nostra vittoria corrisponde ovviamente una motivazione complottista, un alibi o una situazione contingente che l’anno dopo, secondo i gufi, non si ripeterà.

Ma la vera novità di questi anni è che c’è stato un upgrade del gufaggio. Ad assumere le sembianze dell’uccellaccio non sono più solo tifosi delle altre squadre ma addetti ai lavori, giornalisti, ex-calciatori (anche ex-juventini che dichiarano “qui a Sky abbiamo fatto apertamente il tifo per la Roma”) che senza più veli auspicano un avvicendamento ai vertici del calcio italiano, inventando ogni archetipo (o algoritmo?) possibile per lasciar presagire la prossima caduta di Madama.  Le interviste settimanali a Boniek, Pruzzo, Pagliuca e company, gli editoriali cangianti di Sconcerti (cito solo il più famoso), le esortazioni accorate di Leonardo Araujo a De Rossi (“prendi in mano quello spogliatoio, Daniele, quest’anno si riapre tutto”), gli elogi al “bel giuoco spumeggiante” dei terzi in classifica, il rumore di specchi per la non ammonizione a Sturaro e la distinzione caressiana tra “didatticamente rigore” e “vero rigore” per lo sgambetto a Mandzukic, la collaborazione di Orsato sul gol di Higuain (“De Rossi avrebbe fatto fallo e Higuain non sarebbe mai passato, se l’arbitro non avesse ammonito scientificamente Capitan Futuro dopo 10’”), sono la ciliegina sulla torta di questi giorni meravigliosi. Se l’amico, il collega, il cliente antijuventino potrà al massimo rallegrare i nostri lunedì al bar, questa new generation di gufi carica anche i nostri undici guerrieri in campo. Nell’attesa, speriamo ormai non troppo lunga, di sollevare la Coppa con le orecchie (che chissà quale grande macchinazione avrà alle spalle, quando sarà nostra), godiamoci e festeggiamo appieno queste vittorie italiche, anzi speriamo che non finiscano mai e Tavecchio debba istituire una patch e una premiazione apposite per il secondo classificato.

 

Lunga vita ai gufi!