Il paradosso delle vittorie che rovinano la tifoseria

C’è un aspetto paradossale in questi incredibili anni ’10 che hanno visto la Juve risorgere, imporsi e infine dominare il panorama calcistico italiano in forme che nessuno avrebbe mai potuto immaginare.

L’aspetto paradossale è che i trionfi di solito cementano la tifoseria, spingono a fare del tifo un qualcosa da condividere. Per me è stato il contrario. Gli anni ’10 hanno segnato, in modo credo irreversibile, il mio progressivo allontanamento dagli juventini, e il vivere la mia passione calcistica in assoluta solitudine, senza ricercare alcun momento collettivo di condivisione di trionfi e vittorie con altri bianconeri.

Detta alla crudele: non voglio avere nulla a che fare, discutere e gioire con altri juventini, perché so che mi troverei a confrontare spesso con un allucinante mondo di paranoie, frustrazioni e isterie che ho sempre identificato in altre tifoserie storicamente in balia di sentimenti irrazionali (citofonare Inter), e che ho per anni ritenuto per fortuna lontani anni luce dal dna di una tifoseria che per qualche strana alchimia ho sempre ritenuto più riflessiva, distaccata e obiettiva della deprimente italica media.

Da qualche anno ormai non è più così, è evidente, non c’è più alcun tratto che distingue il nostro tifo per qualità rispetto a napolisti, interisti o romanisti. Siamo tutti tifosi identicamente mediocri, che semplicemente indossano maglie diverse.

Sono secoli che sostengo che il peggior danno di Calciopoli non è stato la retrocessione o gli scudetti tolti, ma l’averci trasformati in tifosi isterici, paranoici, privi di giudizio, che si fanno cavalcare dall’onda di una emotività insensata e non sono più capaci di godersi quello che hanno davanti.

Per lo juventino pre-2006 la Champions non è mai stata un’ossessione. E sì che di finali ne abbiamo perse soprattutto prima del 2006. E sì che le abbiamo perse da strafavoriti, spesso in un contesto di totale dominio europeo, come nell’ultimo quinquennio degli anni ’90. Abbiamo perso finali da polli, giocandole male, non approfittando della nostra superiorità tecnica e tattica, della nostra rosa superiore per quantità e qualità. Sono le partite peggiori da perdere, per un tifoso, eppure in quegli anni, io non percepivo alcun rancore isterico, alcuna ossessione, solo la giusta e spesso devastante delusione per un’occasione sfumata. E tutt’oggi ricordiamo la Juve di Lippi con orgoglio, nonostante abbia perso 4 finali su 5.

Poi, e siamo dopo il 2006, succede che andiamo in finale di Champions per due volte, e ci andiamo in modo sorprendente, perché nel 2015 e nel 2017 non eravamo né la prima e manco la quarta squadra più forte d’Europa. Eppure ci siamo andati, meritatamente, e ce la siamo giocata, perdendo contro squadre nettamente più forti. E lì invece di ringraziare una squadra che era andata oltre le sue possibilità, abbiamo piantato su una caciara isterica su cui napolisti, interisti e quant’altro hanno avuto facile gioco nel prenderci pesantemente per il culo. E non, si badi, perché perdevamo quelle finali, ma perché non mostravamo alcun orgoglio nell’esserci arrivati, nell’essercele giocate, nessun orgoglio nei confronti di un’impresa sportiva. Abbiamo permesso a tifoserie di sfigati che non vincono nulla da lustri, da decenni, o da mai, che prendiamo sonoramente a schiaffi da 10 anni, di prenderci per il culo, di farci pesare un’impresa sportiva, e di trasformarla in una disfatta vergognosa. E gliel’abbiamo permesso perché la pensiamo veramente come loro. Perché questa coppa abbiamo soprattutto il terrore infantile di perderla, e non la sana voglia di vincerla. Perché altrimenti sapremmo quanto sia difficile, aleatorio, a volte fortuito, vincere un torneo ad eliminazione diretta, e quante squadre più o meno forti di noi se la giochino alla pari e che non ci sia alcun disonore nell’uscire sconfitti da uno scontro diretto con una di queste potenze calcistiche.

Veniamo da anni di finali inattese o di eliminazioni a testa alta, dopo imprese sfiorate con il Bayern di Guardiola o il Real delle 3 Champions consecutive. Ma nel nostro cervello malato quelle sono solo sconfitte, disfatte, e non valgono niente.

E non valgono niente perché c’è un’altra cosa che si è modificata nella nostra testa di juventini dopo il 2006: la cultura sportiva, il non saper soffrire, e soprattutto il non saper perdere. E sì che siamo sempre stati bravi in questo, superiori anni luce rispetto a chiunque altro, che non ci ha mai riconosciuto nulla, e che ha sempre imputato le proprie sconfitte al nostro fantomatico rubare. Rispetto a tifosi che parlano ancora di gol di Turone, Iuliano-Ronaldo, gol di Muntari, addirittura rigore di Brady, siamo sempre stati impeccabili nell’accettare sconfitte spesso beffarde. Abbiamo subito probabilmente una delle peggiori ingiustizie sportive della storia nel 2000 a Perugia, impossibilitati a giocarci una partita regolare per una interpretazione folle del regolamento da parte di un arbitro narciso, ed abbiamo perso uno scudetto dopo 38 giornate in testa. Abbiamo perso una Champions nel 1998 per un gol in fuorigioco cristallino. Eppure, non abbiamo battuto ciglio. Siamo sempre andati avanti.

Oggi ci troviamo nelle condizioni di non sapere accettare serenamente neanche un pareggio col Parma, o una sconfitta meritata con un Atletico che, se gioca come ha giocato, può battere chiunque. No, basta una sconfitta per rimettere in gioco 10 anni di successi, come se questi 7 scudetti consecutivi siano stati scontati, dovuti, ordinaria amministrazione. PSG e Bayern, in contesti simili, qualcuno se lo sono lasciato dietro, e nel frattempo le finali di Champions le hanno viste col binocolo. Eppure campano tranquilli, senza ossessioni.

Noi, dopo neanche una partita di andata, ci siamo calati le brache e fatti impallinare dalla marmaglia di tifosi italici che non vincono nulla, come se fossimo già condannati ad uscire. Noi, che nulla abbiamo a che spartire con nessuno di loro, non sappiamo neanche più dare valore a quello che vinciamo. Facciamo gli isterici d’estate con CR7 e ci troviamo a chiederci se sia stato un buon affare dopo qualche mese e venti gol dopo. Ci improvvisiamo esperti di spogliatoio che gestiscono le presenze dei giocatori, fisioterapisti che impediscono gli infortuni, tecnici e tattici che vogliono spiegare il mestiere ad un allenatore che ha stravinto quasi tutto. Nonostante questi anni felici, siamo capaci di frustrazioni che manco un tifoso del Bologna. Ed è giusto che gli altri ci prendano per il culo, perché siamo gli unici tifosi che dominano e che se la fanno sotto allo stesso tempo.

Bene, conjuventini. Ecco spiegato perché io non voglio più avere niente a che fare con voi. Perché questi anni ’10 vi hanno tolto un bel pezzo di quella juventinità di cui potevate davvero andare orgogliosi, e vi hanno cucito addosso una maglia nerazzurra senza manco accorgervene. Godetevela.

di Minima Moralia



Lettera aperta alla Curva Nord

Mancano pochi giorni al match di ritorno contro l’Atletico. Il risultato pesante patito al Wanda impone una gara di ritorno all’assalto della porta rivale. Una “battaglia sportiva” che andrebbe accompagnata dall’incitamento costante ed assordante della Curva di casa e dell’intero stadio.

Come sappiamo, da questa stagione, la frangia più calda del tifo bianconero, quella dei gruppi organizzati che occupa la Curva Sud, ha smesso di cantare. Uno “sciopero del tifo” netto, interrotto solo da alcuni cori contro tifoserie rivali (che provocano ammende e sanzioni alla Juventus), e sul quale non abbiamo intenzione di esprimere giudizi qui.

Il dato è che, piaccia o non piaccia, lo si condivida o meno, la Curva Sud dello Stadium non canta. E da quanto trapela non canterà neppure la sera del 12 marzo, quando 11 maglie bianconere saranno chiamate a gettare il cuore oltre l’ostacolo colchonero.

Sono un assiduo frequentatore dello Stadium ed è una passione che comporta spese e sacrifici ingenti. Venendo dalla Sicilia, al costo dell’abbonamento noi pendolari del tifo juventino dobbiamo aggiungere quello di aerei, hotel e taxi tutte le volte che raggiungiamo Torino.

Non è da un divano comodo, dunque, che affronto la questione. Quel respiro adrenalinico dello Stadium dei primi 3-4 anni mi manca, ci manca. Ne hanno “nostalgia” tutti quelli che conoscono quegli spalti, figuriamoci quanto possa pesare il silenzio a chi scende in campo per vincere.

Rispettando la libertà di tutti, compresa quella della Sud se scegliesse di proseguire la protesta, questo è il momento di sostenere la Juventus.

Lo stadio è popolato da altre 30.000 anime. Una percentuale sarà forse composta da tifosi “freddi”, appassionati più di calcio che di Juve, che vanno a godersi lo spettacolo senza un intenso coinvolgimento emotivo. Un’altra parte magari si troverà lì per accompagnare l’amico o trascorrere una serata diversa. Un’altra ancora, minima, perché ha ricevuto un omaggio dall’azienda o uno sponsor. Un’altra nicchia va a godersi una cena gourmet in Tribuna Ovest. Ci sta tutto.

Ma c’è una parte, la più ampia di quei 30.000 extra-Sud, che pagherebbe (“pagheremmo”, dovrei scrivere) di tasca propria per ribaltare quel risultato. Che dormirà poco la notte dopo, per gioia o per rabbia. Che pensa alla Juve, parla della Juve, immagina la “propria” Juve, 7 giorni su 7.

Noi. Gente apolide. Con temperamenti variegati. Estrazioni sociali eterogenee. Ma con la Juve nel cuore. Con una coppa che sogniamo da 23 anni e che quest’anno immaginavamo “raggiungibile”. Non possiamo rassegnarci al silenzio in quel meraviglioso stadio che è “casa nostra”. Dobbiamo e possiamo fare qualcosa.

Non è facile, senza “lanciacori”, vero. Ma ci sono esempi che possiamo seguire.  In Inghilterra non esistono più gruppi organizzati che “gestiscono il tifo” dal 1989. Eppure il clima che si respira negli stadi inglesi è tutt’altro che freddo. Quando, nell’immensa Wembley, i tifosi del Tottenham a marzo scorso (c’ero) lasciavano partire “Oh when the Spurs”, o “Come on, Spurs!” era spettacolo. Un frastuono di settantamila voci che cantavano all’unisono. Lo stesso accade negli altri templi del calcio britannico. In maniera discontinua, magari, ma frequente, rumorosa e appassionata.

E’ forse il momento di importare questo metodo.

Chi popola la Curva Nord potrebbe provare a “contagiare” il resto dello stadio con entusiasmo. Gran parte della Nord è popolata da membri degli Official Fan Club. Mi è capitato più di una volta di vedere le partite della Juve in uno di questi Club. Ho sempre notato passione. Si urla, si impreca. Soprattutto si canta. Quella elettricità si può trasferire sugli spalti dello Juventus Stadium.

Ci sono tre, quattro cori semplici. Li conosciamo tutti: “Fino alla fine forza Juventus”, “Olè Olè, Olè, Olè, Juve, Juveee”, “Noi vogliamo questa vittoria” ma anche quel “Sono un ultras bianconero…” che cantiamo sempre pure in trasferta. Non dico di imparare la canzone Cristiano da Madeira, che pure meriterebbe. Ma già far risuonare, due o tre volte a partita, ognuno di quei canti, farebbe vibrare lo stadio. La partita offrirà spunti per far partire la voce. Un tackle di Chiellini, una magia di Dybala, una giocata di Ronaldo, una punizione. Un paio di “scalmanati” partono, lo stadio segue.

Si può fare. Con il tempo si possono stabilire modalità operative, come sfruttare la “rete” degli Official Fan Clubs o gli incontri periodici. Ma dopo. Adesso manca troppo poco alla Partita che segna la stagione. Sarà sufficiente essere spontanei, urlare e cantare tutta la voglia di vincere che ci anima. Tutta la passione che abbiamo dentro e che nessuno può impedirci di esternare.

Forza Curva Nord, iniziate voi! Tutti gli altri si faranno trascinare. Anche i calciatori in campo. Perché se è vero che “uno stadio non ha mai fatto gol“, è altrettanto evidente che l’amore sposta le montagne. Aiutiamoli a farci continuare a coltivare il sogno. Anzi “l’obiettivo”.

Perché “La Juve siamo noi” significa condividerne gli obiettivi, le esultanze e le scalate. Il respiro.

Fino alla fine.

Giuseppe Gariffo.