Il complicato rapporto tra la Juventus e i suoi ultras

Mentre la Juventus continua a dominare il campionato, è nata una guerra interna contro i propri tifosi che rischia di lasciare strascichi e di far riaffiorare vecchi scheletri nell’armadio.


Siamo vincenti, è vero. Ma i veri perdenti non sono le altre società calcistiche, ma gli stessi tifosi juventini.

Inizia così un duro comunicato a firma degli “ospiti della Sud”, emesso poco prima dell’inizio del campionato. L’oggetto dell’attacco del tifo organizzato juventino è chiarissimo: il vertiginoso aumento dei prezzi fissati dalla società per gli abbonamenti in curva della stagione 2018-19. Il comunicato stesso snocciola qualche numero significativo. Nel 2010 un abbonamento in Curva Sud costava 265 euro. Nel 2018 la cifra è arrivata a 595 euro per un rinnovo e a 650 euro per un abbonamento nuovo di zecca. Il prezzo viaggia sui 32 euro circa a partita ed è effettivamente molto alto se pensiamo che, per dare l’idea di un confronto, l’abbonamento in curva all’Allianz Arena del Bayern Monaco costa circa 8 euro a partita. Il comunicato evidenzia come la curva, il settore popolare dello stadio, sta morendo a favore di un utilizzo da parte di soggetti più abbienti in grado di permettersi un tale tariffario ma poco efficienti se c’è da far partire un coro o da organizzare una coreografia prepartita. Il comunicato parla esplicitamente di “teatro”. E dunque arriva poi alla conseguenza finale: prezzi da teatro=tifo da teatro.

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È ormai da inizio anno che la Juventus gioca in casa con atmosfere surreali. Un profondo silenzio rotto solo dai cori provenienti dallo spicchio riservato ai tifosi ospiti. Lo stadio sussulta pigramente solo per gol, occasioni sfumate, errori vistosi, giocate di rilievo. Per il resto, un silenzio nervoso regna. La curva tace, ad eccezione del coro al minuto 39 di ogni partita in ricordo alle vittime dell’Heysel. La Juventus domina il campionato, ma non riesce a vincere in casa sua. Gli ultras presenti in curva hanno dato vita a varie forme di proteste del silenzio negli ultimi mesi. La più significativa e singolare si è palesata contro il Sassuolo, nella partita che ha visto il battesimo del gol in bianconero di Cristiano Ronaldo. Un intero spicchio di Curva Sud era televisivamente completamente bianco. Lo zoom ha poi chiarito: gli ultras bianconeri erano andati allo stadio in camicia, come stessero andando alla cresima del nipote. Contro il Napoli invece erano vestiti tutti di nero: a un certo punto hanno fatto girare una bara per la curva e hanno poi intonato cori esclusivamente a sfondo razzista verso Koulibaly con il più o meno preciso scopo di far arrivare una multa alla società (scopo poi raggiunto). Lo striscione piazzato fuori lo stadio chiarificava ancora il concetto. La Curva Sud è morta.

La protesta degli ultras bianconeri odierna è peró solo la punta di un iceberg profondissimo, che nasconde un rapporto tra società e tifo organizzato storicamente ambiguo e ai confini della legalità, confini spesso dichiaratamente scavalcati. Il proverbiale sradicamento territoriale del tifoso bianconero ha contribuito a creare nel corso dei decenni una pluralità di gruppi organizzati slegati tra loro e dipanati lungo tutta la Penisola che hanno più spesso dato vita a lotte fratricide che ad accordi amichevoli. Il dominio della Curva juventina è uno dei temi più spinosi in materia ultras e sono stati molti nel corso dei decenni i gruppi che hanno provato ad imporre (non esattamente con l’uso della dialettica) una politica comune, con un più o meno silenzioso controllo esterno della società. Le ormai risapute infiltrazioni mafiose in Curva Sud emerse giudizialmente nel 2015 sono state probabilmente il deterrente che ha reso definitivamente ingestibile la faccenda e che ha determinato quello che pare il tuono della società con una drastica modificazione delle politiche di vendita del biglietto, delle modalità di vendita di merchandising non ufficiale fuori lo stadio e dunque nei rapporti complessivi tra cda e curva. Ma è necessario andare con ordine e partire dal principio, dal big bang.

La Juventus è entrata nell’orbita della famiglia Agnelli nel 1923. Prima di allora la Juve rappresentava la borghesia medio industriale torinese, mentre il Torino era la squadra del proletariato, dei contadini delle langhe piemontesi. I maligni sostengono che l’acquisto della Juventus da parte di Edoardo Agnelli possa essere considerato da un certo punto di vista come il più classico dei regali al popolino. Negli anni 20 decine di migliaia di ragazzi siciliani, calabresi, pugliesi e via dicendo lasciavano la campagna madre per trovare fortuna nel ruggente Nord. La Fiat era per molti di essi l’approdo più naturale. Sradicati dalle proprie abitudini, emarginati dalla società, spesso rinchiusi come topi, per tanti giovani uomini il passaggio da Sud e Nord è un duro trauma. Agnelli acquistando la Juventus e pubblicizzandola nelle proprie fabbriche aveva trovato un buon espediente per dare un po’ di vigore domenicale a tutta quella forza lavoro sudista prossima alla depressione. Nasce così già negli anni 20 una componente essenziale del tifo juventino. L’anticampanilismo: ben prima dell’ avvento multiculturalismo e della globalizzazione, la Juventus aveva già abbattuto in Italia il dogma secondo cui bisogna tifare per la squadra della città in cui si è nati. Questa caratteristica rimarrà nei decenni ed ancora oggi è simboleggiata dal fatto che in 13 regioni su 20, la Vecchia Signora è la squadra più tifata, con una fortissima componente di tifo proprio al Sud. Molti politologi della metà del secolo scorso, quando il calcio grazie all’esplosione dei media era diventato un fenomeno apparentemente incontrollabile, lo sostenevano tra il serio e il faceto. “Se la Juventus si presentasse alle elezioni, le vincerebbe”. La tifoseria crebbe a dismisura, toccando una quantità tale di soggetti per tutta Italia da rendere impossibile una vera e propria catalogazione che sia politica, geografica o sociale del tifoso juventino che divenne così apolide e sfuggente, in grado di poter rappresentare tutte le caratteristiche umane, tutti i vizi e tutte le virtù, dal fabbro all’industriale.

Quale è la prima squadra a cui pensano gli italiani?

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Nonostante qualche forma rudimentale di tifo organizzato può essere intravista sin dagli anni 30 in pieno fascismo ad opera di tifosi della Lazio, risale al 1969, nel cuore della contestazione giovanile, la prima vera traccia di tifo ultras in Italia. La firma è della Fossa dei Leoni, ultras storici del Milan, stipati in Curva Sud a San Siro. La Juventus si presentó con un po’ di ritardo e confusione organizzativa all’appuntamento con la rivoluzione del tifo che nel frattempo aveva contagiato tutto il Paese: addirittura come primissimi gruppi organizzati di ultras juventini si possono evidenziare due piccole frange riconducibili a politiche di estrema sinistra, curioso se pensiamo che oggi il tifo juventino è invece riconducibile a idee tendenzialmente neofasciste, come per altro la maggior parte delle tifoserie italiane. Nel corso degli anni la storia ultras juventina si è evoluta, diventando tra le più travagliate d’Italia e subendo trasformazioni numerose e spesso traumatiche. Il primo gruppo ad instaurare un dominio riconosciuto fu i Fighters, nato dalle ceneri dei vecchi Panthers e caratterizzato da un tifo molto “inglese” fatto di cori e battiti di mani. I Fighters detennero il dominio sulla Curva Filadelfia per l’ultima metà degli anni 70 e per la prima degli anni 80. Fu la tragedia dell’Heysel a cambiare poi per sempre il tifo organizzato bianconero: falcidiati dalla follia omicida hooligans, gli ultras espressero chiaramente la volontà di eliminare dalla Filadelfia qualsiasi tipo di inglesismo, dando così il via a diverse lotte intestine. Nel 1987 l’unione di diversi gruppi ultras tra cui gli stessi Panthers (fortemente indeboliti) più altre piccole realtà organizzate come gli Indians e i Gioventù Bianconera diedero vita ai Drughi, così chiamati in onore del celebre film di Kubrick, Arancia Meccanica.

Nel decennio successivo i Drughi hanno pressappoco monopolizzato la curva del Filadelfia prima e del Delle Alpi poi, creando un dominio assoluto sulla curva, colorato solo dalla presenza storica di piccoli gruppi ultras sopravvissuti in relativa autonomia come “Vecchia Guardia”, che ha sempre mantenuto di per sè una certa indipendenza. A metà degli anni 90 ebbero il via peró le prime scissioni dai Drughi che iniziarono a pagare una politica fin troppo autoritaria e dittatoriale: per primo fuoriuscì un gruppo ispirato alla tradizione dei vecchi Fighters, dando il via ad una guerra interna sanguinosa in curva che vedeva da una parte l’autorità dei Drughi e dall’altra la tradizione dei Fighters. Proprio lo stesso nome Fighters è stato elemento di battaglia ultras. Per i Drughi, un nome inglese era un vero e proprio affronto alla memoria dell’Heysel, anche se coniato prima della notte di Bruxelles. Ad oggi ufficialmente il gruppo Panthers non esiste più, sostituito all’anagrafe ultras dall’italianissimo Tradizione Bianconera. Purtroppo per i Drughi peró le scissioni non si sono fermate e sono proseguite lungo tutta la seconda metà degli anni 90. Venne prima il turno del cosiddetto Nucleo 1985, gruppo nuovo e colmo di giovani, così chiamato ovviamente in onore della tragedia dell’Heysel dell’85. Sopravvissuto fino ad oggi, il Nucleo si è sempre distinto per una certa neutralità nelle guerre interne alla curva e relativo principalmente a gruppi di tifosi veneti e friulani. In quegli stessi anni di diaspora si vede anche la nascita dei Vikings, gruppo ultras legato invece alla città di Milano e di stampo prevalentemente inglese (sono considerati i veri hooligans del tifo juventno) e degli Irriducibili, gruppo invece nato direttamente a Torino e che si è da subito caratterizzato per infiltrazioni criminali al suo interno. Le varie scissioni si sono poi fortificate nel tempo arrivando ad oggi ad un panorama che vede la presenza di 5 consolidati gruppi ultras che si spartiscono in via potenzialmente equa la Curva Sud dell’Allianz Stadium. Le “Cinque Famiglie” del tifo juventino sono dunque i Drughi, che hanno comunque mantenuto il proprio apparato e peso storico, i Vikings, cresciuti esponenzialmente negli anni, il Nucleo 1985, Tradizione Bianconera (ex Fighters) e i Bravi Ragazzi (ex Irriducibili).

Football Factory è una bella serie di piccoli documentari sulle tifoserie organizzate inglesi. Potete recuperarla su Netflix. Nella sua versione internazionale, dove la troupe va in giro per l’Europa a intervistare vari gruppi ultras, in una puntata si recano a Torino.

In questo vero e proprio Risiko del tifo, la lotta e l’interesse dei gruppi ultras bianconeri si sono rivolti principalmente al bagarinaggio e alla spartizione dei ricavi del merchandising non ufficiale al di fuori dello stadio. Prima di Calciopoli la politica societaria sulla gestione dei biglietti era relativamente chiara: Moggi e suoi vassalli avevano rapporti privilegiati e diretti con i Drughi, personificati dal loro capo assoluto, Dino Mocciola, che si assumeva poi compiti autonomi di redistribuzione dei biglietti in cambio dell’assicurazione di sicurezza interna nello stadio. Mocciola è stato per decenni il boss indiscusso della curva juventina. Torinese e dalla biografia misteriosa, Mocciola è stato un tassello fondamentale per l’ascesa dei Drughi: tanto diplomatico e in grado di intrattenere relazioni “amichevoli” con Moggi e Giraudo, quanto allo stesso tempo feroce nell’impartire un vero e proprio regime del terrore in Curva, guidando una durissima lotta interna contro i Fighters, dalla quale i Drughi, forti anche dell’appoggio esterno societario erano usciti vincitori. Mocciola era un vero e proprio intoccabile, il padrino della curva bianconere, vicino ai potenti in giacca e cravatta e vicinissimo alle cosche criminali che iniziavano a frequentare di tanto in tanto la curva. L’intoccabilità di Mocciola finisce peró con Calciopoli e il terremoto giudiziario che si abbatte sulla vecchia dirigenza bianconera: nell’estate 2006 viene aggredito ad Alessandria in un agguato mai del tutto chiarito dalla magistratura. Secondo la ricostruzione della Digos fu architettato da soggetti relativi ai Bravi Ragazzi, con una probabile acquiscenza dei Fighters, i rivali storici di Mocciola, che hanno mal digerito l’imposizione di cambio di nome in Tradizione. Mocciola (che subirà un secondo agguato anche nel 2009) se la cava con qualche punto e qualche cicatrice ma capisce che il suo regno ha subito un duro e serio colpo. Deve reagire immediatamente e non puó mostrare paura. È allora che si affida ai consigli e alla protezione di Placido Barresi, noto killer della ndrangheta e già non meglio determinato “amico” di diverse fazioni della curva juventina. Il contatto tra Mocciola e Barresi è il primo conclamato legame che si stringe tra la criminalità organizzata e il tifo bianconero e il primo sguardo interessato della ndrangheta al bagarinaggio in Curva Sud. Barresi propone di risolvere la questione con “pratiche da stadio”, senza esasperare il conflitto tra Drughi e Bravi Ragazzi. L’importante è mantenere la pace e l’attenzione sui profitti. La Juventus sta per inaugurare il nuovo stadio e si possono fare soldi a palate.

È verosimile immaginare che la Digos pur a conoscenza della rete di rapporti più o meno legale tra Juve preCalciopoli e ultras, abbia deciso a più riprese di chiudere un occhio. Capiultras come Mocciola sono noti alle forze dell’ordine e per quanto universalmente identificabili come pericolosi vengono spesso controllati “a distanza”, lasciando spazio di manovra alle singole societá per la gestione di sicurezza interna. Questo silenzio-assenso tra forze dell’ordine e ultras si è interrotto quando è entrata prepotentemente nella curva della Juventus la figura di Rocco Dominello. Rocco è il figlio di Saverio Dominello vecchio boss della ndrangheta, legato al clan di Rosarno: dotato di modi ben più civili ed educati del padre, Rocco ha esplicitato l’interesse della ndrangheta al bagarinaggio in Curva Sud, pretendendo pian piano un ruolo di primo piano. Il suo primo incontro con Dino Mocciola è fissato al 20 aprile 2013: in questo incontro, tenutosi proprio a Torino, Dominello manifesta la volontà di creare una sesta frangia ultras juventina, direttamente e strettamente legata alla criminalità organizzata calabrese. Il nome sarebbe, con scarsa originalità, I Gobbi. Mocciola ascolta tra l’interessato e il preoccupato il boss, prima di dirottarlo verso un suo uomo di fiducia, Fabio Germani, drugo anch’esso. Germani sarà poi individuato dalla magistratura come il punto di contatto effettivo tra crimine organizzato e società: è lui infatti a introdurre Dominello (da tutti ricordato come un uomo affabile e cortese) a Stefano Merulla, responsabile del ticketing Juventus, e Alessandro D’Angelo, responsabile della sicurezza interna allo Juventus Stadium. I due intuiscono immediatamente la natura malavitosa di Dominello ma decidono di assecondarlo per quelle che saranno poi intese come “ragioni di sicurezza pubblica”. Insomma il do ut des che aveva caratterizzato la gestione Moggi, sebbene con somme di biglietti più elevate e con presenze chiaramente criminali al suo interno. Inizia così un giro frenetico di bagarinaggio che andrà avanti per almeno due anni, dal 2013 al 2015 e che coinvolgerà a vario livello tutti i gruppi ultras della curva, con ricavi che vengono poi spartiti tra vari clan, tutto sotto lo sguardo vigile della Ndrangheta. Per dare un’idea delle cifre, la compagna di Andrea Puntorno, ex capo dei Bravi Ragazzi arrestato nel 2016 per trasporto di cocaina dall’Italia all’Albania, ha parlato di 30.000 euro guadagnati a partita dal solo Puntorno.

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In questo clima criminale, spicca la figura e la storia di Raffaello Bucci detto Ciccio. Pugliese di San Severo (storico feudo meridionale juventino), Bucci si trasferisce appena maggiorenne a Torino proprio con l’obiettivo di perseguire al meglio quella che viene definita dai suoi amici come la sua “ossessione”: la Juventus, la sua squadra del cuore, la sua ragione di vita. Bucci, diplomato in ragioneria, arriva in Piemonte ed entra da subito nel giro dei Drughi, scalando la gerarchia fino a conquistarsi la fiducia di Mocciola e diventando una sorta di numero 2. Bucci è visto come un soggetto “presentabile”, spiritoso, sufficientemente colto, dalla battuta pronta e dotato di fede incrollabile alla causa, per questo viene spesso utilizzato come fonte di collegamento diretta tra frangia ultras e società. Ma Ciccio non parla solo con la società. Per almeno 5 anni (2010-2015) Bucci è un elemento chiave nei rapporti tra società, Drughi e Digos. Chiaccherone e spigliato quanto serve, (addirittura è stato ospite telefonico della storica QVSV, dove si è messo a disquisire di razzismo) , Bucci era diventato anche informatore delle forze dell’ordine, posizione comunque non troppo singolare dato che di frequente la Digos collabora con degli ultras al fine di controllare più da vicino le questioni di curva, senza che si sollevino polveroni. Tutti si fidano di Ciccio, ad eccezione purtroppo per lui, di una sola persona: Rocco Dominello. Il boss è preoccupato delle sue corsie preferenziali con polizia e società e mira a ridurre gradualmente il suo potere nella piramide di potere dei Drughi. Bucci subisce un’aggressione nel 2014. Capisce l’antifona, conosce la potenzialità estremamente criminali di Dominello e ne approfitta per lasciare Torino per un po’, tornando in Puglia. Dopo pochi mesi torna peró in Piemonte, acquisendo stavolta un rapporto “paraufficiale” con la società, per sentirsi evidentemente più coperto: Ciccio percepisce uno stipendio fisso e va allo stadio da fiduciario della Juventus, più o meno ufficialmente incaricato della gestione dei biglietti in curva, pur rimanendo per tutti in curva, un Drugo.

Esiste un detto nel Sud Italia, che probabilmente lo stesso Bucci conosceva: non puoi ballare la danza classica se hai il sedere basso. Bucci aveva iniziato a ballare danza classica, infilando il piede un po’ in tutte le scarpe che gliene davano la possibilità, più con ingenuità che con malizia, almeno secondo le ricostruzioni degli inquirenti. La Digos ha ormai sotto controllo la curva bianconera, conosce Dominello. L’indagine prosegue e Ciccio è sempre più preoccupato. Di biglietti la Juventus gliene fornisce sempre meno e anche i suoi fratelli Drughi iniziano a spazientirsi, tra cui il grande capo Mocciola. Bucci si rivolge all’ex moglie, da cui ha avuto una figlia nel 2004 e lo fa con toni da dead men walking. “Mi sono fidato delle persone sbagliate”, dice. I Dominello vengono incastrati dalla polizia e il 6 luglio 2017 Bucci viene interrogato come persona informata sui fatti. Il giorno dopo il suo corpo viene ritrovato sotto un ponte, a Torino, lo stesso ponte da cui si tolse la vita Edoardo Agnelli, cugino di Andrea.

L’uomo più vicino alla polizia e che più di tutti conosceva il codice del bagarinaggio bianconero, non poteva più parlare. La tesi del suicidio convince poco e rafforzano l’idea le lesioni sparse trovate sul suo corpo: probabilmente Ciccio sapeva troppo su tutti e la Ndrangheta non aveva intenzione di rischiare con lui. I Drughi alla notizia della morte hanno rilasciato un comunicato. “Avevi ragione, la vita è dura per gli altri. Ma da oggi lo è anche per noi senza di te”.

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L’inchiesta, denominata Alto Piemonte, ha toccato anche le vette più alte della piramide juventina. Beppe Marotta è stato interrogato come persona informata sui fatti, pur non essendo mai indagato: sono emerse intercettazioni proprio tra Marotta e quello che è identificabile come un uomo di fiducia di Rocco Dominello, che avevano ad oggetto biglietti per un Juventus-Real Madrid del 2013 e un provino per un ragazzo segnalato dallo stesso Dominello per il settore giovanile della Juventus. Il ragazzo sosterrá regolarmente il provino, anche se non verrà preso. Andrea Agnelli è stato invece deferito nell’inchiesta sportiva che si è aperta successivamente. La sentenza ha visto un’inibizione nei suoi confronti di 12 mesi: gli viene contestato illecito per lealtà sportiva e per rapporti con i tifosi. La magistratura ha appurato che ci sono stati rapporti, anche personali tra Agnelli e Dominello. Il presidente non ha negato l’esistenza di tali incontri ma ha respinto con forza l’idea che lui fosse a conoscenza della natura ndranghetista dell’uomo. Agnelli ha descritto Dominello come un uomo evidentemente pericoloso, ma della quale non conosceva l’estrazione sociale e alla quale la Juventus ha assecondato determinate richieste di biglietti per le prima citate “ragioni di ordine pubblico”. Ascoltato nel maggio 2017 dalla Commissione Antimafia presieduta da Rosy Bindi, Agnelli ha rivolto qualche critica alle forze dell’ordine che a suo avviso avrebbero dovuto segnalare in tempo alla società il profilo di Dominello dato che anch’esse dialogano continuamente con gli ultras. Ha anche espresso quello che è secondo lui il principale problema di fondo dello Stadium “Lo Juventus Stadium è troppo piccolo. Siamo stati colti di sorpresa dai continui sold out”. La capienza ridotta dell’impianto impone tariffari elevati e la proliferazione del bagarinaggio. Nello stesso incontro Agnelli ha precisato come appena avuta notizia dell’indagine, la prima misura assunta dalla Juventus è stata quella di eliminare la dotazione dei biglietti ai gruppi organizzati. La magistratura ha dato ragione ad Agnelli sostenendo che non esistono elementi per ritenere che il presidente bianconero fosse a conoscenza della pericolosità sociale di Dominello, smontando quindi il collegamento tra Juventus (intesa anche nelle persone di Merulla e Di Stefano, inibiti e poi licenziati in tronco dalla Juventus) e Ndrangheta.

Il 22 ottobre prossimo, Report ha promesso una puntata che farà maggiore luce sulla vicenda, presentando anche intercettazioni relative al presunto suicidio di Bucci e alludendo alla possibilità che le recenti dimissioni di Marotta possano avere qualcosa a che fare con il tifo organizzato. Quel che è certo è che la vicenda propone un tema delicatissimo nel nostro Paese e che si spesso presenta nelle forme più varie e disparate: quanto il “bene” puó scendere a patti con il “male” per raggiungere un fine superiore? Quanta immoralità c’è in tutto questo? Possiamo accettarlo?

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Tornando all’attualità, potenzialmente nessuno dovrebbe rimetterci più per uno stadio silenzioso quanto lo squadra che gioca in casa. Allegri ha espresso qualche perplessità, smorzando la polemica ultras e schierandosi ovviamente completamente dalla parte della società, invitando i tifosi ad incitare sempre e comunque la squadra. Lo stesso Ronaldo durante la partita contro il Sassuolo spesso si è girato verso il pubblico silenzioso con lo sguardo tarantolato imponendo quasi con la forza un supporto degno. Eppure per ora, la Juventus va come un treno, dritta e spedita, nel silenzio come nel caos. La squadra di Allegri ha anticorpi a sufficienza per poter vincere più o meno tutte le partite che va a giocare in qualsiasi condizione di pubblico. Ma l’opinione espressa nel comunicato dagli ultras secondo cui a rimetterci più di tutti sarebbero i tifosi stessi della Juventus ha effettivamente un certo fondamento di verità. Al momento l’esperienza Allianz Stadium, lo stadio più avanguardistico d’Italia è un’esperienza silenziosa, monca, sfibrata, priva di quel trasporto vibrante che dovrebbe accompagnare l’esibizione sportiva dal vivo.

A dispetto del suo atteggiamento solitamente cordiale e affabile, Agnelli si sta rilevando un presidente duro: gli addii potenzialmente traumatici di gente come Del Piero, Buffon, Marchisio e Marotta sono stati gestiti con una freddezza posta quasi ai limiti della spietatezza. La Juventus è un’azienda in continua crescita, cambia pelle rimanendo lo stesso animale e ha dimostrato con i fatti quanto nessun uomo possa sentirsi più importante del nome Juventus. L’inchiesta “Alto Piemonte” ha messo in discussione il nome e la dignità personale di Agnelli, segnando probabilmente un vero e proprio giro di vite nella gestione dei rapporti tra società e ultras. Laddove prima c’era accondiscendenza adesso c’è intransigenza. Oltre alla politica tariffaria schizzata alle stelle (che rende materialmente impossibile l’accesso allo stadio per tanti ultras), oltre all’eliminazione di biglietti a disposizione degli ultras, sembra che la società abbia smesso di chiudere gli occhi anche sul merchandising non ufficiale fuori lo stadio: gestito anch’esso da elementi riconducibili al tifo organizzato e per anni assecondato dalla società, ora è improvvisamente vietato dalla questura, che ha fatto chiudere decine di bancarelle intorno lo stadio.

Agnelli ha preso al comando una squadra inerme, incapace di riacquisire una posizione di superiorità in Italia e tanto meno in Europa: nel giro di poco più di un lustro la Juventus è diventata una potenza mondiale, scavando un solco irraggiungibile in Italia e in grado di essere pienamente comparata alle grandissime del calcio come Real e Barcellona. L’acquisto di un giocatore che ha vinto per cinque volte il Pallone d’Oro è il simbolo di un percorso di crescita giunto all’apice. Di spazio per il tifo organizzato non ce ne è più. La volontà di Agnelli in materia di ultras, passato lo spavento giudiziario, adesso sembra decisamente più chiara e più dura rispetto al passato. Il concetto di “stadio-teatro” espresso nel comunicato non sembra molto lontano da quella che è l’effettiva intenzione del presidente: uno stadio a misura di famiglia e privo di frange di tifosi organizzati, così come ormai funziona da un paio di decenni in Inghilterra, dove gli hooligans sono stati con difficoltà e fatica ormai definitivamente allontanati dagli stadi. Uno stadio aperto al turismo, che garantisce un’esperienza nuova,tranquilla,  lontana da chiassi, tamburi e cori. L’esecrabile cosiddetto “tifoso occasionale”, spauracchio demoniaco dell’ultras, diventa così habituè dello Stadium, per altro anche saziato da anni di trionfi e dunque meno infervorato rispetto a 7 anni quando oggettivamente lo Stadium era una bolgia in ogni singolo settore, dalla curva alla tribuna.  Uno stadio internazionale, globale, una sorta di parco divertimenti, come avviene per tanti altri grandi club nel mondo. Ciò che forse è stato sottovalutato nella lettura per molti versi condivisibilissima della situazione da parte della società juventina è forse una certa differenza culturale tra il tifoso italiano e il tifoso inglese, tanto per rimanere all’esempio (anche se in realtà questa politica di tifoseria “turistica” è in voga anche per società come Barcellona o Psg). Laddove il tifoso italiano tace, ribolle, inveisce contro l’arbitro e invita ad andare tutti a lavorare, il tifoso inglese canta. Canta sempre. Non è una questione di qualunquismo sportivo, quanto di vere e proprie differenze culturali all’approccio con lo sport e con la propria squadra. Una differenza di approccio che rende l’ Old Trafford un tempio del tifo pulito e l’Allianz Stadium un elegante teatro silente.

Questo fermo immagine è sufficiente a far capire la misura familiare dello Stadium.

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Uscire da questa situazione di stallo sembra arduo. Da un lato la società persegue la propria politica di pulizia dello stadio e pazienza se ci sarà qualche coro in meno. Dall’altro gli ultras non sembrano avere intenzione di cedere di un millimetro e le richieste rimangono chiare: abbassamento dei prezzi dei biglietti e possibilità di posizionare di nuovo i banchetti al di fuori dello Stadium. La guerra ha raggiunto un nuovo grado di asprezza dopo la decisione del giudice sportivo di chiudere la Curva Sud dopo i cori razzisti (studiati) da parte degli ultras rivolti a Koulibaly durante il match contro il Napoli: la Juventus, nella figura del suo avvocato Luigi Chiappero ha presentato ricorso sostenendo però una tesi per certi versi innovativa. La Juventus non contesta la natura del coro e della discriminazione territoriale, dichiarando invece che è il “momento di cambiare passo”. “La responsabilità oggettiva per le società non è un buon metodo per punire ciò che deve essere davvero sanzionato. E’ ora di punire i singoli autori di comportamenti sbagliati. E’ ora di applicare la responsabilità individuale”. Insomma la Juventus propone il frontale. Perché chiudere l’intera curva per colpa di determinati soggetti riconoscibili che “non sono graditi e non entreranno più perché non sono Juventus”? Agnelli vuole bandire dallo stadio gli ultras insubordinati uno per uno, senza più permettere che paghi l’intero settore. Il ricorso tuttavia è franato in un nulla di fatto: la Corte Sportiva non ha apprezzato la tesi difensiva juventina aumentando addirittura la giornate di squalifica della curva a due, sebbene con sospensione dell’esecuzione e confermando l’ammenda di 10.000 euro.

La sensazione è che la tifoseria organizzata juventina (che ovviamente al netto di una base associativa discutibile non può essere ricondotta ad una banda di fuorilegge) non potrà mai uscire vittoriosa da questa guerra interna. Dopo decenni di compromessi e accordi sottobanco con elementi della dirigenza, gli ultras della Juventus si ritrovano ormai feriti e sotto assedio pagando anche quella assenza di coesione geografica che negli anni è stata sua forza e sua debolezza e che ora impedisce di trovare un elemento di lotta comune, dovendo far capo a troppi interessi diversi. Le “cinque famiglie” del tifo ultras bianconero si trovano dunque al bivio: espellere dal loro interno le singole componenti legate al traffico di denaro illecito sembra l’unica via per sopravvivere e coesistere in un ambiente e che non li accetta più. In caso contrario è difficile immaginare come il tifo organizzato possa continuare a resistere all’interno dell’Allianz Arena. La politica di rinnovamento dell’ambiente Juve da parte di Agnelli, parte dal campo, passa per la dirigenza e arriva poi dritta in mezzo la Curva Sud.

Intanto però nell’ultimo Juventus- Young Boys si sentiva una sola tifoseria cantare dentro l’Allianz Stadium ed era quella degli svizzeri, non proprio mattatori di torcide. Sostenere che non esiste un problema e che l’espulsione dei gruppi ultras bianconeri sia solo un vantaggio, è una bugia al netto di ogni opinione personale. Forse a pensarci bene, gli unici che possono far uscire dall’imbarazzo la Juventus sono proprio i “tifosi da teatro” che oggi popolano lo stadio, sopportando prezzi da capogiro e spesso trasferte infinite: magari potrebbero diventare a loro volta ultras.


 

Nasce ad Avezzano nell’estate del 1996 e inizia a parlare di sport con l’ostetrica. Quando lavora legge Hornby, mentre nel tempo libero beve birra e studia Giurisprudenza alla Luiss in quel di Roma, dove vive da tre anni. Crede fermamente che Fabio Fognini un giorno vincerà il Roland Garros.