Sono un lettore avido e costante. Leggo molti saggi e poca narrativa,
e ho cominciato ad apprezzare la letteratura calcistica diversi anni fa
grazie agli aneddoti e l’audacia di Jonathan Wilson e Sandro Modeo.
Rifuggo, tuttavia, le biografie di calciatori e allenatori, poiché le
trovo estremamente superficiali e – al netto di qualche simpatico
aneddoto di spogliatoio – di scarso interesse. Nella maturità di lettore
e commentatore di calcio, ho infranto consapevolmente questa regola
generale solamente per leggere i libri su Guardiola del grande Martí
Perarnau Grau, e non ne sono pentito: per quanto non rendano giustizia
all’immensità del personaggio, sono letture che hanno aggiunto comunque
qualcosa al mio bagaglio culturale. La settimana scorsa, ho di nuovo
infranto questa regola per leggere “È molto semplice”, il primo libro di
Massimiliano Allegri.
E l’ho fatto perché la narrazione sull’attuale allenatore della
Juventus si è polarizzata su posizioni tossiche che hanno francamente
tediato il fruitore e ridotto ai minimi termini il dibattito sul
livornese. Gusto personale: Allegri non è il mio allenatore preferito né
probabilmente mai lo sarà, ma ho scelto di leggere il suo libro perché
voglio credermi capace di formarmi un’opinione senza scadere nel
manicheismo dell’”Allegri vattene” o del “resta con noi per sempre”. Ho
scelto di leggere questo libro perché mi sono stancato delle chiacchiere
da bar su Allegri e, come in una reazione uguale e contraria, ho voluto
riavvicinarmi al significante perché il significato sta morendo. O
anche perché, come dice una mia collega, ogni tanto bisogna sorprendere
se stessi.
“È molto semplice” è un libro sorprendentemente scarno e sobrio. Lo
stile di scrittura assomiglia più ad una chiacchierata al parco che non
ad una prosa. È accessibile a chiunque sia un minimo consapevole di chi
sia Massimiliano Allegri e che lavoro svolga, non richiede conoscenze
pregresse di tattica, psicologia, o ippica. Probabilmente l’opera non
nasce nemmeno con chissà quali pretese letterarie. Si tratta di un
frullatore che mischia appositamente calcio e vita, mettendo a nudo
l’esperienza di un uomo di campo attraverso il prisma della sua
“filosofia” (mille e una virgolette) di calcio.
Abbiamo visto tutti le 32 regole su cui si basa il libro, e queste
formano lo scheletro su cui poi l’autore passa ad argomentare e a
spiegare ciascuna delle massime. Trovo abbastanza stucchevole la forzata
categorizzazione dello scibile in compartimenti stagni dal numero
finito, e anche questa non è riuscita a non provocarmi insofferenza.
Devo dire però che, superato questo ostacolo epistemologico, i 32
principi non sono così campati per aria come avevo invece pensato
storcendo il naso tra me e me al primo sguardo.
Si tratta di principi abbastanza generali da poter essere largamente
condivisibili. Non voglio mentire, vi sono pagine e capitoli interi di
sconcertante banalità – e qui rientriamo a pieno titolo nella regola
personale del “niente biografie” – ma se si riesce a filtrare il
messaggio poi il succo non è scontato. Per di più, laddove si addentra
nella pedagogia, diventa più che mai difficile non essere d’accordo.
Alcune massime rispecchiano i grandi insegnamenti cruijffiani, come ad
esempio la necessità di creare giocatori pensanti o l’idea che il calcio
semplice sia anche il più efficace. Sorprendentemente (o forse nemmeno
troppo) vi sono molti principi che Allegri professa suoi che potrebbero
esser stati scritti da Guardiola o da Juanma Lillo, piuttosto che dal
toscano: l’inutilità degli schemi, la relativa dismissione dei moduli di
gioco, l’importanza del controllo e del passaggio come basi tecniche
del gioco, la costante tendenza al miglioramento, etc. Altri punti sono
più spiccatamente “allegriani”: la calma, l’equilibrio, la gestione del
sé, etc. Altri ancora lo avvicinano molto a Mourinho, in particolare
quando parla di ritmi ultradiani e di capacità di sfruttare i momenti
della partita.
Non sono mancati naturalmente passaggi del libro che mi hanno trovato
in totale disaccordo (non ho la pretesa di essere un interlocutore
capace di disquisire di calcio alla pari con un allenatore di Serie A,
ma sono qui per offrire la mia opinione e tanto vi devo). Vi rientrano
ad esempio il rifiuto della didattica avanzata del calcio moderno, e
specialmente il suo aspetto quantitativo, o l’avversione verso lo studio
intenso, nonché ulteriori categorizzazioni che mal si conciliano con la
complessità dello sport. Altri punti richiamano invece la diatriba che
esplose in diretta televisiva con Daniele Adani, in cui i due si
beccarono sulle definizioni di “schemi” e “principi”, trovandosi poi
d’accordo senza nemmeno rendersene conto.
Inoltre, durante tutto il libro, Allegri mantiene quell’impostazione
un po’ pedante un po’ paternalistica tipica della sua comunicazione in
cui sembra svelarci solo la punta dell’iceberg, lasciando il lettore con
la convinzione che ci sia tutto un mondo sommerso, più profondo e più
interessante, tenuto volutamente nascosto.
Ho notato, però, uno scarto significativo tra la teoria (il libro) e
la pratica (il campo). Come se la teoria, bella e convincente, non
trovasse un’applicazione altrettanto seducente sul terreno di gioco. E
lo ammette lo stesso Allegri in più capitoli del libro: un conto è la
teoria, un altro metterla in pratica. E questo è particolarmente
interessante alla luce delle ultime annate della Juventus. Ora, questo delta
può significare o che Allegri è un pessimo insegnante – cosa di cui
dubito fortemente – o può anche voler dire che alla fine il calcio non è
una linea retta che collega volontà e campo, ma una realtà mutevole che
può anche riuscire ad annacquare principi generali in nome di un solo
grande precetto: l’efficacia e, dunque, la vittoria. Tenderei umilmente a
propendere per quest’ultima ipotesi.
È evidente, attraverso ogni pagina del libro, la volontà di trattare
il calcio come una scienza umana e non come una scienza naturale. Senza
voler essere semplicistico o peggio sbrigativo, la grande differenza è
nell’approccio: il primo privilegerà senza dubbio le componenti
psicologiche del calciatore (troppo spesso sottaciute nella narrazione
contemporanea proprio perché impossibili da conoscere per il grande
pubblico), mentre il secondo insisterà sugli aspetti razionali del
gioco, tattica e tecnica, perché sono gli unici che vengono a galla agli
occhi di un osservatore esterno. È qui il marchio di fabbrica
allegriano: la gestione del calciatore prima della fabbricazione seriale
di calcio.
In definitiva, il libro non mi è piaciuto, ma è innegabile che mi sia servito ad arricchire la comprensione di Allegri, del suo calcio, e per esteso degli ultimi anni di Juventus. È utile a comprendere meglio il calcio secondo Allegri, e tutte quelle componenti che rendono il suo gioco un “calcio liberale” (il brevetto di questa espressione è del collega di tifo Claudio Pellecchia). Non sono qui a consigliarvelo, voglio solamente offrire un’opinione sullo stesso e su quello che mi ha dato, cioè sul vero takeaway del testo. Non è un libro rivelatore, non è un viaggio mistico tra le poesie di un santone, non farà cambiare opinione al sottoscritto, come penso non la farà cambiare a nessun lettore, ma è difficile uscirne senza quantomeno vedere mitigata e addolcita, umanamente, la propria idea sull’allenatore della Juventus. Perché l’aspetto umano è quello più importante, e forse anche quello meno tenuto in conto nel calcio.
Andrea Lapegna.