“Troppo più forti”. Lascio Roma con la totale naturalezza con la quale Giacomo Bonaventura raccoglie l’abbraccio di vecchi amici di famiglia che sono venuti a trovarlo dalla Toscana prima di salire sul pullman. E’ appena passata la mezzanotte, Massimiliano Allegri non ha ancora terminato di parlare di quanto vincere non sia mai normale, rivendicando l’eccezionalità di questi (sette) anni. Nello stesso istante, due voci fanno quindi la fotografia più bianconera possibile di una nuova stagione sulla quale tirare le somme: da una parte le braccia aperte, sconsolate, di chi ha capito; dall’altra il dito puntato verso chi prova a Roma ricomporre con la penna (o la tastiera) il puzzle di un’epoca, evitando attentamente di indicare se stesso.
Lascio quindi Roma dopo essermene avvicinato viaggiando fatalmente con il milanista Federico, 239ma partita dal vivo per lui, con addosso la maglia regalatagli a bordo campo da Leonardo Bonucci dopo Milan-Verona di Coppa Italia. Ci crede perché ci deve credere, perché è giusto così, perché (accompagnato dalla madre) nella vita ci ha sempre creduto.
Ecco, da quel momento, da quel vagone Torino-Roma senza un solo juventino da opporre al coloured alle mie spalle travestito da Kessie (anch’egli con maglia ufficiale), senza uno juventino che avesse la carica di esprimersi, da quel momento al momento in cui lascio Roma è come essere stati rivoltati come un calzino. Come la posizione di Trendelenburg, nel caso l’abbiate mai provata.
Intendo il crescendo per il quale i tifosi bianconeri hanno iniziato a esistere (e a viverla, forse anche a sentirla) a un’ora dal match fino a svegliarsi il mattino successivo con un rumore dentro che si somma a quello mediatico e delle messaggerie private varie: è quasi come aver vinto la Champions League. E non è un male, anzi un rafforzativo, l’euforia dimostra che la tifoseria non è abituata né spenta, solo un po’ sofisticata e questo dev’essere sempre un vanto. Lo deve sapere il club, immaginando il giorno in cui ci si guarderà indietro e ricordando i momenti della delusione e della (appunto) sofisticata reazione del pubblico, lo deve sapere Massimiliano Allegri nonostante il carico sulle spalle a lungo andare si faccia sentire.
Senza entrare dentro la partita (il 4-0 è il risultato per eccellenza, insolito dentro la nostra storia: dominante, senza appello, più forte contro più debole, il più bravo contro l’impotente), ciò che avanza di questa trasferta romana è il respiro gaudente della notte con Massimo, Mariella, Giacomo, Mike e naviganti vari, con la sorprendente cricca dei lodigiani (poi con loro ancora il giorno dopo), con i compari milanesi, con gli irriducibili dell’Olimpico (costoro già nel prepartita).
Ci ho riflettuto qualche ora: perché è stata diversa già solo da Juve-Lazio di un anno prima? Per Bonucci? Per Buffon? Sì ma no. O invece perché è stata davvero un’annata diversa dalle precedenti? Perché il primo titolo dopo un lungo camminare è pur sempre una liberazione? Per tutte queste cose messe insieme? La miglior risposta la darebbe Allegri, uomo a cui si può dire tutto e il contrario di tutto concedendogli prostrati il coltello dalla parte del manico. Perché, questo sì, l’asticella della comunicazione Juventus l’ha spostata di diversi metri verso l’alto. Ecco l’unico motivo per il quale, quando penso a un erede come se mai fosse emanazione mia, mi fermo un attimo prima del nome ideale. Perché, stringi stringi, esiste solo in filosofia.
PS: l’uomo travestito da Kessie lo ritrovo il giorno dopo, direzione Bologna. Tra gli amici anche un mulatto juventino, di gran lunga il più devastato del gruppo, che dorme con la sciarpa bianconera avvolta davanti agli occhi: che notte, quella notte…
Luca Momblano.