Quelle facce, che incontro in aereo all’andata, le ho già viste prima di tante trasferte europee: un mix di speranza, fiducia e timore, perché “quest’anno siamo forti, crediamoci”, ma “l’Atletico è tosto e in in Europa non si sa mai…”, quindi “speriamo bene”, ché così non si sbaglia mai, “comunque c’è anche il ritorno“.
Dovessi dirmi qual è il nostro stato d’animo più ricorrente, prima di una grande partita di Coppa, direi il “fatalismo”. Tipico di chi spesso ha compiuto imprese che non aveva immaginato e altre volte si è fermato proprio sul più bello, quando pensava che stavolta sarebbe toccato a lui, nessuno lo avrebbe potuto fermare.
“Speriamo bene”.
E l’inizio, quando arrivi in Spagna, vedi la gente ancora sorridente e vitale, vai a pranzo con gli amici, arriva il “jamon” come si deve, va bene per forza. “Firmereste lo 0-0?”. Sì, perché vorrebbe dire non perdere fuori, anche se al ritorno sarebbe comunque un inferno.
E le chiacchiere sulla formazione, uno si chiede “come si fa a tenere fuori Cancelo?” e l’altro, che ha ormai assorbito un concetto espresso a parole e anche nei fatti tra mille partite e conferenze stampa, risponde convinto che “le partite durano 95 minuti, è sempre più importanti avere i cambi giusti che spaccano la partita”.
E lo stadio, il Wanda, bellissimo sin da fuori e molto caldo dentro, al netto di una indecente rete che occlude in parte la vista a noi tifosi ospiti, tanti e tutti con quella stessa faccia da “speriamo bene”.
Cantano, i loro, già prima dell’inizio e ancor di più quando arriva il rigore che rigore non è (il santo Var) e proseguono incessantemente per tutta la partita. Ed è vero che la loro squadra oggi ispira cori e canti più della nostra, e non so se abbiano qualche problema con la società, i prezzi o altro, ma mi pare che i loro supporter, mentre stanno spingendo la squadra nell’altra porta, e quindi verso i quarti di finale, semplicemente muoiano dalla voglia di cantare e, appunto, vedere la squadra al turno successivo di coppa.
Sarà così per tutta la partita, con loro scatenati e noi inermi, fuori e soprattutto in campo – perché poi conta quello, eh –, anche quando Diego Costa spreca un’occasione che al confronto quella di Schick di quel dicembre era di una difficoltà mostruosa. Ma poi Diego Costa esce, non ci sono mugugni e sospiri, ci sono solo applausi per un idolo dei tifosi di casa, entra Morata – anzi, quello fa i tre cambi in pochi minuti, a circa mezz’ora dalla fine, perché la vuole vincere – e poco dopo accade quello che tutti sapevamo sarebbe accaduto, ma il santo Var è con noi (qui immagino le facce attonite dei tifosi rivali, impossibilitati a prendersela con Mazzoleni e il Palazzo), siamo ancora 0-0, dovremmo essere carichi di energie, in campo e fuori, come quando pari un rigore e poi riparti all’azione successiva con tutti i giocatori che salgono e lo stadio che canta, ma stavolta siamo più coordinati che mai, fermi e impauriti loro in campo, zitti e impauriti noi fuori, e fermo pure Allegri, che certo, “4 scudetti, 4 coppe Italia, due finali di Champions” però se dici che vuoi far gol e porti Cancelo in panchina per spaccare la partita, poi vorrei capire perché a questo tocca entrare a meno di dieci minuti dalla fine, quando i buoi sono scappati (due volte) senza mai, fin lì, produrre un lampo, un brivido, un accenno di reazione.
Non difende abbastanza, forse, e io lo capisco, eh, qualche distrazione difensiva del portoghese l’abbiamo già vista e De Sciglio oggi è proprio l’ultimo degli imputati, però se subisci 2 gol, più uno sprecato incredibilmente, uno annullato grazie al santo Var, una traversa e tu non hai prodotto praticamente nulla, al diavolo i timori, dentro chi salta l’uomo alla Cancelo e proviamo a segnare sul serio.
Troppa paura, troppe incertezze (anche tecnicamente), troppa lentezza nell’avanzare, troppi pochi uomini ad accompagnare l’azione, con tanto possesso palla sterile, inefficace, perché Simeone è ben contento di tenere poco il pallone e produrre 5 occasioni da rete a zero. La sta vincendo lui, Allegri (e noi con noi) sta soccombendo.
Alla fine ci proviamo, proprio con i subentrati, ma è tardi, è finita 2-0, facevo bene a firmare lo 0-0, loro cantano ancora mentre da noi è partita la caccia al colpevole, un classico di questi anni in cui si perde poco e allora, quando accade (in modo poi così netto), un colpevole va trovato per forza. Si parte da Allegri, ovviamente, e oggi per me parte della sconfitta è sua: poco coraggio, troppi timori prima di fare i cambi (solitamente uno dei suoi punti forti) e, soprattutto, il tradimento di quel messaggio sull’importanza di fare il gol in trasferta. E stavolta, per la prima volta da quando è qui, abbiamo perso nettamente contro una squadra tostissima ma non superiore, alla nostra portata, dopo anni di sfide coraggiose a Real, Barca e Bayern. E’ la prima grande delusione, per quanto mi riguarda.
E detto questo, detto anche che la Juve degli ultimi tempi troppo spesso pare vincere quasi per inerzia, un giorno capiremo il senso di questo veleno verso uno dei nostri tecnici più vincenti di sempre – e più straordinariamente rispondenti al nostro stile, anche nelle dichiarazioni e nella sobrietà -, come se esistesse anche un solo allenatore al mondo che avrebbe ottenuto risultati migliori di “4 scudetti, 4 coppe Italia, due finali di Champions” in questi anni.
Sono un tifoso semplice, ma nel suo giorno più nero, quello in cui sono deluso e ho diversi appunti da muovergli, mi chiedo perché alcuni considerino un brocco chi perde le Champions contro Real e Barca in finale e un idolo assoluto chi esce con Galatasaray o Benfica, anche lì per troppi timori e senza osare mai. E la premessa, ovvia per un tifoso semplice come me, è che io – senza fare distinzioni – sono e sarò sempre grato e legatissimo a entrambi, a chi ci ha riportato al nostro posto (quando non ci credevamo più) e a chi ci ha fatto rimanere lì e riportato al nostro posto anche in Europa (quando non ci credevamo più, basti ricordare il clima dei giorni del suo arrivo). Sarò sempre legato anche a Capello, del resto, che ci ha regalato due grandi scudetti, ma – con uno squadrone sensazionale – poi usciva malamente contro Arsenal e Liverpool, altro che il brivido delle finali.
E lo stesso vale per i ragazzi, per Dybala che giocherà pure più indietro, e piacerebbe anche a me vederlo più vicino alla porta, ma a Cardiff giocava più avanti e spesso ci si chiede se abbia capito di essere un fuoriclasse davvero o non ci creda ancora abbastanza; per Pjanic, febbricitante e si vede; per Matuidi, più impreciso del solito; per Alex Sandro che sbaglia tutti i primi interventi, non riprendendosi mai; per Bonucci che cade troppo facilmente; per Mandzukic, stavolta davvero “no good”.
Sono arrabbiato per la partita, per un’altra opportunità probabilmente sfumata in Champions, perché quest’anno abbiamo delle lacune ma non siamo potenzialmente inferiori ad alcuna squadra, perché l’Atletico è tosto ma comunque superabile, quindi fa molto più male del solito e non c’è davvero nessuna scusante.
Deluso dall’allenatore, irritato con i giocatori, critico con tutti, ma lontano dal veleno che non ha senso e non produce mai nulla di positivo.
Risalgo in aereo, rivedo anche stavolta delle facce già viste, mi ricordano quelle dopo le finali, quando lo “speriamo bene” è diventato silenzio, qualche borbottio, le critiche ad Allegri, i dubbi sui giocatori, sul centrocampo che non è più quello di Berlino, la rabbia perché “vengo dal sud Italia, ho speso tanto, volevo cantare e non me lo hanno permesso”, gli interrogativi sul ritorno, la voglia di crederci comunque, perché siamo la Juve, perché “ti ricordi il Bernabeu?”, perché c’è il secondo round e siamo ancora vivi, con tanta voglia di provare l’impresa, “con Cancelo dall’inizio, e forse pure Douglas Costa che salta l’uomo”.
Bologna, Napoli, Udinese. Intanto queste.
Poi ci sarà il ritorno e bisogna provarci con tutte le forze, con qualche speranza in più, solamente a un patto: l’allenatore, la squadra e tutti noi dovremo essere diversi, tornando a essere quelli di questi anni. Altrimenti, poi, sarà inutile avere rimpianti.
Il Maestro Massimo Zampini
Crediamoci, dice Cristiano
Nel romanzo del calcio, arriva il momento in cui ti trovi a febbraio con l’avversario più complicato possibile, nella competizione che più ti interessa, nel periodo più delicato e tormentato.
In questo momento, la grande euforia dell’estate sbatte contro la dura realtà del campo e lo schiaffo doloroso ha le fattezze del beffardo volto di marmo del Cholo Simeone.
In questo momento, diventa tutto incerto: i giocatori arrivano tardi, non stoppano bene il pallone, lo passano di lato e non avanti. L’allenatore sbaglia le scelte, viene anticipato dal suo avversario e si esce sconfitti, sbigottiti, disorientati.
Nel romanzo del calcio, ti trovi in squadra colui che ha fatto gol 22 volte ai biancorossi di Madrid, ma lo vedi muoversi nervoso; scattante, dinamico, ma solo.
Arriva il (solito) momento in cui ti senti fuori dai Campioni, escluso, reietto; la sera prima, in un campo inglese verso il mare, due squadre, 5 Champions per una, erano in campo a contendersi il quarto di finale; una fra Liverpool e Bayern non ci arriverà, ai Quarti, ma siamo certi che per loro non si parlerà di “fallimento”, come per noi. Ma lo sappiamo, il perchè di questo concetto, la perversa relazione fra noi e la coppa con le grandi orecchie.
In questo momento, quando dormi male, se dormi, può arrivare un raggio di sole: ora c’è bisogno del leader, c’è bisogno di un motto, di un invito a non mollare.
Ed ecco che arriva, alle 8.41 della mattina dopo:
In quel CREDIAMOCI c’è tutta la voglia di farcela, di non uscire agli ottavi di finale per colui che ha vinto tre finali di fila; l’accenno di sicumera della manita esposta nei corridoi del Wanda, tutta riferita a se stesso, ora si trasfonde nell’invito a tutta la squadra.
C’è la foto di tutti ed undici, e lui che dice CREDIAMOCI: lui che – forse – ha visto perfettamente che in campo non è stato così, al Wanda Metropolitano.
E allora ci dobbiamo credere: il risultato può essere ribaltato, lo sappiamo. Anche 10 mesi fa eravamo qui a crocifiggere l’allenatore, come sempre immemori di questo splendido ciclo di vittorie (anche in Champions League).
Il CREDIAMOCI è rivolto a tutti noi: è l’unica cosa che ci rimane, in fondo, oltre all’ennesimo scudetto.
Leonardo Dorini