A Napoli per vincere: citare Benedikt Howedes per non precludersi nulla. Non ci sono le condizioni per dover agire al ribasso, d’altronde non si perdono i campionati a dicembre. Così come non li si vince. Venerdì sera al San Paolo non si giocherà dunque una finale, e questa può già essere la parte buona di una torta che mette in palio giusto la farcitura. Sarri la vorrà mangiare tutta, con gli occhi assetati, senza prendere il respiro; Allegri invece la vivisezionerà con lo sguardo, e poi con gli stessi occhi, se non sarà troppo tardi, cercherà il coltello.
Fa parte della loro natura di uomini, di conseguenza delle loro due squadre, nelle quali non sono più alchimisti e in cui entrambi si possono sentire a ragion veduta fieri architetti con vista dall’alto. Poco conta, in questi casi, che la Juventus sia in ennesima mutazione: è più che mai la Juve di Allegri e il tecnico ne sente profondamente la responsabilità. Così come è il napolidisarri, per definizione, un solo modo di giocare, godibile e riconoscibile, sul quale è lecito e talvolta saggio giocare per spezzarne la riproducibilità. Già soltanto limitato al 70% del suo modello automatizzato, il Napoli riduce del 90% le possibilità di sconfiggere i bianconeri, ancer eventualmente privi di Higuain, a meno che questi non scendano in campo in modalità facciamocimaledasoli (è tutto qui il lavoro di Allegri extra-tattico degli ultimi 10 giorni).
Che poi è chiaro: lo juventino, che non è sempre diretta emanazione della Juve del suo tempo, vorrebbe non solo fare come Howedes (che ai microfoni indica la missione con un’innocenza e una naturalezza che fa impressione, forse perché il San Paolo è una costruzione mentale prettamente nostrana). Lo juventino vorrebbe di più, vorrebbe sentirsi più forte in tutto, vorrebbe sbranare l’ingordo mettendosi sul suo piano. Quindi impostare la partita meno allegriana dai tempi di Pereyra-Morata-Tevez, magari con 4-3-3 a specchio (lo specchio magico, l’invenzione di Conte autunno-inverno 2011 proprio per questa partita qui), a centro ring, colpo su colpo, testa contro testa, baricentro-strappi-verticalizzazioni-inportaconlapalla.
L’impressione, al contrario, è che lo storico recente anche nei confronti diretti, spinga la Juve verso la difesa a tre. Quanto sta bene Chiellini? Quanto sta da dio Benatia? Barzagli che bullizza il Crotone vale al mille per mille partite di questo livello? Quanto è figo il tedescone biondo che quando gioca sembra divertirsi come un pazzo, e con un piede che in pochi ricordavano? La sequenza delle risposte darà l’esito delle scelte finali di Allegri, quello che “…voi con questi numeri mi fate impazzire, va a finire che un giorno ne metterò dodici in campo”. Sarà lui il dodicesimo, venerdì come martedì come sabato prossimo. Fa finta di nulla, ma lo sa. Sa di poter contare su molti, se non tutti. Il sogno di allenatore. Che non è quello di vincere a Napoli, bensì fare la partita che vuole con chi vuole. Un-due-tre. E in otto giorni ricreare il mondo.
In questo senso, Allegri è il massimo dell’ambizione. Fa infuriare, fa saltare dalla sedia, fa gongolare. E il suo pianopartita resterà un mistero fin che questa sarà finita. Fino a metà gennaio funziona così. Al che può (perché si può, eccome se si può) rivelarsi più perfidamente ingordo degli ingordi. Come il polipo di Plutarco che in inverno mangiava tutto e tutti, anche se stesso, standosene accucciato, pigro o insensibile, o entrambe queste cose messe insieme.
Luca Momblano