Circa un anno e mezzo fa, la Roma perse 7-1 contro il Bayern Monaco in Champions League all’Olimpico; lo stesso rovinoso risultato di quattro stagioni prima, a Manchester contro lo United. Tra le differenze calcistiche e contestuali che è possibile individuare, ce n’è una non basilare ma utile per instradare un concetto significativo: contro la formazione di Guardiola giocò Miralem Pjanić; contro quella di Ferguson, no. Non che nel 2010 ci sia stato qualcuno della società e del tifo di casa Roma che abbia accampato alibi e giustificazioni per il dramma sportivo, ma di certo allora nessuno rilasciò una dichiarazione come quella del bosniaco quattro anni più tardi: «Non riuscivamo a fare tre passaggi di fila».
Quando apre bocca davanti a una telecamera, Pjanić parla sempre di calcio. Di null’altro. Ama il calcio, che è una roba diversa dal piacere di giocare a pallone. Diverso da Zidane, che non riusciva a pensare di smettere perché troppo innamorato dei soli pallone e prato; Miralem non è solo ammaliato da questi, ma dall’intero contesto (è ragionevole pensare che un dì farà l’allenatore).
È un giocatore intelligente che adora i giocatori intelligenti. Dice (ed accenna, vedi immagine di copertina) che quando si scende in campo bisogna riflettere e che nota all’istante chi dei colleghi lo fa più o meno.
Personalmente ho parlato con chi lo conosce bene: non è un ragazzo loquace, ma è un riferimento nello spogliatoio per i sei idiomi conosciuti dall’età di 21 anni e soprattutto perché sa cosa/quando/come dire. Limitatamente al campionato italiano, non è lungo l’elenco della lista «Calciatori che rilasciano interviste interessanti»; Pjanić, come De Rossi per restare nella stessa società, è una delle eccezioni alla regola del diplomaticamente banale.
Miralem ha da poco spento le ventisei candeline e non è un fuoriclasse. Scrivere che lo è potenzialmente è tutto e niente; le sue mancanze primarie e ricorrenti sono quelle della discontinuità nell’arco della stagione e del dileguarsi all’interno delle singole partite; i suoi punti di forza è bene mostrarli piuttosto che digitarne.
(Qualcosa che riescono a fare solo due-tre al mondo)
«Uno dei migliori centrocampisti d’Europa», dice Massimiliano Allegri. Descriverlo come molto tecnico è un eufemismo: Pjanić indirizza il pallone dove vuole. Descriverlo come poco mobile è un falso: come analizzato da Sandro Scarpa, è il 14° giocatore più dinamico (metri percorsi al minuto) della Champions League corrente. Partiamo da questo, che è il fattore ignorato dai più.
Nell’anno solare 2014, è risultato il primo per contrasti vinti (86%) del nostro campionato (non c’è l’errore, ha fatto meglio dei «fighters» Vidal e Nainggolan). Nella stagione appena conclusa, è il 26° centrocampista (che abbia disputato almeno il 70% delle 38 gare) per tackle a successo: 1.2 ogni 90 minuti come Borja Valero, non proprio un caso tecnico-tattico. Quanto agli intercetti, che come dice l’allenatore della Juve sono potenzialmente contropiedi a favore e quindi hanno più peso specifico della lotteria del contrasto, occupa la 16° posizione della graduatoria facendo compagnia a tale Paul Pogba (che però è stato in campo circa 700 minuti in più): 1.3 ogni 90′.
Considerando anche la Champions, le gare totali sono 40 e le stats divengono: 2.1 tackle, 2.4 intecetti e 1.03 palle perse a partita. Dunque, eppur si muove. E si danna. Non è un cane pazzo, non «esce» sempre, ma nella Roma è il primo uomo di metà campo ad andare in pressing ed è abile nel leggere e tagliare le linee di passaggio avversarie.
(Primo centrocampista giallorosso ad andare in pressione)
La caratteristica di Pjanić più nota riguarda la sua fase di possesso palla. All’inizio del novembre scorso, la Roma era seconda in classifica un punto dietro Fiorentina e Inter. Il conteggio dei gol realizzati recitava 25 e di questi il 40% erano contributo di Miralem: 5 gol (3 su calcio di punizione, specialità raffinata sugli standard di Pirlo) e 5 assist in undici giornate.
Circa due mesi fa, a quasi dieci giornate dalla fine del campionato, era già in doppia cifra di assist; è l’unico giocatore di Serie A a raggiungere (nel 2014/15)/superare (12 quest’anno) i 10 assist nelle ultime due stagioni.
Nella combo gol+assist dei cinque maggiori campionati, è 4° (10+12) dietro il podio dei creatori Mahrez-Mkhitaryan-Di Maria.
Tornando a disturbare Pogba, è interessante un deep data: negli ultimi tre campionati, solo Pjanić (11) ha segnato più gol del «Polpo» (10) da fuori area.
Con la lente suprema del gioco del calcio, il bosniaco non è discutibile: testa sempre alta, piede destro sublime giocando sia corto che lungo, non perde tempi di gioco…Guardandolo in televisione, l’impressione è originale: benché paia dinoccolato, ha una rara rapidità di esecuzione; è disinvolto nel cervello, un «Penso quindi gioco» che ha solo la parvenza dell’esser flemmatico.
La sua posizione in campo preferita è quella di interno in un 4-3-3; Pjanić ama il possesso palla e va d’accordo con chi ha zero paura di tenerla. A lui piace decidere il quando del cosa: imbucare, attendere oppure circumnavigare; «Mi piace giocarla come sento lì per lì, devo esser libero di scegliere la soluzione».
Nell’ultimo biennio è migliorato molto nel ritmo di gioco, ha aggiunto qualche pelo di aggressività e gioca con una assennatezza non ordinaria.
(Non solo i calci di punizione tra le armi fuori area)
Nel caso sbarcasse a Torino, sarebbe l’uomo di qualità che chiede Allegri: «A me interessa avere gente che sa giocare a pallone, a prescindere dal ruolo. Poi ci penso io a sistermarli in squadra». Il bosniaco sarebbe un eccellente mezzala nel 3-5-2 o 4-3-3 oppure un delizioso trequartista in caso di attacco 1+2. Piccolo grande particolare: è un calciatore integro senza importanti infortuni alle spalle e vanta minutaggi importanti sia in Italia che in Europa.
Le deficienze accennate sono legate alle ricorrenti soluzioni di continuità: «Ho visto tre volte Pjanić allo Juventus Stadium, dopo 10-15 minuti è letteralmente scomparso dal match» (Luca Momblano). Questa peculiarità negativa, unita a quella della non definizione del ruolo (negli anni e addirittura nell’arco della stessa stagione si trova a giocare trequartista, mezzala e interno del centrocampo a due), è spesso il confine tra ottimo e grande giocatore. Il resto lo fa il contesto della società, dell’allenatore e dell’ambiente: questo fattore a Roma influenza come in nessun dove e transita, sia a livello microscopico che a livello macroscopico, dalla celebrazione allo smantellamento in un amen.
Per quanto riguarda il suo futuro, Walter Sabatini confessa che solo «una manovra a coda di gatto maculato» può permettere la permanenza sia di Pjanić che di Nainggolan nella Capitale. Vedremo se il felino sarà lanoso oppure un po’ spelacchiato e se Miralem potrà misurarsi con il terzo club blasonato dopo le esperienze di Lione e Roma.
Giacomo Scutiero
#ASKJVTB: Come sono regolate le clausole risolutorie?
Questo accordo reciproco può anche essere predeterminato, concordando in via preliminare, al momento della conclusione del contratto, lo scioglimento del medesimo (e quindi la liberazione del giocatore dal vincolo sportivo) al verificarsi di determinate condizioni: tipicamente un requisito sportivo (la retrocessione della squadra) o economico (il versamento di una determinata somma “liberatoria”, “rescissoria” o “risolutoria”, a seconda di quale si ritenga la miglior traduzione del termine inglese “buy out”).
I problemi derivanti dall’applicazione di questo tipo di clausole derivano innanzitutto dal diverso trattamento che ricevono nei diversi ordinamenti nazionali: per l’ordinamento spagnolo, ad esempio, tali clausole sono obbligatorie in un contratto di prestazione sportiva ai sensi del Regio Decreto 1006/1985; in quello inglese, all’altro lato dello spettro, sono considerate vietate dall’opinione prevalente della locale giurisprudenza e dottrina, e quindi non vengono inserite praticamente mai.
Il quadro è ulteriormente complicato dall’art. 17 del Regolamento FIFA, che prevede espressamente un “indennizzo” (“compensation”), da determinarsi in giudizio o anche eventualmente predeterminato dalle parti, nel caso in cui un contratto di prestazione sportiva venga risolto unilateralmente e senza giusta causa: una norma che secondo alcuni “consacra” a livello FIFA l’esistenza e validità della clausola risolutoria/rescissoria, mentre secondo l’opinione prevalente (e, quel che più conta, secondo alcune celebri sentenze in materia, come ad esempio il “caso Matuzalem”) ha natura e ambito di applicazione radicalmente differente.
Un’ulteriore complicazione deriva dal trattamento fiscale: anche in assenza di problemi sulla natura e sulla qualificazione della clausola, nel momento in cui dovesse essere non il calciatore ma la sua nuova squadra a pagarla (come avviene, ovviamente, sempre in questi casi), tale pagamento tecnicamente sarebbe qualificabile come “benefit” dal datore al lavoratore, e quindi sottoposto a una elevatissima tassazione in quasi ogni ordinamento nazionale.
Insomma, giuridicamente parlando questo argomento è un vero e proprio campo minato, il che spiega eloquentemente perché le società siano molto restìe ad avvalersene, preferendo praticamente sempre trovare una soluzione bonaria e conciliativa con il club di appartenenza.
In ogni caso, a prescindere dal caso concreto, non è mai la società “acquirente” a fare la prima mossa in un caso del genere: il presupposto essenziale è sempre la volontà del giocatore, che deve far presente alla società di appartenenza di voler cambiare aria; soltanto a questo punto, e dopo aver verificato che effettivamente si tratta di una volontà irremovibile (e non di una “manfrina” messa in giro ad arte per ottenere un rinnovo a importi più elevati), le parti potranno agitare reciprocamente lo spauracchio della clausola, e/o della compensazione ai sensi dell’art. 17, ma sempre e comunque come “grimaldello” per smuovere la controparte, piuttosto che come “interruttore giuridico” da azionare.
Francesco Andrianopoli.