Quando sei primo e ti senti settimo

Quei giorni in cui qualunque cosa scriva sbagli, stagione seconda, puntata numero quattro (e mezzo, se ci mettiamo Doha).

E’ complicato scrivere in modo equilibrato durante questa stagione, tanto più dopo partite disputate senza nerbo, senza gioco, senza prestazioni individuali all’altezza, senza neanche una reazione rabbiosa dopo un gol come quello di Higuain, trovato quasi per caso. Tanto più se è la quarta volta che accade in trasferta, contro squadre discrete ma largamente inferiori, e se fuori da Torino non hai mai pienamente convinto, quando siamo già a metà stagione. I passaggi a vuoto ci sono, negarlo sarebbe demenziale e non farebbe bene.
Ma non è complicato per questo: abbiamo vissuto stagioni ben più altalenanti (decisamente più altalenanti) e abbiamo sempre scritto serenamente, perché lo sappiamo, capita di vincere e di perdere.
Discutere del centrocampo che non gestisce il pallone, dell’assenza di personalità, di un modulo che pareva trovato e invece si è deciso di tornare indietro all’improvviso, di un giovane difensore che sembrava in rampa di lancio ed è tornato in panchina, di sfruttare meglio la qualità offensiva (ecco, la nota lieta: la serpentina di Pjaca nei pochi minuti disputati): no, non è questo che è complicato. Questo fa parte del gioco.
Addirittura parlare dell’arbitro, tema da sempre tabù per noi juventini, non è complicato: tanto a noi interessa evidenziare l’ormai sfacciata disparità dei media secondo il famoso “a parti invertite”, per cui un rigore negato ai nostri avversari sul 2-1 (al netto di giochi pericolosi non fischiati, offside sbagliati e compagnia) di una partita importante avrebbe dato origine a titoloni, finali infuocati, la voglio rivedere, dopopartita incentrati sul movimento più o meno congruo del braccio, mentre ieri il tema veniva trattato con un sorriso, en passant, in mezzo ai complimenti per i vincitori e al processo ai vinti.
Non è complicato perché a noi il calcio piace di più se trattato così e ci dà la nausea “a parti invertite”.

Nemmeno evidenziare le solite porcherie sull’Heysel, stavolta un bel po’ di adesivi celebrativi, oltre ai soliti “amo Liverpool” che tanto, ormai lo sappiamo, stanno bene a (quasi) tutti.

E’ complicato perché in troppi di noi hanno creduto alle scemenze estive di giornali che peraltro dicono di non leggere mai: campionato già finito, minimo semifinali di Champions, Higuain 30 gol. Altrimenti è fallimento. Se non vinci il sesto scudetto di fila, magari con un paio di mesi di vantaggio, è fallimento.
A questo si aggiunga la gente stufa di scudetti. Perché sì, amici romanisti, napoletani, delle due milanesi: qui c’è gente stufa di scudetti. Gente che si è annoiata della festa allo Stadium, dei giocatori che salgono sul palco mano nella mano con i bimbi, chiamati dallo speaker mentre scandiamo il loro nome; del giro col bus scoperto, di cose che voi dareste oro per vivere almeno una volta ogni tanto. Siamo stufi della nostra felicità, mentre voi ci guardate sbavando per l’invidia, anno dopo anno.
Stanchi, stufi e per di più certi di vincere, perché i giornali dicevano così: il cocktail è esplosivo, e se perdi giocando male a Genova o Firenze il clima è quello degli anni del settimo posto (“non c’è gioco, basta proclami dei giocatori su internet e più lavoro, difesa vecchia, Buffon bollito, Dybala presuntuoso, centrocampo smontato” e così via), quando sei primo con una partita in meno.
Tra i tanti problemi realmente esistenti (ma chi non li ha, in Europa, tra coppe e campionato? Dal City di Guardiola al Barca che è sotto il Siviglia, ci sono squadre ben più attrezzate di noi che non se la passano meglio), il più evidente è proprio questo: l’atmosfera che accompagna questa stagione.
Sin dall’inizio, se si vince (che si tratti di affrontare il Napoli, la Roma o di andare a Siviglia, per non parlare delle partite “facili”) si è semplicemente fatto il minimo sindacale. Non ce la godiamo. Non lo facciamo apposta, è proprio così: ci pare di non avere fatto altro che il proprio dovere, quasi stancamente. Ci siamo convinti che superare ogni anno di quindici punti una squadra con Strootman, Nainngolan, Dzeko, Manolas e compagnia, o una con Mertens, Callejon, Hamsik (e in passato Higuain), per non parlare di chi ha speso settanta milioni negli ultimi giorni di mercato per due soli giocatori, sia l’assoluta normalità, niente più che un dovere.
Se si perde, da Milano e Firenze, passando per i rigori di Doha, il clima è funereo.
Il che, entro certi limiti, mi piace, eh, sia chiaro: vorrei che la sconfitta della Juve, tanto più se così brutta, fosse sempre vissuta come un piccolo dramma da noi tifosi, per non abituarci mai a diventare come gli altri. Ma l’isterismo, la sufficienza, la stanchezza che ci accompagna in questa stagione (e non è solo un discorso di “social”, temo) non ha nulla di positivo, e non può che derivare direttamente dalla sbornia dei 5 scudetti, dai ridicoli pronostici estivi per i quali una squadra che ha preso Higuain e Pjanic vendendo Pogba e Morata debba necessariamente e automaticamente sovrastare le rivali, che intanto diventano sempre più affamate e competitive.
Non c’è nulla di facile nel vincere uno scudetto. Sono 38 partite, con alti, bassi, la Champions prima e dopo, partite apparentemente facili ma da vincere a tutti i costi e e partite difficili in cui cercare comunque di ottenere il massimo.
C’è qualcosa di incredibile nel vincerne due, tre o addirittura cinque di fila, roba che #sulcampo non capitava da ottant’anni.
Sarebbe leggendario vincere il sesto, per un mix di tutte queste ragioni: la nostra “stanchezza”, la fame altrui e tutto il resto che abbiamo appena scritto. In centovent’anni non c’è mai riuscito nessuno, eppure, pure noi che non giochiamo, viviamo la stagione con quell’insopportabile mix di stanchezza e presunzione, che diventa rabbia, che poi torna stanchezza appena si torna a vincere qualche partite, per tramutarsi ancora in frustrazione alla prossima sconfitta, anche se sei primo in classifica (figurati se non lo saremo più).
E scrivere lucidamente in una stagione vissuta così, in cui sei il più forte ma a volte in campo te lo scordi, in cui sei primo ma pare che sia settimo, credetemi, diventa complicato.

Il Maestro Massimo Zampini

#ZeroDieci – Fame o gioco? E quelle 7 sconfitte

#ZeroDieci – Fame o gioco? E quelle 7 sconfitte

ZERO – Il numero di contrasti vinti ieri nel 1° tempo, ma anche le uscite pulite nei primi 45′, quando la nostra manovra veniva stroncata sul nascere da errori su errori o falli tattici. Ci si aspettava una Fiorentina aggressiva alla quale anteporre pari irruenza. La verità è che la Viola al dinamismo ha abbinato il gioco e noi siamo stati travolti. Zero a Zero è anche il risultato che avevamo in testa quando siamo scesi in campo. E se parti così, hai già perso.

UNO – Non è un numero UNO qualsiasi, Gigi Buffon, è il miglior numero 1 degli ultimi 20 anni, uno dei migliori di sempre, in campo e fuori. Stima, lodi e gratitudine per lui dureranno altri 20 anni, ma oggi va detto che Gigi non è più il numero 1. E’ tra i top 10 per esperienza, posizionamento, scelte, tempi e doti innate, ma non è più invincibile. Anche ieri -tra i meno colpevoli- il diagonale di Kalinic era forse imparabile, ma quante volte, in passato, Gigi ha parato l’impossibile? Quante volte vediamo miracoli dai vari Donnarumma, Handanovic o perfino Szczesny? Intendiamoci, non cambierei Gigi con loro, ma da SuperMan ora il numero 1 è un eroe vulnerabile, nelle uscite alte come nell’esplosività a terra.

DUE – Come le reti subite, la prima con contatto falloso di Bernardeschi, peccato che Sandro, Bonucci e Chiellini siano più reattivi nel protestare che nell’arginare i viola; la seconda con tiro “velato” da Chiesa. 16 in 19 gare, troppe, per una squadra inviolata l’anno scorso per 10 gare di fila. Due anche gli episodi “sfortunati” sul piano arbitrale, detto del primo gol, c’è un braccio largo di Gonzalo a 2 metri dal cross di Pjaca. Lo so, patetico parlare di arbitri dopo una gara così…eppure è la quarta volta che ce lo diciamo, mentre altrove si battono record storici dagli 11 metri..

TRE – Il numero di maglia che dovrebbe avere Alex Sandro, per noi il miglior “3” su piazza. Anche ieri: ritmo, fisicità, dribbling, spinta e propulsione e un terribile Chiesa domato alla lunga. Eppure Sandro non può cantare e portare la croce e, se il brasiliano incide quando giochiamo e attacchiamo, si trova nei casini quando siamo bassi e soffriamo. Ieri subisce fallo sul primo gol e ha un centesimo di ritardo sul secondo. Quando la squadra vola, Sandro le mette le ali, quando la squadra è a terra, Sandro nulla può. Tre anche i centrocampisti travolti da Borja-Vecino e Badelj. Del resto, Marchisio al 50%, Khedira con ritmo da MLS e Sturaro sono un centrocampo da 4°-5° posto. Poi la difesa è la migliore, l’attacco è atomico e le gare si vincono, ma se il centrocampo va sotto e ci sono errori individuali dietro e avanti, perdi. Senza appello.

QUATTRO – I ko in trasferta, contro squadre di “vertice” (Inter, Milan e Fiore) e un Genoa versione deluxe. Numericamente non una tragedia, perché nelle altre 5 la Juve ha bottino pieno. 15 punti, come fare 3 vittorie e 6 pareggi, stessi punti e molte umiliazioni/MoriremoTutti in meno e magari anche scosse successive. Eppure, se a Firenze si può perdere e una giornata storta (Genova) capita, le due di S. Siro erano evitabilissimi e soprattutto, contando le vittorie non esaltanti a Lione e Siviglia, la Juve fuori casa è debole, vulnerabilissima. Una NonJuve fuori, colpa anche di Allegri (4 ieri, dato da un Allegriano..)

CINQUE – A Dybala. Secco. Dopo giorni di Palloni d’Oro e centinaia di milioni, la Joya si fa notare in 2-3 ripartenze e poi sbaglia tutto: passaggi, guizzi e la palla del pari sul sinistro. Il secondo album è sempre il più difficile, nella carriera di un’artista. Ma dopo lo stop di due mesi, Dybala tende a strafare, saltarne sempre uno di troppo, incunearsi in spazi in cui passi solo se sei davvero in giornata messianica, ed è troppo frettoloso e poco lucido sottoporta. Eccessive responsabilità, di recuperare i mesi persi e anche l’assenza di Pjanic con cui dialogare e spartirsi marcature e oneri. E’ ridicolo crocifiggere il nostro talento più puro, questi sono passaggi ovvi nella carriera di un potenziale fenomeno

SEI – A Pjaca, che continua a mostrare miracoli a metà. Allegri poteva puntarci subito, dando segnali alla squadra e ai rivali, tenendo sotto pressione un Sanchez centrale mai aggredito. Pjaca sbaglia alcune partenze a testa bassa ma, come sempre, fa girare la testa 2-3 volte al suo marcatore entrando con facilità in area (unico dei nostri che ci arriva). Poi una volta lì, Marko “chiude gli occhi” e fa scelte errate, tiri complessi, cross imprecisi. I veri campioni alternano cose sublimi a cose semplici: il sublime per passare da A a B dribblando due avversari, il semplice per passarla da A a B libero, e gol.

SETTE – Come le sconfitte in una A da 34 gare della prima e seconda Juve di Lippi, con Scudetto e finale Uefa e poi Scudetto-Champions. Altri tempi, altre rivali, altri KO. Eppure quella Juve capì subito la rivoluzione dei 3 punti e preferiva 2 vittorie e 2 sconfitte a 4 pareggi. Che sia di auspicio per il cammino in Champions. Ora siamo a 4 KO (5 l’anno scorso e 3 al primo anno di Allegri)  e non perdiamo perché troppo aggressivi ma perché esageratamente passivi. I bonus sono finiti….

OTTO – A Kalinic (sempre perfetto contro di noi) e soprattutto a Paulo Sousa. In un ambiente complicato (e ostile verso un “gobbo”), in un torneo con 5 squadre più attrezzate, il portoghese l’anno scorso aveva iniziato alla grande con un calo nel ritorno e quest’anno ha meno punti di quelli meritati. Gran gioco, organizzazione difensiva altalenante, lancio di giovanissimi e soprattutto capacità di plasmare mentalità vincente, non provinciale. Poi, fuori dal campo, Sousa è il migliore, mai una polemica, un alibi o tiritere e retoriche scontate. Discorsi alti, lavoro sulla filosofia calcistica. Paulo è pronto a tornare a casa. I saltelli alla presentazione in viola si dimenticano presto.

NOVE – E’ il nove per eccellenza, Higuain. 3 palle 1 gol e mezzo. Ma anche scatti sulla linea, lanci, cambi campo. Predica essenzialità nel nulla di una Juve bassa e depressa. Poi le solite zampate. Uno così va valorizzato non distillato.

DIECI – Va, sulla fiducia, alla nostra capacità di rialzarci, ritornare, ri-agguantare la presa. Abbiamo staccato la spina troppe volte. Forse dopo 5 anni e mezzo è arrivato quel logorìo psico-fisico dei senatori, del blocco storico, BBC+Marchisio e Licht e il centrocampo è stato svuotato a favore di esterni e attaccanti di lusso. Dopo la gara i vari post social dei nostri “Fame, Palle e Intensità, loro si noi no” o “Ci rialzeremo” e bla bla, sembrano la solita litania già vista dopo S. Siro, Genova, Doha e fanno quasi incazzare. Eppure, siamo coerenti: se in 5 anni gli stessi calciatori con le stesse riflessioni su fame, reazione e palle hanno battuto tutti i record della storia del calcio italiano, ora bisogna credere in loro e riporre la stessa fiducia di questi 5 anni. Perché il calcio è tecnica, gioco, episodi, ma se quella fame ci ha dato il surplus che andava oltre tutto questo, quella voglia può compensare le lacune che ci mancano. Grinta e fame. Sì, perché in quel primo scudetto di Lippi citato, e in quell’epico Juve-Fiorentina (3-2) col leggendario gol di Del Piero, la vittoria arrivò con un gesto tecnico superlativo, tra i migliori del decennio. Ma prima di quell’epifania, arrivò la doppietta di Vialli, la reazione rabbiosa, la fame oltre alla tecnica e al gioco. E prima del sublime, c’è la rabbia, quella di Ravanelli, di Vialli, questa: