DAI LETTORI – Tra tutti, Khedira

Lo scudetto n° 34 va dedicato. Ai molti che non ci credevano, io per primo dopo le prime 10 giornate: si diceva, tra noi tifosi, che la Juventus avrebbe dovuto vincerle tutte per sperare. Lo ha fatto. Ma va dedicato anche ai vari giornalisti di parte avversa che ci avevano già fatto il funerale. Va dedicato alla stampa, ai media, a tutti quelli che non credono nelle imprese sportive perché si fermano ai limiti dell’umana ragione. E quello che ha fatto la Juventus di quest’anno è un qualcosa di disumano, di impensabile, inimmaginabile per noi comuni mortali. Ma loro non sono umani, sono vincenti, sono macchine programmate per raggiungere sempre l’obiettivo principale. Lo ha detto anche il Presidente Agnelli, non c’è tempo di festeggiare un traguardo raggiunto che già si pensa al prossimo da raggiungere. Mentalità. Mica “quelli lì”: citazione del francese che amo di meno, ma che sa il fatto suo, sa come si vince. Potremmo parlare facilmente di Pogba e di Dybala, con i loro numeri, impressionanti: e a loro va dato il giusto merito, perché giovani ma decisivi. Ma questa Juventus, oltre che con le qualità, ha vinto lo scudetto con la mentalità. Le dichiarazioni di Evra, dopo Empoli-Juventus, sono la voce di un DNA che solo questa squadra ha. Penso a Pirlo, Tevez e Vidal: vincenti, maturi e senza paura di fronte alle pressioni. Poi penso a Sandro, Mandzukic: nuovi ma vecchi, perché hanno la stessa mentalità. Penso a Khedira, tanto silenzioso quanto decisivo. Non mi ricordo il momento preciso in cui mi sono innamorato di questo giocatore, ma è stato sicuramente in una delle prime apparizioni, quando l’ho visto per 90’, nei quali ha fatto tutto perfettamente. E’ quello del posto giusto al momento giusto. Come un attaccante opportunista ma con la capacità di lettura di un difensore. E con la visione di gioco di un centrocampista. E’ lui l’uomo Juventus di quest’anno, è lui il dopo Sassuolo: che strano, in quella partita non c’era, e non c’era nemmeno Marchisio. Quando sei in campo e stai sotto, difficilmente trovi la forza per recuperare: ci vuole la testa. E se hai un compagno come Khedira, ti basta alzare la testa e guardarlo negli occhi per capire che con lui si vince. Ed è l’unica cosa che conta.

di Francesco Mazzocca

DAI LETTORI – 13 maggio 2006 – 14 maggio 2016: 10 anni dopo, 91 punti

DAI LETTORI – 13 maggio 2006 – 14 maggio 2016: 10 anni dopo, 91 punti

Stavo fumando una sigaretta mentre scendevo verso la piazza, in un tardo pomeriggio di metà maggio in certi posti ti puoi godere una leggera brezza fresca che allevia il primo caldo, i colori aspri di un tramonto che va a spegnersi oltre l’orizzonte e le luci della Sicilia che iniziano ad illuminare quel meraviglioso spettacolo naturale che è lo Stretto. Cristo si è già fermato da un bel po’; la Signora pare raccogliere invece quaggiù, in queste province di un sud profondo che più profondo non si può, la gran parte dei propri consensi. “Juve in trasferta, Calabria deserta”, magari fosse così, possibilità che francamente non ci sono da queste parti. Sicuramente così sarà il prossimo anno, quando Madama tornerà qui dopo sette lunghi, interminabili anni e gran parte del tifo calabro bianconero invaderà lo “Scida” di Crotone, come fu solo in cadetterìa; come era quando la Reggina stava fra i grandi, io ero troppo piccolo per stare nel settore ospiti, in curva nord al “Granillo” prendevo insulti e mia madre ci rimise un portafoglio (interista, lei. Pensate che beffa).

Mentre scendevo pensavo agli ultimi dieci anni. Me lo ricordo bene quel 13 maggio 2006. Ricordo che lo sognavo dall’agosto precedente, appena usciti i calendari. Reggina – Juventus. Ultima di campionato al Granillo. Il che, con quell’armata che Capello si trovava a dirigere, avrebbe significato quasi sicuramente Scudetto. Scudetto a Reggio Calabria, trenta km da casa mia. La Juve veniva a trovarmi, Del Piero avrebbe alzato la Coppa al Granillo, bandiere, sciarpe, magari ci scappava pure l’invasione e qualche maglietta. Quel campionato lo ricordiamo tutti, già un mese prima di quel maggio maledetto le gerarchie sembravano chiare, la serie di pareggi che ritardavano il trionfo erano per me il segno di un destino che mi rassicurava: tutto ciò che avevo immaginato, tutto ciò che avevo sognato per anni e che stavo pregustando stava per realizzarsi. Tutto. Solo l’imponderabile avrebbe potuto rovinare quel 13 maggio 2006. L’imponderabile si compose di due fattori: il primo, la squalifica del “Granillo” per una giornata, a seguito di un Reggina – Messina in cui Storari rimediò un pugno alla nuca; il secondo, ciò che ben sappiamo. Quel 13 maggio 2006 lo passai davanti alla tv, a vedere Bettega in lacrime nelle viscere del “San Nicola” di Bari; fuori, in quel terreno, ma anche fuori qui, dal mio balcone, impazzava una festa insensata cui mai ho partecipato. Non perché sentissi meno mio quello Scudetto, o perché si giocò a Bari anziché a Reggio Calabria: semplicemente, perché non aveva senso per me andare a festeggiare ciò di cui altri, di lì a breve, si sarebbero fregiati. Ne ero consapevole. Ne eravamo tutti consapevoli, in quel maledetto maggio. Lo sapeva Bettega e lo sapevamo anche noi che ci avrebbero tolto quello che avevamo conquistato sul campo. Così come sapevamo che tempi duri ci attendevano, anni di sofferenze, onte e delusioni sportive, anni in cui avremmo visto gli altri gioire, magari proprio i rivali più odiati. Nulla contro chi quello Scudetto lo ha festeggiato legittimamente, per carità; la mia è stata la scelta di un adolescente che, per la prima volta, aveva sperimentato il sentimento del tradimento. Si. Mi sentii tradito. Non dalla squadra, che aveva fatto il suo dovere. Ma un po’ dal destino, che mi negò lo Scudetto a Reggio. Un po’ anche dalla mia stessa passione, che mi toglieva una grande certezza, forse la più stabile in quegli anni: la Juve che vince, la Juve che è la più forte, la Juve tricolore.

La mente di un tifoso non è fatta come le altre. Al di là dell’influenza che l’andamento della propria squadra ha sull’umore, un tifoso vive anche di tante piccole emozioni, sensazioni, ricordi, premonizioni e scaramanzie che caratterizzano la sua giornata. Giorni fa stavo salendo di corsa dalla stazione alla facoltà, ero già in ritardo e sotto stress per gli esami imminenti; bastò sentire di sfuggita un vecchietto al tavolino di un bar che, conversando con un amico, disse “Se vinci dominica a Firenzi è fatta!” a regalarmi un sorriso, a cambiarmi la giornata. Ecco. Per me la Juventus è questa.
Dicevo: mentre scendevo verso la piazza, dove già impazzavano i caroselli, fumando la mia sigaretta in un meraviglioso tardo pomeriggio calabrese pensavo ai dieci anni appena trascorsi. Ricordo bene che, quel 13 maggio 2006, non piansi. Non versai una lacrima. Le tenni tutte per il 6 maggio e per il 13 maggio di sei anni dopo, con un gusto ben diverso. Di mezzo c’è stata la mia adolescenza, le prime cotte, le prime cazzate, la maturità e i primi anni dell’università. Giurisprudenza, tanto per poter comprendere meglio anche le carte dei processi. Tanti i dubbi; dubbi sul fatto che ci sia stata veramente la volontà di fare chiarezza su quanto effettivamente successo, da parte di tutti. Anche da parte nostra, o chi di dovere per noi, almeno. Quel che rimane di questi dieci anni sono undici stagioni che, comunque, ci hanno visto trionfare per sei volte, sul campo. Più uno Stadio nostro, che forse non sarebbe stato possibile senza l’inferno patito in quella tremenda estate di dieci anni fa. Quel che mi rimane è una passione, un amore, una fede incrollabile “alla nostra volontà di esistere e continuamente migliorare”. Quel che non passerà mai sono le partite vissute davanti alla tv con mio padre accanto che scambia Buffon per Zoff e scalcia i palloni dal divano se c’è da spazzare situazioni pericolose o da buttarla dentro senza troppi complimenti. Quello che devo io, a questa squadra, è un grazie: per essere stata certezza fino al 2006, per esserlo tornata, per questa generazione leggendaria di vittorie e di campioni. Per Del Piero che alza la Coppa, per Giaccherini col Catania, per Osvaldo al 94’, per Pirlo al 93’, per Madrid, per Cuadrado al 93’ e per Buffon che ad alzare Coppe ci ha preso gusto. Per quella Coppa, sfiorata a Berlino, che magari toccheremo con mano anche noi nei prossimi anni. Magari la porteranno anche qui, in qualche club della provincia, dove le finali le viviamo sul maxi schermo nella piazza principale, dove ci sentiamo un po’ come a Berlino, a Madrid, a Dortmund o a Torino (eccettuati gli idiomi e gli accenti, ovviamente), con i colori aspri di un tramonto del profondo sud e lo Stretto di Messina a fare da sfondo a undici “piemontesi tosti”, ma anche un po’ calabresi.