Tutte con lo stesso rito, le stesse attese, le stesse emozioni. Quasi sempre con la stessa conclusione, la delusione, l’impegno a non tornarci più, perché “ora per un po’ basta con il calcio”. Per mezz’ora circa. Passata quella già si guardano i voli per l’anno dopo, ma intanto per mezz’ora ho pensato davvero a una pausa.
Perdonatemi, so che non è il giorno giusto per scriverlo, ma adoro quel rito: i mesi tra ottavi e semifinale, in cui non si nomina la città prescelta ma zitti zitti, ognuno davanti al proprio pc, talvolta si dà un’occhiata distratta a voli e hotel.
Così, tanto per, da soli, senza possibili sbirciate di amici e colleghi: nel segreto della cabina elettorale “Dio ti vede, ma Stalin no”, in fondo. E passi pure per Dio, ma Stalin e i miei amici non devono assolutamente vedere che sto cercando hotel a Cardiff.
Stavolta, un problema in più, le proposte da qualche mese prima: “che fai per il ponte del 2 giugno?” Alla moglie lo posso dire, tanto mi capisce, ma con gli amici devo essere vago: probabilmente sarò libero, quel weekend, ma per ora non prenoto niente, manca ancora tanto, dai. “Ma come? Organizzi sempre le cose mesi prima e ora che siamo a maggio ancora non decidi?”. Lo so, ma ora non mi va di pensarci, vediamo più avanti, anche perché poco prima nascerà mia nipote. Non c’entra molto (perché non dovresti partire per due giorni, se un mese prima nasce tua nipote?), ma mi accorgo che funziona.
Cardiff, la parola proibita.
Le occhiatacce agli juventini che ne parlano.
Prima c’è il Porto.
Poi il Barcellona, e quando lo batti, dopo che ha fatto un 6-1 a Cavani, Di Maria, Thiago Silva e compagnia?
Ora il Monaco, c’è andata bene. No, macché bene, questi non hanno niente perdere e M’Bappé pare Henry.
2-0 là. Ci siamo, cavolo. Ci si guarda, tesi, senza pronunciare il nome della città. L’amico rompe un implicito patto millenario e chiede timidamente “ma vogliamo vedere ora i voli per Londra prima che diventino troppo cari, nell’assurdo caso in cui…?”. Occhiataccia. Poi soluzione trovata, concessa una deroga alla prudenza: si prenota il giorno della partita, prima che si giochi, con 24 ore di tempo concessi dalla compagnia aerea per confermare il volo, altrimenti decade senza ulteriori spese.
Poi comincia il periodo più bello: la caccia ai biglietti, l’organizzazione della trasferta (a meno che non decidano di giocarla – e vincerla – a 3 km da casa tua, che non è mai una cattiva idea), le settimane in cui si canta felici quel coro così allegro e spensierato, invidiato da tutti: “Amsterdaaam, Amsterdaaam, ce ne andiamo ce ne andiamo ce ne andiamo ad Amsterdam” e i più recenti “ceeee ne andiamo a Berliiino, ceeee ne andiamo a Berliiino”, e così con Cardiff, che suona peggio ma chi se ne frega.
Stavolta, c’è pure la sera prima. Nella vigilia, a Londra, a cena si cerca di parlare di tutto meno che della sera dopo. Ci sforziamo di trovare altri temi, a volte ci riesce bene, altre siamo più goffi: a un tratto, sfogliando nervosamente twitter, ci aiuta involontariamente Di Marzio, che annuncia il possibile colpo Sczesny. In altre serate ne parleremmo per un paio di minuti, ma stasera no, stasera Sczesny è la nostra salvezza. Parliamo solo di lui, cerchiamo i dati su Wikipedia, la carriera, la storia. E’ forte? Farà il titolare? Farà solo il campionato? Ma arriverà davvero?
E come cambierà con lui il modulo? E a questo punto Dybala resterà? Frasi nonsense, che fanno ridere solo noi, ma stasera ci interessa questo.
Riesco a immaginare poche cose più belle e adrenaliniche della vigilia di una finale di Champions.
Stavolta se perdiamo farà male, molto più che a Berlino, dico rompendo il clima disteso. Non pensiamoci, mi rispondono gli altri. Farà male, insisto, perché stavolta ci crediamo. Si è creato un clima strano, per il quale vincere pare scontato. E’ anche “colpa” degli juventini assuefatti agli scudetti, ai media e ai tifosi avversari che sostengono che quest’anno “devi” vincere tutto, visto che hai speso così tanto. E poco importa che la Juve abbia preso Dani Alves (a zero), Higuain e Pjanic, cedendo Morata e Pogba, tutto più o meno alle stesse cifre. No, “devi vincere tutto”.
“Adesso è chiaro, tira aria di triplete”, scrive la Gazzetta ad aprile dopo Barcellona, quando dobbiamo ancora vincere scudetto, coppa Italia e in Champions, oltre alla sorpresa Monaco, sono rimaste squadrette come Atletico e Real, che hanno disputato due finali negli ultimi 3 anni. Che fai, non li batti facilmente i campioni o vicecampioni d’Europa? “Adesso è chiaro, tira aria di triplete!”.
E poi arriva quel giorno.
Gli appuntamenti più disparati con varie compagnie in diversi punti della città prescelta, il pranzo in pub o birreria, le birre pomeridiane, l’eterna disputa tra il fratello che vuole entrare allo stadio e l’amico che vuole prolungare l’attesa, in cui faccio da mediatore: l’amico può godersi un’ultima birra, ma dopo si va, anche se mancano due ore.
Lo stadio splendido, al coperto, l’attesa che non finisce mai, i Black Eyed Peas a venti minuti dall’inizio (bello, ma quanto durano?), l’ingresso, le squadre, l’inno, partiti!, il tiro di Pjanic, il gol di Ronaldo.
Ci risiamo. Ci guardiamo sconsolati. E’ un sentimento che conosciamo, quello in cui l’attesa e le speranze lasciano il passo alla delusione. Il pareggio di Mandzukic, in quel modo, lo prendiamo come un dono, forse come un segnale, ma il Real ricomincia ad attaccare, rientra dagli spogliatoi più carico, mentre noi rimaniamo lì dentro.
Rimane l’uscita a testa bassa, la cena (prenotata all’indiano, come dopo Berlino: ok, la prossima volta cambiamo) in cui ci chiediamo cosa sia successo nell’intervallo, perché non siamo tornati in campo, qualcuno esalta il Real e Zidane, altri se la prendono con la rosa davanti con pochi cambi per questa seconda parte di stagione o con Allegri che avrebbe dovuto fare le sostituzioni quando soffrivamo nei primi dieci minuti del secondo tempo, senza aspettare i gol della sconfitta. Come sempre, c’è chi parla di maledizione delle finali, ed è il commento più noioso, quello che mi interessa di meno, anche se poi, proprio mentre in tanti stanno per prendere il treno per Londra, arrivano notizie orrende da lì, notizie orrende da Torino, e allora forse sì, stavolta il commento assume un altro significato.
In tanti rimane solo l’amarezza per la finale, perché davvero cominciano a diventare troppe. Qualcuno trova il coraggio pure per prendersela con società, allenatore e giocatori, e dopo sei scudetti, 3 coppe Italia e due finali di Champions in tre anni perse contro Messi e Ronaldo davvero ne invidio il coraggio.
In me resta la delusione, perché in effetti era vero, “stavolta farà più male”, ma anche la consapevolezza della stagione fantastica, perché darei oro per poter vincere ogni anno lo scudetto, arrivando nelle ultime fasi della Champions a giocarmela fino in fondo. Per ricordarmi ogni anno che le nostre rivali si chiamano Real, Bayern e Barcellona, molto più di quelle lagne di casa nostra.
Londra, la sera dopo, in aeroporto.
Vedo gli occhi degli altri juventini e mi accorgo che sì, razionalmente sanno che è stata una grande annata, ma oggi proprio non riescono a ricordarselo. Oggi provano solo tristezza, e vedendomi comunque soddisfatto della stagione, comunque fiero di essere arrivato ancora una volta in finale, mi chiedono come faccia, ora, almeno per ora, a non vedere tutto nero.
Me lo chiedono perché ora non pensano a quanto vinto da poche settimane, lo hanno momentaneamente rimosso, ma soprattutto me lo chiedono non sanno che io, tra i vari “firmeresti” proposti alla vigilia, ne ho firmato solo uno, il più crudele: “firmeresti di perdere a Cardiff, ma di essere in finale anche l’anno prossimo?”.
E io, cari miei, ho firmato, perché, con tutta la delusione del mondo, non cambierei mai questi percorsi esaltanti, queste giornate fantastiche, questo livello di eccellenza assoluto ormai raggiunto con qualche più indolore sconfitta agli ottavi o ai preliminari di Champions.
Ho firmato, felice di averlo fatto. Ma guardo le facce intorno, e non ho il coraggio di confessarlo.
Il Maestro Massimo Zampini.
A testa bassa. Per rialzarla più in alto
La delusione sportiva più grande di sempre.
I ko con Amburgo (dopo l’Ajax), quelli in serie con Borussia e Real e i rigori col Milan erano altrettanto atroci, ma lì, sul tetto del mondo, sapevamo di poterci arrivare spesso e volentieri. L’ultimo KO, col Barcellona, alimentava la presunta maledizione, ma eravamo outsider, battuti ma consapevoli di essere inferiori.
Col Real è la più deludente di sempre. Perché alla fine di un cerchio quasi perfetto di 6 scudetti, 3 double, un percorso Champions straordinario e la sensazione (sbagliata?) di essere alla pari, anche più “squadra”.
Non so voi, ma essere Juventini però vuol dire smaltire subito la delusione più forte della storia. Smaltire, ripartire, testa bassa, bassissima e gradino dopo gradino risalire, senza voli pindarici o retorica facile.
Per farlo si ragiona: si razionalizza la sconfitta, senza ricorrere a maledizioni, paure, blocchi mentali, crolli fisici; si razionalizza il nostro livello e infine, si razionalizza il percorso già tracciato e da proseguire.
In questo Agnelli, a caldissimo, è stato di una lucidità, spessore e orgoglio irreali (altro che cazzimma e Cavour…) che hanno avuto il merito di farci vedere nella giusta prospettiva l’ennesima sconfitta e ridarci (seppure nel pieno della delusione) consapevolezza e fiducia nella squadra e nella società che la guida.
Razionalizziamo la (singola) sconfitta.
Non c’è maledizione Champions. Ogni finale è gara a parte, con squadra, rivale e contesto europeo differenti. La Juve è sempre stata uno squadrone top. Arrivare 9 volte in finale (e, col Bayern, in tutti i decenni) è un merito, vuol dire essere lì, tra le prime 2 al mondo. Perdere in finale da favoriti vuol dire non essere determinati, non al top per aver bruciato troppo prima, non audaci e continui. Perdere da sfavoriti vuol dire non avere forza di ribaltare il pronostico. Perdere col Real vuol dire non essere stati all’altezza o solo a metà.
Non c’è nessun crollo mentale, blocco o schianto fisico. A caldo la sensazione è stata quella di una Juve “non tornata in campo nella ripresa” per un misterioso e improvviso decadimento psico-fisico. La realtà è diversa. Le ragioni per 20′ di schiacciante superiorità madridista sono, in ordine di importanza e logica: tattica, tecnica, fisica. Poi ci sono gli episodi -frutto e non origine di quelle ragioni-, e poi, solo alla fine, il conseguente calo mentale.
Una Juve tatticamente ben messa ha giocato un primo tempo imperfetto ma tosto, che meritava di chiudere avanti e, non a caso, non c’è stato “crollo psicologico” al gol di Ronaldo, anzi, la Juve ha subito un’altra transizione ma poi si è rimessa a giocare, con Pjanic centrale, Sandro notevole, Mandzukic dominante e Dybala sfuggito 3-4 volte alla morsa di 2 rivali. Ha ripreso meritatamente la gara e giocato meglio del Real. La situazione pareva promettente, tre ammoniti chiave (Kroos, Carvajal e Ramos) e il vento della rimonta.
Poi il Real ha cambiato modo di stare sul campo e pigiato sull’acceleratore, come previsto. Zidane e Allegri preparano le gare non per giocarle a mille sempre (da grandi allenatori) ma per andare a folate e cogliere il “Momento”. La Juve parte a tutta nei primi 15′ dei tempi, il Real riparte a mille nella ripresa (ricordate Napoli e Bayern?…). Semplicemente, i 4 del rombo Real si sono aperti, Isco è risultato imprendibile, Modric appoggiato più a Carvajal, Kroos a non sbagliare più nulla e Casemiro a pressare più avanti. Il Real eludeva il pressing e raddoppiava con più foga e tempismo. Il risultato è stato una supremazia tattica fatale per 15-20 minuti. Fino al 49° nulla, poi 2 minuti di infortunio di Bonucci e, dal 51° al 64° la finale si è decisa: 13 minuti di assedio e 2 gol. Pjanic non ripartiva più, Dybala stroncato o costretto ad errori, Mandzukic idem, Higuain isolato e in lotta vana con un Varane impeccabile. Al contrario Kroos e Modric dominanti e Isco imprendibile. Ragione tattica, poi tecnica e fisica. Infine, ma solo alla fine, ecco l’episodio, il Momento del match, il tiro da 40 metri di Casemiro che rimpalla sul tacco di un Khedira fuori gara ed entra nell’angolino di un Buffon in ritardo. E poi, infine, ma solo alla fine, il Real che recupera alto e crea l’errore di Mandzukic, Carvajal affonda ancora e i movimenti del Pallone d’Oro che tocca e segna ancora.
Fine della gara. Con l’epilogo sciagurato del doppio giallo a Cuadrado.
Non c’è nessun “blocco emotivo“, non è vero che “non siamo tornati in campo“. La Juve in stagione è andata a folate quando serviva e ha controllato e sofferto in altri momenti. Lo ha fatto col Lione, col Siviglia, perfino col Porto (in 11 vs 11), col Napoli, la Roma e anche col Barca, quella che molti hanno definito “gara perfetta”: partenza a tutta, vantaggio, e sofferenza/controllo/gestione.
15 minuti la Juve li ha sempre concessi. La differenza è che era stata brava (cinica o fortunata) ad andare in vantaggio e brava (attenta o fortunata) a non subire nei momenti di difficoltà. La Juve trova il gol di Higuain su transizione dopo 15′ di un buon Monaco con Falcao che svirgola e Mbappé murato; al ritorno trova il gol di Mandzukic dopo 10′ ottimi del Monaco col palo di Mbappé; la Juve segna con Dybala in una difesa Barca più larga di quella Real, e trova il contropiede del 2-0 dopo un miracolo di Buffon su Iniesta.
Col Real non è andata così, il piano era partire a tutta, andare in vantaggio, aspettare la sfuriata e chiudere dando tutto alla fine. Invece nel nostro momento migliore il Real verticalizza, ti trancia e Bonucci devia il tiro di CR7 in modo ininfluente o forse no, Navas si distende alla grande su Pjanic e troviamo un gol bellissimo ma per andare solo sull’1-1. Al contrario, nel loro momento migliore non riusciamo a reggere, Khedira butta in porta il tiro di Casemiro e Bonucci-Chiellini-Buffon non sono miracolosi su CR7 come lo erano stati su Suarez, su Messi, su Falcao o su Mbappé.
Semplicemente il Real è più forte, più bravo, più preparato ad aggredire il Momento e farlo suo a sfruttare quei 15-20′ di sforzo massimo e annientare la gara. Una coppia di centrali fisicamente dominanti, due terzini immensi, una coppia di centrocampisti perfetta, un Isco fondamentale negli ultimi mesi e davanti quel demonio che si conferma il più decisivo di Champions, anni luce sopra gli altri.
Dovremmo guardare una partita per quella che è: una gara di calcio; con una squadra più forte e brava nel dispiegare le sue capacità tattiche e tecniche, nella capacità di sfruttare i momenti e le inerzie e di capitalizzare il massimo della voglia psico-fisica. Dovremmo guardare alla forza del Real nel mettere in campo queste componenti. Invece blateriamo di blocchi mentali, maledizioni, DNA Europeo, culo ed episodi. Sembriamo i romanisti che parlano dei 17 secondi posti, o i napolisti che non si spiegano come il Napoli “non sia sceso in campo” nel 2° t. a Torino in Coppa Italia. Anche lì, cambio tattico (da 352 a 4231) e sforzo massimo Juve: 3-1 senza storia. Il Barca in 180′ con noi non ha segnato, eppure ne ha fatti 200 in stagione e 3 al Real tre giorni dopo. Ma non è che contro di noi siano “crollati emotivamente” o abbiano “smesso di giocare“, semplicemente hanno trovato una Juve più pronta “tatticamente”, che ha giocato benissimo “tecnicamente” e li ha sovrastati “fisicamente”, dopo, solo dopo, ci mettiamo il “culo” degli episodi e la spinta “mentale” che il vantaggio ti porta.
Razionalizziamo il nostro livello.
Quindi non c’era nulla da fare? Subire così? Real troppo più forte? Beh, chiaro che così come ci sono ragioni tattiche, tecniche e fisiche (e poi, solo poi, culo e psiche) nel trionfo Real, potevano esserci mosse e contromosse simili per rimanere in gara (vincerla poi è altra roba).
Allegri ha parlato a caldo del suo piano (partiti bene, potevamo andare in vantaggio, andati fuori giri poi), Alves è stato chiaro (non abbiamo difeso come al solito), Buffon oltremodo (ci sta prevalere o subire a 10 minuti alterni, ma loro ne hanno fatti 20 e più). Le contromosse al cambio tattico Real e alla loro fase di supremazia possono starci se vai sotto di uno o se ne esci indenne, ma se prendi 2 gol in 3 minuti (e 15 di supremazia rivale) è impossibile controbattere. Sul piano fisico poi, a posteriori si può dire che Khedira non era al top e l’idea era andare avanti o tenere e poi mettere dentro Marchisio dopo un’ora, piano sballato per l’infortunio a Pjanic.
E’ altrettanto vero che loro sono stati più bravi tatticamente (meglio, a far fruttare la fase di supremazia tattica) e sono più forti tecnicamente, ma anche sul piano fisico ci sono arrivati meglio. Vedere il Real di Gennaio e quello di Giugno sono esperienze diverse. Non è un caso se il Real si allena per vincerne 3 in 4 anni (eliminati solo da noi 2 anni fa), non è un caso se il Real da 7-8 gare in Liga (pure vinta solo alla fine) schiera James, Morata, Asensio, Danilo, tutta gente in panca o tribuna a Cardiff. Non è un caso se loro mettono dentro Bale (dominatore delle passate Champions) e noi Lemina per Dybala.
La Juve non è stata costruita per il 4231 che ha svoltato la stagione, si è ritrovata nell’impossibilità di mettere in campo un 352 efficace senza Marchisio e senza un sostituto di Pogba o di schierare 3 centrocampisti di livello più Pjanic in un 4312. La svolta ha prodotto un logorìo psico-fisico enorme per le 4 punte, con Cuadrado che ha svalvolato prima degli altri, Dybala e Mandzukic sempre in calo fisico netto dal 60° in poi e un Higuain irrinunciabile arrivato cotto.
Si riparte da qui. Dalla necessità di crescere ancora, migliorare su tutti i fronti, tenere i migliori, sfruttare gli exploit economici, riappoggiarsi sulle nostre unicità. Migliorare in tutto, la cosa più delicata ad un livello così alto. Sapevamo che la Juve era stata costruita con pezzi di primissimo piano (Alves, Pjanic, Higuain) ma anche con lacune corrette in corsa da Allegri. In A abbiamo rivinto, cosa non scontata, perché superiori, in Champions solo pensare di poter far fuori il Barcellona pareva quasi impensabile e non bisogna maledirsi per aver perso contro i 2 giocatori (e le 2 squadre) più forti di sempre in queste 2 finali. Li abbiamo sconfitti ed eliminati entrambi, nei due anni, ma non siamo stati così forti da batterli/batterle in sequenza tutte e 2 le volte.
Abbiamo alcune certezze. La società, la dirigenza, la guida tecnica (chi la contesta o si appella allo “straniero che può cambiare il DNA Europeo” è folle). Abbiamo Bonucci (se molla è altrettanto folle o comunque poco grato), Chiellini se regge, Alex Sandro, Alves se regge, Pjanic, Dybala, Higuain se viene servito meglio e se diventa un professionista maniacale (come CR7) sul suo fisico per essere forte anche ora a 30 anni.
Va rifinito e completato ancora tutto quanto: colpi di spessore (come Alves-Pjanic-Higuain), riserve di livello più alto. Senza sparare lì sentenze ridicole come “ci riproveremo a Kiev” o “concentriamoci solo sulla Champions” o al contrario “pensiamo solo alla serie A”. Se ti migliori, ti alleni e sei forte, parti per vincere tutte le gare, in ogni competizione, gara dopo gara e fai il punto in primavera.
Il nostro ambiente, la nostra competenza, mentalità, sono PUNTI DI FORZA, che ti consentono col 10° o 8° fatturato di arrivare 2 volte in finale Champions e poi perderle ma SENZA parlare di fatturato, solo a come riprovarci. Tutto questo è un PUNTO DI FORZA, altro che “non abbiamo mentalità vincente“.
Chi ha avuto la mentalità vincente in questi 3 anni? City? PSG? Arsenal? Bayern? Tutti club con budget doppi rispetto al nostro, eppure per due volte ci siamo arrivati noi in finale, con l’Atletico, a giocarcela contro due squadre fenomenali non solo per budget, ma per eccellenza tecnica, tattica, per storia, per abitudine, per forza politica determinata dalla forza sul campo.
E’ doveroso essere orgogliosi di questa Juve per quanto fatto in questi anni, ed estremamente fiduciosi perché Presidente, gruppo dirigente e trasmissione di mentalità da giocatore a giocatore sono armi e punti di forza, non debolezza, inclusa anche la positiva contaminazione di quella mentalità, con gli Evra, i Tevez, i Khedira, i Mandzukic e, ancora di più, i Dani Alves che arricchiscono e assorbono. Questo è un fatto nuovo per la storia della Juve, abbiamo sempre costruito in casa i campioni che imparavano da noi a vincere (vedi Platini, Zidane, Del Piero, Trezeguet), ora invece facciamo le due cose, li costruiamo in casa e chiediamo a campionissimi il loro contributo.
Essere la Juve è un PUNTO DI FORZA, non di debolezza. Anche in Champions.
Sandro Scarpa.