Dani si fa largo per Cardiff

 

Quando Dani Alves è sbarcato a Torino tutti l’hanno, l’abbiamo, accolto come un mostro sacro. Nel meraviglioso ma a volte un po’ svenevole tiki-taka blaugrana, Alves era quel tipo losco che aspettava larghissimo che gli altri lavorassero il pallone per trasformare le idee di Guardiola in un cross, in un tiro, in una giocata definitiva. Del tiki-taka Alves, molto più degli attaccanti, era il vero risolutore. In quella banda di giocolieri, il brasiliano rappresentava paradossalmente la concretezza.

Un volo verso Torino e l’orizzonte cambia. Il meno brasiliano dei brasiliani, di fronte alla leggendaria e spiccia concretezza bianconera, appare subito come un brasiliano senza se e senza ma. E lui, che arriva in una squadra che ha vinto cinque scudetti di seguito – neppure il Barcellona c’è riuscito – pensa che sia tutto facile. E si mette a giochicchiare. Allegri grida in falsetto dalla panchina, ma lui niente, troppo il divertimento di essere il diverso in campo. Alves a Torino si concede giocate di fino al limite dell’area di rigore difensiva, si presta ai ghirigori e agli arabeschi, nel giropalla è puntualmente quello che mette in difficoltà il compagno. Sembra la versione difensiva di Vucinic nelle giornate in pantofole. E non una, due, tre volte. Ma sempre. Il suo talento si vede da lontano, ma lo spreca, lo rende un’arma puntata alla sua stessa tempia. Tanto da far rimpiangere, e poi inevitabilmente resuscitare, il grigio calvinismo di Lichtsteiner.Poi c’è una Juve che vince ma non convince, che non trova mai la fluidità, che non sta alta ma non si distende, che non pressa ma non fa contropiedi. Fino a che Allegri, dopo Firenze, non trova la soluzione. La Juve ingrana, Alves ancora no. Poi a Genova, contro la Samp, succede qualcosa. La stella di Alves si riaccende. Cos’è successo? La Juventus è arrivata ai quarti di Champions, due giorni prima l’urna dell’Uefa ha detto Barcellona. E domenica 19 marzo bastano dieci minuti per capire che Dani ha capito che è arrivato il momento di fare sul serio. Perché alla Juve si fa sul serio. E lui, che non aveva dimenticato come si fa, semplicemente decide che la vacanza è finita. È pronto per il calcio che conta, forse era solo abituato troppo bene: che tu lo voglia o no, una Roma o un Napoli non sono il Real, una Roma o un Napoli in Europa non le conosce nessuno. Perché il Real e gli altri giganti quando ce le hai di fronte è un’altra storia.

Alves dimentica gli arabeschi, ri-diventa essenziale nella squadra che più essenziale non si può. E quando hai i piedi e la personalità, sai quando accelerare e quando frenare, quando serve nascondere il pallone e quando giocare di prima. Cross, assist, gol con traccianti che spaccano in due lo Stadium. Senza colpi di tacco, dribbling o arabeschi. Il calcio è tutto qui. Poi, certo, qualche problemino pur sempre c’è. Guardiola lo voleva larghissimo davanti, ma stretto dietro: nelle uscite del pallone dalla difesa il terzino diventava mediano. E se si conta che il Barcellona teneva palla 70 minuti a partita, dietro c’era da stare stretti e basta. Solo che alla Juve difendere è una cosa seria, perché lo si sa fare e non ci si vergogna. E quando i tuoi compagni recuperano palla vogliono trovarti lì, sulla linea laterale, sempre. Alves a volte se lo dimentica, gli piace entrare dentro il campo. Che si difenda o che si riparta. E meno male che c’è un Barzagli che si sdoppia. E meno male che c’è un Allegri che nell’intervallo riscrive i confini. Dani, resta là, largo, ché il confine è solo alla tua sinistra: davanti tutte le praterie sono tue. Anche Cardiff ti aspetta.