Il recente segmento di campionato ha visto la Juventus vincere sempre tranne in due occasioni: il pareggio interno contro il Lione e la sconfitta contro il Milan.
Nel post partita di SanSiro è stato impossibile non parlare dell’errore di Rizzoli che ha annullato un gol valido alla Juventus sul risultato di 0-0 (con ancora un’ora da giocare, quindi tutto il tempo di provare lo stesso a vincere, va detto) e questo ha creato una certa spaccatura tra noi tifosi che ci siamo divisi in almeno 2 fazioni:
– Chi non parla di arbitri a prescindere perché sono “l’alibi dei perdenti” cit
– Chi ha dato la colpa della sconfitta quasi totalmente a Rizzoli, ricordando cosa ci dissero 4 anni fa con la storia di Muntari (a proposito, avete visto che bufera mediatica su tv e giornali? Come dite? Non c’è stata? Ah…)
Si può parlare serenamente di arbitraggi quando influenzano il risultato in maniera così netta?
La risposta è sì. E nel farlo dobbiamo per forza metterci d’accordo sul fatto che ogni analisi di ogni partita si basa su 2 livelli:
1) L’esame della prestazione;
2) L’esame del risultato.
Quando si valuta la prestazione, l’arbitro c’entra poco o nulla e quindi parlarne è del tutto inutile, anzi è fuorviante.
Perché se pensassimo che la squadra (Juventus o una qualsiasi altra) entri in campo molle, demotivata o troppo agitata oppure non riesca a tirare mai in porta o sbagli molto in fase difensiva solo per colpa dell’arbitro ci racconteremmo una favoletta (oddio… in passato in molti l’hanno fatto riscontrando pure un seguito notevole…) che ci porterebbe lontano dal problema:
Una squadra gioca male perché o l’allenatore e i giocatori commettono degli errori oppure ha sbagliato chi ha assemblato la rosa.
Ci sarebbe anche una terza via, quasi mai calcata in Italia: a volte perdi perché l’avversario è più forte/ha giocato meglio di te, semplicemente succede questo.
Nel caso della partita di Milano la Juventus ha giocato un discreto primo tempo, non dando mai l’impressione però, come invece era accaduto altre volte, di voler davvero azzannare l’avversario, come fa il gatto che si diverte col topo. E a volte capita che vince il topo.
Come nei film americani, quando il cattivo fa lo spiegone troppo lungo e alla fine ci rimette.
Se ci spostiamo sull’altra sponda, nell’analizzare il risultato (o nel commentarlo) l’arbitraggio diventa una componente di cui si può e deve parlare tranquillamente.
Può influire sul risultato finale (nel caso di Milan Juve Rizzoli l’ha fatto, annullando un gol validissimo, come fece Tagliavento nel febbraio ’12 con Muntari) così come influisce un attaccante in vena che ti realizza la tripletta anche se la sua squadra ha giocato male, oppure la sfortuna, quando domini ma prendi palo e traversa invece di segnare.
A questo punto dobbiamo chiarire una cosa e tocca levarci un po’ di melassa da dosso: il calcio è una metafora meravigliosa della vita perché spesso è bastardo e ingiusto proprio come la vita.
Non esiste il concetto di bene e male, buoni vs cattivi in una partita di calcio. Esistono 2 squadre e quella che fa più gol vince, fine.
Essendo uno sport a punteggio basso può succedere più che in altre discipline (penso al basket o alla pallavolo) che giocare bene o giocare meglio dell’avversario non significhi necessariamente vincere.
Certo siamo d’accordo che molto spesso il gioco sia un buon viatico per la vittoria, ma non è un’equazione matematica.
In uno sport in cui una partita può finire anche 1-0, l’incidenza degli episodi (inclusi quelli arbitrali) può essere notevole, talvolta determinante (ci riferiamo sempre al singolo evento, non al risultato finale di 38 partite).
La fortuna di un palo interno o di un arbitro che vede/non vede e valuta in un certo modo fa la differenza.
Può anche succedere che la squadra A domini dall’inizio alla fine, poi al 90esimo nell’unico attacco della squadra B questa segni e vinca la partita, oppure si conquisti un rigore.
Che deve fare l’arbitro? Non fischiarlo perché moralmente non è giusto? Cos’è, siamo tutti diventati boyscout e in paradiso esiste solo il pareggio?
Il calcio non ha nulla a che fare con le buone maniere, né con la giustizia divina.
Se un gol è buono è buono, se c’è un rigore dev’essere fischiato, anche se l’avversario ti ha asfaltato dall’inizio alla fine.
E se l’arbitro non lo vede? Ti è andata male (o bene, dipende). È un fattore che influisce sul risultato come tutte le altre componenti.
Quindi tornando a Milan-Juve è chiaro che la squadra di Allegri non ha fatto abbastanza per vincere la partita, e infatti alla fine non l’ha vinta, così come è vero che nel risultato finale l’abbaglio di Rizzoli è stato decisivo, perché almeno un gol Pjanic era riuscito a farlo.
Sarebbe finita 1-1 quindi? Non possiamo dirlo e se siete d’accordo lasciamo volentieri ad altri i mondi paralleli e le classifiche virtuali.
L’ultima nota è per i molti (compresi svariati giornalisti in malafede, ma ormai ci abbiamo fatto l’abitudine) che hanno messo sullo stesso piano le lamentele dei tesserati e quelle dei tifosi.
Non dovrebbe esserci bisogno di dire che siamo su 2 livelli diametralmente opposti: un tifoso può dire quello che vuole, compreso che Rizzoli era pagato da Galliani (o Tagliavento da Agnelli 4 anni fa). Esistono tanti, troppi tifosi della Juve che sono complottisti da competizione.
Diverso però è il ruolo della società e dei tesserati, che hanno il dovere di non aggrapparsi a nessun alibi e migliorarsi per vincere ogni partita.
E infatti nessun tesserato bianconero, nelle interviste post Milan-Juve, si è lamentato dell’arbitro, anzi, come nel caso di Barzagli che si è limitato a ragionare su quello che era mancato alla Juventus per vincere la partita, nonostante l’errore arbitrale.
Questo non significa che dirigenti e giocatori/allenatori della Juventus FC non abbiano mai ceduto alla tentazione di prendersela con gli arbitri. Ricordiamo senz’altro le parole di Bettega (poi bacchettato dall’avvocato) dopo la finale di CL del ’97 persa col Dortmund, lo sfogo di Conte dopo quel Juve-Genoa in cui Guida “non se l’è sentita” di fischiare un rigore nel recupero e, ultima in ordine cronologico, l’uscita infelice e totalmente sbagliata di Marotta dopo l’eliminazione agli ottavi di Champions contro il Bayern di Guardiola (smentito il giorno dopo da Buffon che sgravò da qualsiasi colpa la sestina arbitrale)
Tutti questi casi però sono circoscritti all’immediato dopo partita, in cui la concitazione mista a rabbia, delusione e mettiamoci pure rosicamento spesso fa straparlare anche i personaggi più pacati.
È sempre bastata una nottata per rinsavire e ricondurre i protagonisti sulla retta via del lavoro e dei pochi alibi.
Per comprendere la differenza: non siamo di fronte a un giocatore simbolo che la mena per anni col sistema Juve che impedisce alle altre di vincere (vedi Totti, poi De Sanctis) o di un allenatore che per 6 mesi manda a ripetizione la storia di un gol annullato (l’Allegri rossonero… vedi che scherzi a volte fa il destino…) o di un personaggio legato a doppio filo all’azienda che fa da advisor per la vendita dei diritti tv collettivi per lega di serie A (leggi Infront) e allo stesso tempo amministratore delegato di una importante squadra, sempre di serie A, il cui proprietario è anche padrone del maggiore network televisivo privato nazionale, e accusa un’altra squadra di comandare il baraccone mediatico a proprio piacimento (vero geometra?).
Oppure pensiamo ai quei presidenti che hanno giustificato lustri di disastri dovuti alla propria incompetenza col potere occulto bianconero come unica scusa da dare in pasto a media e tifosi e come alibi alla propria squadra (i nomi metteteli voi, li sapete benissimo).
L’atteggiamento che da sempre contraddistingue la società Juventus non è tanto questione di “stile” ma di pragmatismo allo stato puro: il torto non te lo risarcisce nessuno, anzi, se non ti rialzi alla svelta ti calpestano ancora più forte e ti sorpassano pure gli ultimi della fila, quindi: lavoro lavoro lavoro e ancora lavoro.
E nessun alibi.
E fino a quando non vedremo un tweet dal profilo ufficiale bianconero con immagini di gioco e righe strampalate disegnate sopra a casaccio (ogni riferimento….), sotto questo aspetto c’è da stare più che tranquilli.
“E se finiamo nel balatro la colpa è solo dell’albitro”
Willy Signori.
Fair Play Finanziario: considerazioni di un principiante
La sera del 15 Luglio, in piena “esaltazione Higuain”, guardavo la nota trasmissione di Bonan e Di Marzio su Sky. Lo faccio spesso, perché la trovo seria nelle argomentazioni e nelle notizie (per quanto mutevoli siano gli scenari di calciomercato, le news di Gianluca Di Marzio sono abituato a considerarle più attendibili), super partes, leggera nei toni e spesso interessante per la qualità degli ospiti. È lì che anni fa, ad esempio, ho scoperto Federico Buffa.
Quella sera tra gli ospiti c’è Mario Ielpo, ex portiere di Cagliari e Milan, avvocato da qualche anno. Mai sentito parlare, ma credo che un ex-calciatore che ha saputo conciliare sport e studio, arrivando alla laurea e all’esercizio di una professione prestigiosa, meriti stima. Lo ascolto con interesse. Dopo le ultime di Di Marzio sull’affaire Higuain, emerso il giorno prima, s’inizia a parlare del talento brasiliano Gabriel Jesus, nel mirino dell’Inter, recentemente acquisita dai cinesi di Suning. Pare che i nerazzurri siano forti sul giocatore, ma non riescano, per problemi legati al fair play finanziario, ad sferrare “l’assalto decisivo” per l’attaccante del Palmeiras. Un’opzione per aggirare le norme sarebbe l’acquisto del cartellino da parte dello Jiangsu Suning con successivo prestito all’Inter. La trovo, tra me e me, un’operazione discutibile quanto ad etica sportiva, ma vogliamo metterci noi gobbi a dare lezioni di morale, da sempre cavallo di battaglia della storia bauscia? Dopo qualche minuto viene però interpellato, sul tema, l’ospite Ielpo, e inizialmente il suo ragionamento sembra in linea con il mio pensiero: “Che Gabriel Jesus debba passare dalla Cina per aggirare il Fair Play finanziario è una cosa scandalosa”. Poi però prosegue “Questo regolamento rafforza sempre i più forti ai danni delle altre squadre”. Colpo di scena! L’Inter non starebbe aggirando una regola in modo un po’ ombroso, ma è piuttosto la vittima di un sistema iniquo, che non le consente di ridurre il gap con la Juventus e con le big europee senza ricorrere ad artifici strani.
Passano le settimane e Gabriel Jesus va al ricchissimo City di Guardiola, ma Suning esborsa tanti quattrini ingaggiando Candreva, Joao Mario e Gabigol. Quando, a fine settembre, leggo che, per rispettare le norme di FPF, è costretta a non inserire in lista Europa League Kondogbia e i due nuovi arrivi stranieri, mi tornano in mente le parole di Mario Ielpo. E mi chiedo: ma vuoi vedere che davvero il FPF è la zavorra che impedisce al calcio italiano di essere competitivo in Europa? Ed è possibile che il filotto di scudetti della Juventus sia solo conseguenza inesorabile di un regolamento che la favorisce a danno di altri? Fin quando le lacrime sul fatturato giungevano da Benitez e Sarri poteva essere “gioco delle parti”, ma qui a parlare è un ex calciatore avvocato… Dopo alcune settimane di silenzio, oltretutto, recentemente altri esponenti di spicco del nostro calcio, solitamente sobri, come De Laurentiis (“date a me 100 milioni in più e vedete se non vinco”), Zamparini e Ferrero, sono tornati a lamentare l’impossibilità di competere in Italia con la Juventus, a causa del suo fatturato e del Fair Play finanziario.
Così ho deciso di mettere da parte la ritrosia per i dati economico-finanziari e ho cercato pochi numeri che potessero darmi un quadro della situazione. Anzitutto i criteri del Fair Play Finanziario vengono resi noti dall’Uefa nel 2009, e le sanzioni entrano a regime alla fine della stagione 2010-2011. Non oggi. Chi sono dunque “i più forti”, che queste regole vorrebbero rafforzare “ai danni di altri”? Mi limito ad analizzare i dati di Inter e Juventus perché sono i due club italiani rispettivamente limitati e premiati, ad oggi, dalle logiche del FPF.
Alla fine della stagione 2010-2011 (start del FPF), un anno dopo la conquista dello storico triplete, Inter dichiara ricavi per 323 milioni a fronte di un passivo di soli (!) 69 milioni, salutato col sorriso perché appena un anno prima esso ammontava al doppio, 140. Nello stesso anno alla Juventus, reduce dal secondo degli altrettanto celebri “settimi posti”, Andrea Agnelli si trova a dover firmare il suo primo bilancio da presidente con 172 milioni di ricavi a fronte di 95 milioni di passivo. Si ricorre ad un aumento di capitale di 120 milioni, l’ultimo della recente storia bianconera.
Non occorre esplicitare ulteriormente chi fossero, all’introduzione delle nuove regole UEFA, i forti che potevano avvantaggiarsene e chi i deboli che rischiavano il baratro.
Dalla stagione successiva, in coincidenza con l’inaugurazione dello Juventus Stadium, la forbice inizia a restringersi fino a scomparire. Ma la nemesi si completa alla fine della stagione 2014-15, quando dopo soli 4 anni i dati sono, ironia della sorte, perfettamente invertiti: la Juventus arriva a fatturare quasi 323,9 milioni, l’Inter si ferma a 172. L’esatto opposto di giugno 2011! L’unica differenza è nel saldo: la Juventus dichiara un attivo di 2,3 milioni, mentre con gli stessi ricavi l’Inter quattro anni prima denunciava un passivo di 69. E il percorso sembra non arrestarsi ancora, visto che si prevedono 387,5 milioni di ricavo per il prossimo bilancio di Juventus Spa, e un trend ancora positivo grazie all’effetto effimero della plusvalenza Pogba e a quello, ben più stabile, del progetto J-Village.
Le regole del gioco si stabiliscono prima di iniziare a giocare, di solito. A volte non accade così, è vero. Si può decidere, alla vigilia di una partita scudetto, che gli extracomunitari in campo possano essere quattro e non più tre (e magari quell’extracomunitario in più, con gli occhi a mandorla, determina il match), o che avere un calciatore con un passaporto comunitario falso non vada sanzionato con un punto di penalizzazione a presenza, come da codice, ma con una semplice multa. Cambiare le regole in corsa si può, e non ci sorprenderebbe se questo un giorno accadesse anche per il FPF. Ma nel frattempo ne andrebbe sottolineata la necessaria utilità etica ed educativa (i passivi totali dei campionati europei sono scesi, con la sua introduzione, del 82,4% in 4 anni), e piuttosto che denunciare iniquità andrebbe applaudito chi ha saputo fronteggiarlo, per trasformarlo da spauracchio ad occasione per costruire una gestione sostenibile e vincente. Se la dirigenza Moratti, dopo la finale vittoriosa del Bernabeu, avesse ceduto al miglior offerente un paio di pezzi pregiati poi regalati anni dopo (Julio Cesar, Milito, Maicon, Lucio per fare alcuni nomi), forse non sarebbe sparita dai radar europei dopo quell’annata di gloria, e oggi chi ne ha raccolto il testimone non dovrebbe compiere atti di creatività finanziaria. E se in corso Galileo Ferraris, per tentare la risalita post-Calciopoli, avessero insistito sui “colpi” in stile Diego&Melo, anziché puntare sullo sviluppo di nuove entrate (Stadio, merchandising, Continassa) e su acquisti a parametro zero, non si sarebbe compiuta alcuna nemesi.
Ancora oggi serve salutare beniamini come Vidal, Morata e Pogba (pur con dinamiche diverse) per coniugare con la sostenibilità economica i risultati sportivi, creando i presupposti per renderli duraturi. Ci auguriamo tutti che arrivi presto il giorno in cui si potranno respingere gli assalti delle big europee ai nostri top player, offrendo loro le stesse cifre di ingaggio (chi scrive spera che questo giunga prima che qualcuno vada a bussare alla porta del procuratore del nostro numero 21). Ma la strada per raggiungere questa meta, passa attraverso una gestione responsabile, ed è la stessa che ha permesso di passare da Matri-Quagliarella a Higuain-Dybala, e da Maicon-Chivu a D’Ambrosio-Nagatomo.