Se è vero – e a questo punto non ho più motivo di dubitare che lo sia – quello che viene spesso detto ai corsi di advanced marketing, e cioè che al giorno d’oggi “non compri un prodotto ma compri un’esperienza”, assistere dal vivo a una partita di Cristiano Ronaldo è quanto di più vicino ci sia all’esperienza che oggi si cerca di vendere all’appassionato medio di calcio, indipendentemente dal tipo di approccio che ha verso questo sport e dall’effettiva conoscenza di esso. Quasi un anno fa il mio amico Alfonso, che aveva avuto la fortuna e il privilegio di assistere a quell’apparizione della vergine che sono 90′ di Leo Messi in un insignificante Valencia-Barcellona di Copa del Rey, scrisse su Rivista Undici che ad averlo colpito, più della prestazione in sé, fu «la percezione condivisa del Valencia-squadra e di tutto l’ambiente-Valencia rispetto alla presenza di Messi. È un gioco di contro-osservazione, che consiste nel guardare gli altri mentre gli altri guardano e affrontano Messi: si parte dal campo, dall’analisi tattica, e si finisce per registrare atteggiamenti e reazioni particolari del pubblico, dei giornalisti, dei cameraman». Con Cristiano non è poi tanto diverso e non solo perché dell’argentino è stato, è e sempre sarà il deuteragonista naturale: parliamo dell’altro giocatore più forte del mondo, probabilmente dell’altro più forte di sempre, ed è normale provare a percepire quanto della sua grandezza, riconosciuta e riconoscibile, sia effettivamente tale.
Si tratta di un mix sensazioni e percezioni che cominciano nel momento in cui, già dalle due settimane precedenti Juventus-Sampdoria, ci si comincia a macerare nel dubbio (scongiurato alla vigilia della tonnara di Bergamo risolta, tanto per cambiare, dall’oggetto del dubbio stesso) che sia proprio quella la partita designata per dare riposo a chi proprio non vuole riposare mai e si concretizzano definitivamente quando i propositi di distinguersi dalla massa acquistando allo store una maglia di Bentancur naufragano dietro l’assenza dei numeri e delle lettere necessarie. Ed è allora che appare evidente come non ci si possa sottrarre a tutto ciò che Ronaldo significa dentro e soprattutto fuori dal campo: se la storia ha scelto te non puoi evitare di esserne parte in qualsiasi forma e misura. E allora ben vengano gli euro spesi per la maglia che forse nemmeno volevi ma che vedi ovunque attorno allo Stadium, indosso ad uomini, donne, bambini, ragazzi, di qualsiasi nazionalità, religione, sesso, credenze politiche e che, quindi, proprio non puoi fare a meno di comprare anche solo per poter dire, un giorno, «io c’ero, noi c’eravamo».
Viene tutto spontaneo, naturale, come se non potesse essere altrimenti, in un continuo “we are all witnesses” che risulterebbe anche fastidioso se non riguardasse noi direttamente: perché Ronaldo, purtroppo o per fortuna, è molto più nazional-popolare di quanto si creda e, forse, si vorrebbe. Che, poi, è anche il motivo per cui un carissimo amico, uno di quelli “che sa”, mi tranquillizzò a suo tempo in chiave panchina si/panchina no nell’ultima del 2018: lui le gare in casa le gioca/giocherà tutte (o quasi) per quella sorta di harlemglobetrotterismo al contrario che vuole il frontman della band in tour sempre sul palco anche quando la band in tour non è. Anzi, soprattutto quando non lo è.
Lo guardo, Cristiano, nel riscaldamento, alla ricerca di un segnale che mi faccia intuire il mood della giornata: dovessi dar retta al piattone di controbalzo spedito in curva o alle almeno tre conclusioni dalla distanza bloccate placidamente dal redivivo Perin – che mi costerà molto in termini di tranquillità perduta e poi recuperata ma questo non posso ancora saperlo – ci sarebbe tutto il necessario per pensare, o meglio temere, il classico “tanto rumore per nulla”. Il rumore, effettivamente, arriva. E, per fortuna, è quello del “SIUUUUUUU!!!”, suo e dello stadio intero, che accompagna il gol numero 13 in campionato. Due minuti e trenta secondi: tanto ci è voluto per assistere dal vivo a una rete di CR7, un qualcosa di vecchio e nuovo allo stesso tempo, ma che davvero si fatica a realizzare finché non si materializza lì, davanti agli occhi di 40mila novelli San Tommaso che ogni volta vedono eppure sembrano continuare a non credere. Che quello lì sia vero, sia fatto di carne e sangue e ossa come un uomo normale (pur non essendolo, ma proprio per nulla), che giochi e segni per la squadra cui, nemmeno un anno fa, aveva strappato il cuore con una rovesciata da tregenda.
Comincio a capire sul serio cosa significhi poter contare su un giocatore così. Non è tanto quello che fa – relativamente poco per il resto dei primi 45′ in cui a prendersi il proscenio è un Dybala autore di due conclusioni troppo belle per finire in fondo alla rete e quindi lasciate lì, in sospeso, nell’eterea e affascinante incompiutezza di quello che poteva essere e non è stato – ma quello che ti costringe a pensare (e che tu sia tifoso, spettatore neutrale, compagno di squadra o avversario cambia poco o nulla) che lui possa fare: sempre, dovunque, comunque, in qualunque circostanza, in una rappresentazione continua e rassicurante dell’idea che, alla fine, Eupalla si concederà ancora alle lusinghe del suo figlio prediletto, in un modo o nell’altro. E se il modo non è la saetta che Audero (occhio che questo diventa forte, ma forte sul serio anche in chiave Juve) devia sulla traversa o il colpo di testa a botta sicura intercettato da un doriano che sembrava passato di lì per caso o, ancora, il consueto campionario nevrile di finte e controfinte che pure suscita qualche mugugno sugli spalti – questione d’abitudine, immagino: in fondo anche questo fa parte della sua più intima essenza. E senza non sarebbe lo stesso -, allora può essere anche un rigore un po’ così, in una partita un po’ così, l’ennesima che, per dirla all’americana, lui “non ti lascia perdere”. O, trasportando il concetto al di qua dell’Atlantico, non ti lascia non vincere, visto che il pareggio qui sarebbe contemplato, eccome:
Ci sarebbe tempo e spazio per la conclusione ideale, ovvero la prima tripletta in bianconero – dopo tre doppiette e 15 gol (e 6 assist) in 20 presenze complessive – ma il terzo gol viene segnato dal VAR che invalida la “ronaldata” di Saponara e lascia comunque tutti contenti, me incluso. Perché ho visto Cristiano Ronaldo, l’ho visto da vicino e ho compreso chi è, come lo è e perché lo è. E, come direbbe il mio telecronista preferito, «siete, sono, siamo tutti testimoni».
Claudio Pellecchia.