Heysel vs Vesuvio

Ha suscitato molto scalpore ieri un (raccapricciante? Ignorante? Demente?) post pubblicato su facebook da una certa Fabiana Paciello, risultata poi insegnante e giornalista napoletana.

E’ il culmine delirante di un’escalation. Prima il “subdolo complotto del nord” che destabilizza l’ambiente Napoli per gli insulti di Sarri sputtanati da Mancini, poi “le altre squadre che si scansano” per far ritornare velocemente in testa la Juve, poi “i rigori non dati e i gialli ai diffidati Jorginho e Allan con il “palazzo che si sta muovendo, ma non si parla..del palazzo”, infine la trasferta vietata ai tifosi del Napoli, con il campionato rovinato, i diritti negati, il cordone spezzato tra la squadra formidabile e il suo tifo e, diciamolo, in definitiva il torneo falsato, cose che all’andata, col medesimo provvedimento non erano state urlate in modo insensato. Un climax al contrario che ha il picco più abissale nella professoressa/giornalista Fabiana Paciello, un’educatrice quindi e insieme un’informatrice, una divulgatrice, probabilmente i due mestieri più belli e socialmente importanti che ci siano, che inneggia –mettendoci la faccia- ad un’altra Heysel, assieme ad altri lugubri rigurgiti di una mente evidentemente tarata in ampie zone.

Occhio. Questo vittimismo, questo martirologio, quest’orgoglio che fonde squadra-città-patria non viene dal ventre del tifo più becero (che ognuno ha i suoi) ma da giornalisti (di Wired!) come Zambardino, da scrittori-romanzieri come De Giovanni, da ex-magnifici rettori (dell’Università di Napoli) come Trombetti e infine dal Presidente-Cineasta De Laurentiis, con tanto di saltello da stadio.

Io sono napoletano (della provincia), sono juventino, ho studiato a Parigi, lavoro a Roma. Sono francamente per niente orgoglioso di essere napoletano, non provo orgoglio nell’essere juventino, sono per nulla orgoglioso di essere italiano e, spesso, non sono poi tanto orgoglioso di essere umano. E’ la parola “orgoglio” che la maggior parte delle volte mi dà ribrezzo. Usata come chiusura pugnace, come vessillo permaloso e battagliero, come scudo all’apertura e come arma da brandire verso il diverso. L’orgoglio per le bandiere, per i colori, per la maglia, per la famiglia, mi danno un senso di medievale, anacronistico, di guerre sante, da Brancaleone alle crociate all’orrore della Jihad tecnologica.

In Italia non abbiamo orgogli “alti”, nobili. Siamo per lo più un popolo gregge, con picchi lodevoli e voragini raccapriccianti. Non abbiamo l’orgoglio patrio tipico di altri paesi europei (se non ogni 4 anni ai mondiali e nemmeno più ormai) e non è necessariamente un male. Ad esempio siamo più ospitali, anche se in modo rozzo e alterno, non abbiamo la grandeur e autostima francese, il granitico senso di superiorità tedesco o l’atavico isolazionismo alterigio degli inglesi e non viviamo nemmeno le rivendicazioni territoriali “serie” degli spagnoli. Eppure al tempo stesso siamo spesso più chiusi, più gretti, meno democratici, e soprattutto più ottusi e avvolti in una cecità socio-culturale. Siamo la nazione più giovane, brandelli di storia unitaria suggellata da risorgimento e dalla Rai TV, ma prima secoli di divisioni tra regni, granducati e staterelli. Non abbiamo “passioni” alte, ma questo è tipico del nostro tempo agiato, senza guerre, carestie, fame vera e in cui la crisi è non poter agganciare le classi alte nella corsa al lusso e le rivoluzioni politiche si vivono guardando un comico sullo schermo ultra-hd.

L’unico orgoglio vero è nel calcio, l’unica passione vera, estesa, popolare è il pallone. Non ripetiamoci la solita stronzata: il calcio non è un gioco, non è un sport. Se giornalisti e scrittori fomentano e agitano cuori e menti labili, se si inneggia a morti, vendette, colere, lava non è solo un “gioco”. Anche la parte sana del tifo, che gioisce, soffre, trepida, viene divorata ed esulta, anche solo per 90 minuti o un giorno, sa bene che non è solo un gioco, così lo sanno i dirigenti che manovrano centinaia di milioni o le aziende di scommesse che trafficano per miliardi. Non è un gioco, è la passione collettiva più forte,  più virulenta, dietro la quale si agitano sogni e desideri, rivalse, riscatti sociali, personali e, inevitabilmente, confluiscono odio, violenza e tutti i lugubri rigetti dell’animo. Il calcio però è veicolo e canalizzatore di odio, non certo motore. L’odio esiste già, viene solo spostato, calamitato, ghettizzato spesso sublimato, ma di certo non creato dal nulla. L’odio non ha solo una spiegazione classista, così come (paragone audace) l’ISIS recluta anche individui occidentali colti, agiati, socialmente inseriti, così come in altri paesi, in altre epoche l’odio è stato canalizzato in battaglie di libertà, repressione, fede, politica, ideali, nel calcio italiano l’odio si sublima e si sfoga dietro le sorti di 11 potenziali tronisti tatuati che corrono in mutande dietro una sfera. In curva ci va ogni classe sociale, e chi non mena allo stadio, mena fendenti su facebook. Ma quell’odio, anche senza calcio, avrebbe altri sfoghi e altre manifestazioni. Del resto lo sport nasce come necessità di canalizzare agonismo, ferocia e ormoni quando l’uomo ha smesso di cacciare in branco ed è diventato agricoltore e allevatore.

Il punto è che questa sublimazione e concentrazione può anche essere positiva se resta confinata, ma in questo caso c’è una commistione radicata di ingredienti che debordano il calcio stesso.

La mia famiglia tifa Napoli, i miei amori, gli affetti, le mie grandi amicizie tifano, gioiscono e sperano per quei colori, diversi dai miei. Solo per quei 90 minuti e di riflesso, per alcuni, sull’umore del giorno, della settimana. Lo sfottò anche acrimonioso Juve-Napoli è uno dei legami emotivi più forti che ho con mio padre, con gli amici di infanzia, che antipatizzano sportivamente per la Juve perché ostacola la piccola-grande gioia contingentata del calcio. Quelli che poi, fuori dai social, fuori dai giornali, fuori dalle cazzate insomma e nella vita reale, a freddo, seriamente, mi hanno detto: Sarri ha fatto una cazzata; la Juve è forte, forse più forte di noi; Bella società. O tifosi napoletani, tifosi sul serio che conoscono tutte le formazioni azzurre da 20 anni, ridono –come me- quando leggono, anche su juventibus, un “napolista” parlare di “squadra sabauda”. Come se qualcuno di noi scrivesse “club neoborbonico”.

Questa epopea del Napoli come riscatto sociale di un popolo, come fusione identitaria di squadra, città, gente, quasi etnia, come un razzismo al contrario, è francamente risibile. La agitano scrittori che pubblicano grazie ad editori romani o milanesi (senza i quali non farebbero gli scrittori), la fomentano magnifici rettori rintanati in case snob di quartieri alti riempiti di amici, intellettuali ed affaristi del nord, che mai si mescolerebbero con quel “popolo” del quale narrano le gesta.

Mio padre ha lavorato dai 14 anni come molti della sua età, ha fatto la fame, è emigrato al nord (proprio Torino), poi ritornato. Ha visto per decenni il suo Napoli perdere e ha gioito poco, ma non se fotte una beata minchia di riscatto sociale, di Juve sabauda, potere del nord, padroni contro popolino, orgoglio napoletano. Per lui dura 90 minuti, poi anche i suoi giocatori sono tutti “deficienti che guadagnano milioni” e fosse per lui non darebbe mezza lira né a Premium, né a Sky. Aveva l’abbonamento del Napoli con Maradona ma l’ha ceduto quando si è reso conto che ogni domenica in curva era farsi di canne passivamente (beato lui..) e che le cose della vita per cui accanirsi o intossicarsi sono ben altre. Per lui, come per i miei amici tifosissimi del Napoli, la Juve è una squadra seria e forte, stop.

L’assurdo è che a difendere l’orgoglio sudista è invece una pastoia tra working-class, anzi a Napoli è not-working-class, che fa un guazzabuglio di ideali tra Napoli libera, Corona libero, cazzeggio libero, smartphone con giga liberi e rhum e coca liberi il weekend e, sull’altro versante, una casta di intellettuali neapolitan-radical-chic che impasta un pastrocchio di borboni, normanni, briganti, eduardo de filippo, matilde serao, Masaniello Palummella. Poi ci sono i giornalisti che hanno i loro clienti-fanatici, e fomentano a gettone, poi c’è il Presidente ex-tifoso laziale (ma blandamente, solo per distinguersi dai suoi amici romanisti) che stava abbandonando l’Italia per fare film in USA ma, casualmente, si getta anima e cuore nel Napoli e cavalca il ruolo di Padre-Padrone del Riscatto. Infine c’è la creme de la creme, diremo l’acqua di scolo: i Genny la Carogna sul campo e la professoressa-giornalista che ciancia di Heysel, e che magari è dolce coi suoi nipotini, i suoi gattini, magari ha fremiti ecologisti e amori andati male.

La tizia andrebbe punita, additata e rigettata, ma escludo accada, come non credo che i suoi messaggi fomentino tifosi napoletani violenti. Non c’è bisogno di fomentare, adesso. Non c’è bisogno di un articolo di Ormezzano per spingere tifosi del Toro a lanciare pietre assieme ai pargoli, come non c’è bisogno della Paciello per dipingere nella mente di alcuni tifosi Juve l’idea che l’altro, l’avversario, sia spregevole e ancora più meritevole di odio, colera e lava.

Cari tifosi del Napoli, vi conosco bene, al presunto torto arbitrale spacchereste tutto e parlate per giorni interi di furti e ruberie in modo auto consolatorio, ma poi riconoscete nel vostro amico juventino la persona più onesta e sincera, tifo a parte. Cari tifosi Juventini, vi conosco a menadito, sono uno di voi, non abbiamo colori perché li abbracciamo tutti, dal paesino siciliano alla metropoli lombarda, non abbiamo orgogli territoriali perché siamo dispersi e quindi più uniti in quel legame passionale.

Quando sento parlare di colera, Vesuvio, sorrido, per me è indifferente, so che chi urla o scrive ha deficit intellettivi o solo, come la Paciello, zone d’odio da sfogare. Nei miei amici tifosi del Napoli qualcuno a “Vesuvio” si indigna gridando al razzismo, qualcuno se ne frega, comprendendo bene che chi urla avrà senz’altro parenti o origini altrettante “terrone”. Mi è capitato di vedere spesso Napoli-Juve, in tribuna (a scrocco di De Laurentiis…da tipico napoletano..), due anni fa ero accanto al settore ospiti (quella volta non chiuso), c’erano ragazzi di Napoli e provincia che inneggiavano alla Juve e ad un certo punto è partito il coro: O Vesuvio, lavali col fuoco. Capite? “O Vesuvio, lavali col fuoco” urlato con accento napoletano, da chi alzava uno striscione “Juve Gruppo Torre Annunziata” che, come me, sarebbe il primo ad esalare l’ultimo respiro in caso di eruzione. Ma allora? Di che parliamo? Di Nord-Sud, di razzismo, di sabaudi-borboni? E’ un po’ come accusare Malgioglio di omofobia se urla incazzato “frocio!!!”.

Condanniamo senza pietà chi oltrepassa il segno, sputtanandoli come chi ha inviato a Miur e Scuola la segnalazione della Paciello inneggiante a morte e violenza e minimizziamo il resto, glissiamo, sorvoliamo, non cadiamo in trappole idiote. I 14 milioni di Juventini sono un po’ complottasti, molto esigenti da un po’ e abbastanza appassionati e soddisfatti, ma certo non ladri e razzisti e padroni sabaudi, i 5-6 milioni di napoletani sono molto, decisamente tanto complottisti, facili all’esaltazione e abbastanza appassionati e, quest’anno, soddisfatti, ma certo non sono violenti, ignoranti e briganti post-borbonici. E’ passione. Sfoghiamola. E’ passione, freghiamocene del contorno.

Alla prossima vittoria Juve mio padre mi dirà sorridendo: vi siete rubati un’altra partita, e io risponderò ridendo: voi invece sono solo avete rubato ma piangete pure. Niente di sabaudo o di borbonico, solo sfottò.

Sandro Scarpa