Parto facendo coming out, per chiarire da che parte sto. Sono sempre stato fan di Antonio Conte, sia come calciatore che come allenatore. Nella prima veste era l’esempio di come professionalità, impegno e voglia di vincere potessero trasformare un calciatore mediocre in un elemento importante per una big (quel gol in mischia ad Atene all’88’, col fazzoletto in bocca, il paradigma della sua indole da guerriero). Nella seconda veste sta mostrando il suo talento, idee di gioco belle e innovative e una rara capacità di motivare e far breccia nel cuore dei calciatori, che sembrano disposti a dare la vita sul campo per lui (anche e soprattutto i gregari che, a sua immagine, sotto la sua guida si trasformano). Avevo la sua maglia con il suo “8” ed ero il primo a cantare il celebre coro “senza di te non andremo lontano…Antonio Conte nostro capitano”. Gli riconosco i meriti principali nella rinascita della Juve, soprattutto nella prima splendida stagione. Dall’anno dopo si è visto meno gioco, tanto “tremendismo” e la differenza con le altre era già tanta (il Milan iniziò a smobilitare dando via Ibra e Thiago Silva, Napoli e Roma erano competitive solo fino a Natale, l’Inter era l’Inter), ma quella prima stagione… capolavoro assoluto. Un 15 di Luglio, però, mi è “caduto dal cuore”. Chi è una bandiera della Juve, al secondo giorno di ritiro (non importa se abbia ragione o meno, se la società lo abbia preso in giro sul mercato o altro) non abbandona la nave. A quel punto si tura il naso, rimane un altro anno, onora il contratto e poi va via, magari anche sbattendo la porta. Lo deve alla sua storia, alla maglia, alla gente che lo acclama e lo ha difeso contro tutti dal fango che gli è stato spalato addosso con la vicenda calcioscommesse. Chi va via in quel modo, invece, è solo un professionista, anche top, ma non una bandiera o un simbolo. Non gli darò del traditore, il rancore non mi impedirà di riconoscere il suo valore come allenatore, nè come tanti tiferò contro le squadre che allena, ma non sarà più un’icona della juventinità, per me. E se un giorno tornerà sulla panchina della mia squadra, sarò ben contento di vedere la Juve guidata da un ottimo allenatore, ma quel coro non lo canterò più. Anche perché, diciamocela tutta, “senza di te siamo andati lontano” lo stesso.
La stucchevole contrapposizione tra “vedove di Conte” (etichetta sgradevole che uso solo per essere chiaro) e “integralisti allegriani” (nomignolo non meno fastidioso), è però ormai insopportabile. L’ideologia, nella sua accezione più negativa, è l’affermazione di un’idea a prescindere dalla realtà. Quando accade qualcosa che la convalida, essa viene ripetuta e ostentata all’infinito. Quando invece la stessa produce disastri, essi non sono colpa mai dell’idea in sé, ma di una sua errata applicazione. L’idea è buona a priori, insomma. “Sticazzi” se i fatti spesso la contraddicono. Entrambi gli schieramenti, pro-Conte e pro-Allegri, peccano di ideologia. Alimentando un clima controproducente, a tratti irrespirabile, per l’ambiente. Non è un caso se questa settimana ho ascoltato, nel canale tematico ufficiale (solitamente distaccato e asettico nella comunicazione), il direttore parlare di “tifosi da tastiera”.
Ma chi sono i Contiani? Chi gli Allegriani?
I primi sono quelli che, nei tre anni di Antonio, “si vinceva solo grazie a lui”. Ma che, se in Champions uscivamo ai gironi era colpa della sfortuna a Copenhagen, della neve a Istanbul, di Isla (mandato in campo forse dal vice) che si scordava di fare il terzino a Torino; se non centravamo l’obiettivo storico della finale di Europa League a Torino, tirando quasi mai in porta contro il Benfica in casa, era colpa dell’ostruzionismo dei portoghesi. Vittorie grazie all’allenatore, sconfitte mai sua responsabilità. Poi è arrivata la rescissione, quel 15 Luglio, ed è arrivato Allegri (anzi Acciughina, come lo chiama un mio caro amico che si rifiuta di nominarlo). Che il primo anno ha vinto grazie al lavoro che aveva lasciato in eredità Conte, ovviamente, arrivando in Finale di Champions solo grazie “ad Eupalla” e non certo per il passaggio alla difesa a 4 e l’alleggerimento di una tensione che attanagliava cronicamente, le gambe dei bianconeri alle prime note della musichetta di Champions. Un buon gestore, ma non un grande allenatore. Infatti l’anno dopo gli rivoluzionano la squadra e lui, buon gestore ma non capace di costruire una squadra, dopo dieci giornate è tredicesimo in classifica, c.v.d. Poi vince il campionato con una striscia di vittorie record, mette paura al Bayern di Guardiola in Champions (Evra, spazzala!), ma ovviamente solo perchè i “senatori”, dopo la sconfitta a Sassuolo, hanno smesso di ascoltarlo, gli hanno imposto di tornare alla difesa a tre e hanno iniziato ad autogestirsi. Quest’anno, dopo un nuovo rimpasto estivo non banale, la squadra è ancora prima a +4 sulle inseguitrici, qualificata agli ottavi di Champions con anticipo, come non accadeva da anni, ma perché la squadra è una Ferrari, anche se guidata da un autista di autobus. Se fai notare ai Contiani le incongruenze del loro pensiero, ti risponderanno che non c’entra niente Antonio, che loro tengono solo alla Juve e che non bisogna fare sempre il paragone tra Allegri e Conte (ma solo perché sarebbe ingeneroso paragonare un fenomeno ad Acciughina).
E gli allegriani? Stessa medaglia, faccia opposta. Loro sono quelli che “Andonio Sgheddino vinceva solo grazie alla società che gli prese Pirlo e Vidal”, che “fosse per lui avremmo avuto Giovinco senatore a vita e Ranocchia capitano”. Parola più, parola meno. Pur di andare contro il Traditore qualcuno di loro teorizzerebbe che il primo scudetto fu merito del gol di Muntari e il secondo del gol di Bergessio. E adesso, se gli fai notare che la Juve non fa tre passaggi di fila, sono in grado di tirarti fuori statistiche sulla percentuale dei passaggi riusciti che neanche il miglior Galliani dei tempi d’oro. Se il numero di infortunati, negli ultimi due anni oltre qualunque soglia di accettabilità, saranno capaci di ritirar fuori studi metereologici sull’umidità di Vinovo, archiviati da qualche anno, pur di scagionare Max e il suo staff. Se dopo tre partite vinte giocando male, alla quarta la Juve prende la scoppola, ecco venir fuori tutti gli alibi per gli episodi sfortunati, dimenticando quelli favorevoli che nelle settimane precedenti avevano permesso di vincere partite “giochicchiate”. E avanti così.
Questo clima nuoce gravemente all’ambiente, dicevamo. Prima del Genoa, mi sono preso del “bimbominkia” da un amico, per aver ritwittato una statistica del Corriere dello Sport (non la Pravda bianconera) in cui si celebrava la Juve di Allegri capace di collezionare 112 dei 123 punti disponibili nelle ultime 41 partite di serie A. Si parlava di punti, non di percentuali di passaggi riusciti o rimesse laterali offensive, eh? Ero comunque un Allegrer. Da un’altra parte mi hanno dato del vedovo, perché osavo criticare la formazione iniziale e le posizioni di Cuadrado e Dani Alves. L’apprezzato pagellista di questo sito ha dovuto far precedere la pagella di Allegri da un disclaimer: “qui si giudica la singola partita”. Altrimenti sarebbe stato etichettato (lo è stato comunque) e non avrebbe dovuto rispondere a commenti sul merito, ma sulla sua scelta di culto antiallegriano. E i media nazionali cavalcano la disputa, tanto che su un prestigioso quotidiano nazionale si è arrivati (riferendosi sempre, velatamente, alla scansologia di Buffon) a citare senatori che da settimane rimproverebbero all’allenatore la sua ritrosia a ricorrere a un sistema di gioco più organizzato (come quello, appunto, del predecessore) a vantaggio di un calcio più aperto alla libertà del singolo calciatore di talento.
Oggi dopo una sconfitta non devo spegnere il telefono per evitare lo scherno degli amici interisti, ma per non leggere gli sfoghi di chi sembra non vedesse l’ora che i suoi “moriremo tutti” trovassero conferma nei risultati. Anche allo Stadium, dove fin qui abbiamo sempre vinto, si ascoltano mugugni e fischi mai uditi prima, e perfino un leader come Bonucci lo ha sottolineato con amarezza. È ora di tornare alla normalità, di rimettere la gioia per una vittoria bianconera davanti alla effimera soddisfazione degli “io l’avevo detto” quando l’allenatore “canna” una partita. Teniamoci tutto il diritto di critica razionale e costruttiva, ma rimettiamo la Juventus al centro, mettendo da parte per qualche mese le passioni irrefrenabili per i profeti della panchina. Possiamo ancora conquistare o perdere tutto. A fine stagione, in un modo o nell’altro, si faranno i conti. Sperando che non generino nuove vedove.
Giuseppe Gariffo