Essere Benatia (e Rugani)

«Se c’è bisogno di me in Champions – spiega Medhi Benatia -, mi farò trovare pronto. Io, però, faccio fatica a giocare una partita ogni tanto: l’anno scorso facevo bene perché avevo più continuità. Purtroppo ora non ce l’ho e questo fa parte del mio mestiere: devo sempre lavorare per farmi trovare pronto, ma non è una situazione piacevole. Sono a disposizione della squadra, fino a quando starò qui darò il massimo. Che non mi va bene è normale: ho 31 anni e devo cercare di giocare il più possibile. Vediamo a gennaio che cosa succederà: quanto sono stato utilizzato, se la Juve ha bisogno di me, se vado bene ad Allegri…». 

Fonte: lastampa.it

Le parole di Medhi Benatia, tutt’altro che accenno di ingratitudine o rancore. Sono dichiarazioni genuine, che mettono in risalto un “falso” problema per l’ambiente Juventus: avere degli ottimi difensori in panchina, dietro gli intoccabili 3 (che oggi sono 2), può essere complicato. Le qualità e i percorsi di Rugani, dello stesso Benatia (ma potremmo tornare indietro fino a un inespresso Ogbonna), testimoniano l’esperienza di chi arriva in bianconero esprimendo un certo valore, ritrovandosi a battersi contro valutazioni superficiali sulla mancanza di attributi (caratteriali e/o tecnici), senza considerare tutto il pacchetto di rischi, responsabilità e ambientamento nel contesto.

Il ruolo del difensore è, per delicatezza, secondo solo a quello del portiere: ogni piccolo sbaglio può pesare macigni, il pubblico tenderà a ricordare solo le scelte o i gesti sbagliati, ti verranno addossate colpe anche quando non le hai e in pochi saranno in grado di vedere effettivamente le tue qualità e i tuoi difetti.

 

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Tutte queste controindicazioni sono amplificate da un minutaggio ridotto. Ad ogni gol subìto è una fioritura di “ecco perché non gioca mai”, “non possiamo stare senza quell’altro”, “non è all’altezza”. La vita della riserva alla Juventus è dura, nonostante la linea arretrata sia il reparto in cui Allegri è più propenso alla rotazione. Condannati alla discontinuità, al dover costantemente dimostrare di poter-un-giorno-essere-il-nuovo-qualcuno. Senza cuscinetti, senza comprensione dell’ambiente esterno. Benatia esterna un malessere legato alla qualità delle sue prestazioni, direttamente proporzionale – a suo dire, ma sappiamo bene che l’autoefficacia data dalla sicurezza in sé stessi è un fattore aggiunto – alla continuità di impiego, non sembra essere uno sbattimento di piedi da prima donna invidiosa.

Il collega Rugani, invece, ha sempre optato per un low profile totale, accettando anche pubblicamente lo status di alternativa, temporeggiando. Così come in campo. I due sono profondamente diversi: il marocchino è un difensore irruento, dominante, straripante, incontenibile; il lucchese è un freddo calcolatore, che sfianca il diretto avversario senza lasciargli scelte, puntando ad azzerare quelle che sono le due dimensioni del calcio: il tempo e lo spazio, piuttosto che cercando un impatto immediato, potendo comunque contare su un fisico di prim’ordine.

 

Space & Time Masterclass.

La differenza di urgenza comunicativa dei due è sicuramente legata all’età. Rugani ha appena gli anni del primo Bonucci bianconero, mentre Benatia circa quelli del primo Barzagli. In entrambi i paragoni per curriculum, a pari anzianità, ne escono decisamente vincitori. Comprensibile che il marocchino voglia godersi gli ultimi anni sentendosi ancora protagonista, soprattutto dopo un’annata come la precedente, senza rischiare cali di rendimento dovuti alla discontinuità; altrettanto comprensibile la pazienza di Rugani, che per alcuni può nascondere una mancanza di carattere, ma come al solito ci si precipita nella psicanalisi di esseri umani con cui convidiamo, se va bene, appena 180 minuti a settimana, vissuti attraverso un filtro e senza avere contezza del quotidiano. Nel caso di Rugani questa interazione è ulteriormente diluita.

Non è stato raro assistere, negli anni, ad esplosioni di difensori avvenute in contesti squadra improbabili o in età non proprio verdi. Oggi Godin è unanimente considerato uno tra i migliori del panorama, ma ha ricevuto tali attenzioni solo a ridosso dei trent’anni. Il filo conduttore di ogni consacrazione è in ogni caso la continuità di impiego, abbinata ad un ambiente prosperoso di successi: Benatia ha avuto grande fiducia la scorsa stagione e l’ha ripagata a suon di prestazioni (e gol) pesanti, mentre il momento di Rugani non è ancora arrivato, ma ha saputo farsi trovare pronto in partite anche abbastanza importanti (contro il Napoli di Sarri o in inferiorità numerica a Siviglia).

Sono entrambi difensori moderni, multi dimensionali, che farebbero comodo a qualsiasi squadra. Lo sa bene la Juventus, che ha preferito cedere un appena arrivato Caldara piuttosto che privarsi di uno dei due. Se ne rendono meno conto i tifosi, a onor del vero abituati in questi anni fin troppo bene con le prestazioni della BBC, ma che forse rischiano di esprimere giudizi tecnici ingenerosi sul valore assoluto dei due.

Dario Pergolizzi.

Il dominio invisibile di Rodrigo Bentancur

bentancur

Don Rodrigo è il ritratto di un uomo, anzi “mezzo uomo”, che si fa forte contro i più deboli ed indietreggia di fronte alle richieste dei più potenti. Meschino, subdolo e colpito dalla Provvidenza manzoniana: l’esatto contrario di un altro Rodrigo, colui che “a piccoli passi” ha preso le chiavi del centrocampo bianconero ed è l’uomo invisibile (di qualità) che mancava alla squadra del conte Max Allegri.

Bentancur si è innamorato della Vecchia Signora (e non di Lucia), mettendosi in mezzo tra Pjanic e Matuidi e non uscendo più dalla metà campo juventina. Una crescita esponenziale, dal Camp Nou di Barcellona fino all’Old Trafford di Manchester: le luci della Champions hanno esaltato il giovane talento di Nueva Helvecia. Un’altalena Rodrigo, di difficile comprensione, che ora sta volando sempre più in alto anche nel palcoscenico italiano della Serie A. Ora si prende applausi in tutti i contesti, con costanza e personalità, e diventa il fiore sbocciato tra le mani di Paratici.

Una vita da Boca: questo il biglietto da visita di Rodrigo prima di approdare a Torino. Non manca la sfrontatezza, ma a corrente alternata, e al primo anno in bianconero trova più panchine che presenze. È cresciuto, coccolato e responsabilizzato da Allegri, sfruttando le occasioni (inortuni di Khedira e Emre Can) nel migliore dei modi. Ora è lui a prendersi la scena, così come accaduto poche ore fa contro il Cagliari: palma di migliore in campo, restando senza i suoi scudieri Pjanic e Matuidi, e costante miglioramento in ogni zona del campo.

“Questo matrimonio s’ha da fare”, avrà pensato la dirigenza juventina più di due anni fa. Ora che il viaggio di nozze è ormai passato da tempo, l’uruguaiano ha convinto tutti – anche i più scettici – e non vede l’ora di prendersi il futuro della maglia bianconera. Padrone assoluto del centrocampo, questa volta sì con l’arroganza del Don Rodrigo manzoniano, rendiamo omaggio al “timido grande uomo” dal cuore gialloblù. Lui sarà lì, all’equatore dell’Allianz Stadium, a prendersi in silenzio i vostri applausi: abbiamo tra le mani un fragile regalo di Natale anticipato.

Sabino Palermo.