Il problema Juve è il modello Napoli

Maurizio Sarri, per il tifoso italiano, è ancora e sempre il Napoli, quando siamo ormai giunti a metà del mese di novembre del 2019 e di mezzo c’è stato anche il Chelsea. Questo sia già Juve di Sarri e relativi giochi dialettici, come stia facendo e come stia vincendo in bianconero – unite alle svariate previsioni a proposito di come Sarri farà – restano ancora considerazioni parallele, se non marginali, rispetto al punto di partenza che per il tecnico ha già qui rappresentato un punto di arrivo perfino superiore al successo in Europa League (sempre parlando del percepito del tifoso italiano).

Insomma, Maurizio Sarri è l’allenatore della Juventus più esposta e mondializzata della sua storia eppure lui – per come lo si misura e parametra nel prodotto di campo – è ancora quel Napoli lì, soprattutto il Napoli 2017/18, miscelato con il Napoli dei record di Higuain l’anno precedente. Quindi non un preciso Napoli, a dimostrazione di quanto sia da un lato stata capace quell’esperienza di radicarsi nei concetti mentali del calciofilo nostrano, e dall’altro lato di quanto – come consumatori – si sia naturalmente portati ad astrarre i ricordi legati all’estetica di questo sport. Non è di certo una scoperta: la Juve di Lippi era quella che aveva forza e coraggio al servizio della qualità con il tridente vero, il Milan di Sacchi quello che faceva il fuorigioco a centrocampo e accorciava il tempo insieme allo spazio del campo, il Milan di Capello un tiro e un gol e zero tiri concessi eccetera eccetera. Semplificazioni, ma anche manifesti in ogni dibattito di settore.

Nulla è vero di quel modello Napoli, eppure tutto è vero. Soprattutto se nell’idealizzazione restano capisaldi comuni nel ricordo condiviso: il Napoli di Sarri fa parte di quelle pagine sulle quali, calcisticamente parlando, i vari interlocutori tendono a conformarsi. Un complimento, ma anche una condanna. Il grande possesso, lo sviluppo rapido ovvero massimo tre tocchi, la palla che anche quando gira lo fa per andare in avanti, le giocate ripetute con i tre attaccanti, i rifornimenti laterali e mirati alla punta centrale, la capacità di chiudere l’avversario nei 40 metri nonché l’irrazionale capacità di buttar via le partite che non t’aspetti o, peggio ancora, quelle che non devi per nessun motivo al mondo buttare via. Ma qui, su quest’ultimo punto, vince l’irrazionale nelle possibili spiegazioni. Incluse quelle implicitamente espresse da Allegri in qualità di avversario, se vogliamo storico, e infine vincente.

Quel che qui interessa è appunto però quel retaggio che segna l’immaginario di come dovrebbe/potrebbe/vorrebbe essere questa Juventus. E di conseguenza emerge il corto circuito di breve periodo che disorienta molti nella capacità di giudizio circa la cosiddetta “mano di Sarri” nei primi mesi a Torino per ciò che si vede in campo.

Cosa intendo dire? Che non è questione di volerlo o di non volerlo, ma è la dolce attuale condanna sia di Sarri sia di chi prova a staccare la spina dalla gestione Allegri sia di chi cerca anche solo razionalmente di farsi uno scenario chiaro che renda esteticamente accettabile – in chiave prevedibilmente ottimistica – un inizio costellato di buoni risultati e di due tre picchi necessari perché il controverso nuovo tecnico non finisse da subito nel tritacarne mediatico. E infatti lo stillicidio non è fin qui avvenuto, al punto che neanche la piccola grande bufera Ronaldo pare averlo pubblicamente compromesso. Però diciamolo, a oggi la Juve di Sarri non esiste ancora. Merito (o colpa) anche e soprattutto del Napoli di Sarri e di un modello che lo juventino deve cancellare per primo. Tappandosi occhi e orecchie ogni qual volta qualcuno alzi il dito o la voce o la penna per ricordarglielo

Luca Momblano.