Negli scorsi giorni sono state rese note alcune stime su come la riforma Lotti, riguardante i criteri di distribuzione tra i club di A dei proventi di diritti TV, cambierà il panorama economico del calcio italiano. La nuova riforma, a breve al vaglio del Senato, dovrebbe ridurre da 4:1 a 2:1 il rapporto tra i proventi appannaggio della società più remunerata e quelli destinati al club meno pagato. Se confermato l’attuale contributo complessivo di circa 900 milioni, la nuova ripartizione consentirebbe a squadre come Spal e Benevento di guadagnare circa 8-9 milioni in più, mentre alla Juventus spetterebbero circa 40 milioni in meno.
Diverse possono essere le motivazioni alla base della riforma. I più “rivoluzionari” giudicano il cambiamento necessario per un livellamento delle forze, utile all’equilibrio del campionato. I più disincantati ritengono che le modifiche siano necessarie, in previsione di un gettito inferiore proveniente dalle TV, per evitare il collasso: in sintesi i ricchi pagano per evitare che scompaiano i poveri rendendo il sistema, così com’è, insostenibile. I commenti, in generale, sono improntati alla soddisfazione per una suddivisione più equa a modello della Premier League inglese.
E’ evidente che ogni giudizio su questa vicenda risente delle simpatie calcistiche e dagli interessi di bottega. Sarà difficile trovare un dirigente o un tifoso del Sassuolo contrario a queste modifiche, viceversa solo qualche celebre “da juventino“, tra i tifosi bianconeri, potrà sbilanciarsi positivamente. Ma quanto reale è questa proposta di un calcio più giusto, più democratico, più bilanciato, che scaturirebbe dall’approvazione di questa riforma? Lanciamo alcune riflessioni e spunti di domanda.
– Si parla tanto di ridistribuzione della ricchezza e di modello inglese. Ci si dimentica un dato: il prodotto Premier League è pagato, dalle TV, circa il doppio dell’omologo italiano. La differenza tra i campionati, in termini di appeal, è in continuo aumento, come testimoniato dalle quantità di top player che, ogni estate, approda rispettivamente nei due tornei (tanti in Uk, pochissimi in Italia). Prima di ridistribuire la ricchezza, appellandosi a modelli che vivono in contesti molto differenti, la ricchezza non andrebbe creata? Si parla da anni di come aumentare il fascino estetico della serie A: ma piuttosto che costruire stadi o facilitare il lancio di nuovi talenti (magari aprendo finalmente alle seconde squadre), l’unico atto concreto, per rendere più attraente il campionato, è stato quello di affibbiargli un inno di dubbia orecchiabilità.
– E’ possibile che si riduca la forbice tra le possibilità di spesa dei top clubs e quella delle piccole, ok. Ma questo probabilmente si tradurrebbe, sul campo, in un Sassuolo con un Matri in più (citiamo non a caso un club e un calciatore che, per gestione l’uno e per storia l’altro, non ci fanno alcuna antipatia), e una Juventus e un Inter con un Dybala e un Icardi in meno. Il livellamento delle forze a livello nazionale sarebbe dunque più teorico che pratico, mentre a livello internazionale la già difficile competitività dei club italiani risulterebbe ancora più ardua. Val la pena, per rendere la A più combattuta – ammesso che ci si riesca – indurre una ulteriore provincializzazione del calcio italiano? Siamo già a sette anni senza un club italiano vincente in Europa. Senza consultare almanacchi, il dato crediamo non abbia precedenti. Una riforma come questa potrebbe aiutare a rafforzare il record negativo. Aggiungiamo che i club “piccoli e medi” (quelli che oggi sorridono, guardando i numeri potenziali di questa riforma), quando metteranno sul mercato i loro “gioielli” – i vari Conti, Gagliardini, Bernardeschi, Verdi… – attrarranno offerte competitive dall’estero molto più facilmente che dall’Italia. Indebolendo ulteriormente, così, la competitività del campionato e complicando il lavoro della Nazionale che, a parole, sta cuore a tutti. Come la metteremmo, infine, con il famoso “paracadute” che attualmente attenua la botta per chi retrocede in B? Esso dovrebbe essere ancora più consistente, visto che questi club subirebbero ripercussioni sul bilancio ancora più pesanti.
– Ammettiamo l’ipotesi che il cambiamento sia reso necessario dall’insostenibilità dell’attuale industria calcistica italiana. In altre parole si prevede che le offerte per i diritti TV del calcio italiano siano destinate a scendere e che, con l’attuale sistema distributivo, le piccole non potrebbero reggere. Fronteggiare quest’emergenza togliendo denaro alle “grandi” per darlo alle “piccole”, in uno scenario robinhoodiano, sarebbe una toppa peggiore del buco. Innanzitutto perché il problema sarebbe destinato a riproporsi, anno dopo anno, visto che gli effetti di questa ridistribuzione porterebbe, come abbiamo visto, a un’ulteriore perdita di appeal del torneo (oltretutto non è prevista l’applicazione di alcun criterio virtuoso, legato a investimenti sul vivaio o sulla costruzione di nuovi stadi). E sopratutto perché sposterebbe sempre in là la questione più urgente: quella della riduzione del campionato a 18, se non a 16, squadre. Questa è la vera svolta che ridurrebbe i problemi di distribuzione e di competitività, perché in barba ai benpensanti e ai falsi difensori dei “poveri”, il vero livellamento andrebbe cercato verso l’alto, e non mantenendo nella massima serie club che non ne hanno la struttura adeguata facendone pagare il prezzo a chi vorrebbe, e magari potrebbe, spiccare il volo fuori dai confini, a vantaggio di tutto il movimento calcistico nazionale.
Giuseppe Gariffo