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Il quando e il perché: dentro la testa di Allegri prima del Camp Nou

Il piano sul quale Massimiliano Allegri sviluppa pensieri in vista del Camp Nou è necessariamente un piano superiore al nostro. Il livello supera lo scoglio dell’undici e lo porta a quattordici uomini su diciotto. Il Barcellona non morirà mai, miscellanea di colpi improvvisi, finalizzatori che vedono sangue di fronte a quelle due porte lì, irriverenze e atteggiamenti, episodi, platealità, cattiveria, narcisismo ed esaltazione.

Quando le sfere in ballo sono tante, troppe, non resta che pensare in prima persona. Allegri sarà solo, più solo anche di Buffon, e lo sa bene. A Torino ha lasciato perdere la parte di chi dialoga con i calciatori in panchina affrontando in presa diretta i momenti della partita, gli errori e le sliding-doors. E quindi sarà ancora più solo. Che è quel che è, da sempre, l’allenatore della Juventus. Le responsabilità si condividono sempre a posteriori, un castigo della vita descritto dalla quintessenza bianconera per la quale se anche dovesse tutto andare come deve andare, ci sarà già quella successiva. Forse, ma solo forse, abbuonando l’indice per Juventus-Genoa fino all’eventuale nome dalla teca svizzera.

Così il piano di ragionamento di Allegri esulerà da quanto Messi fece male quando, arzillo, lo sfidò di soli concetti tattici a Barcellona ai tempi del Milan; dalle cicatrici che può lasciare Suarez; dal vortice di parole che voleranno sul terreno di gioco in cui l’unico padrone sarà Kuipers; da quanti palloni servirebbero a Higuain per segnarne uno.

Allegri sta allenando se stesso, da tempo, per questa partita e per le prossime tre. Si allena da solo, ogni giorno da metà gennaio, neppure più con gli amici di sempre, pure loro rimasti indietro, quasi al nostro livello. Sempre più isolato, in modo autogeno, perché l’esperienza paga quando non appaga. Dentro c’è anche Berlino: il capolavoro è riuscire a spiegare che contro questo Barcellona, mutato e semplificato rispetto a quello che praticava un calcio parallelo, non si prende gol per aver perso un uomo per un istante. Attenzione è una cosa, fobia un’altra. Così come non si vince con i nervi, ma attraverso i nervi. E allora avremmo digerito l’1-0 di Rakitic, per esempio, in un’altra maniera.

Il livello di Allegri, oggi, non è pensare né dove né come rompere la catena di montaggio blaugrana, che in casa mantiene nonostante tutto ritmi produttivi impressionanti. Lui è oltre, è al quando e al perché. Ecco, se la sua Juventus più elementare (che ha soltanto più un uomo libero di poter interpretare) avrà finalmente instaurato questa telepatia con il proprio “mental”-coach allora sarà davvero all’altezza di non soffrire allo spasmo, superando anche parte della sua storia internazionale.

Il quando, con varietà, costanza, scaltrezza e senza calcolatrice in mano perché i numeri si condividono anche questi solo a posteriori.

Il perché, invece, è molto più semplice: come da tanto (troppo) tempo non accadeva, questa volta non vale l’ansiosa regola per la quale servirà superarsi.

Luca Momblano

“Ho visto cose che voi Juventini” – Ci vorrebbe Walter Gagg

Martedì scorso la Juventus ci ha mostrato l’upgrade europeo che tutti aspettavamo. Nessuna paura dell’avversario che ha dominato i campi d’Europa negli ultimi dieci anni, anzi la costante propensione ad affondare la lama nella ferita sanguinante del nemico. Nessuna vergogna, come predica il suo tecnico, a stare stretti, con la massima attenzione alla fase difensiva, nei momenti in cui la partita lo richiedeva. Insomma, una squadra europea, che sa di non trovarsi casualmente nella contesa più ambita dalle grandi del calcio ed ha voglia di scrollarsi di dosso, per sempre, quella scia di provincialismo che, in questi anni di dominio italiano, ha reso le campagne continentali il luogo del quasi e del vorrei ma non posso.

Quello che i nostri occhi hanno visto la scorsa settimana attende, domani sera al Camp Nou, la conferma definitiva. Perchè, come ben detto ieri da Davide Rovati, andare a mostrare le stesse caratteristiche nella gigantesca tana del nemico trasformerebbe l’esperienza di chi c’era martedì: dallo stupore davanti a un fatto straordinario alla testimonianza oculare di un nuovo inizio, un punto di non ritorno.

Peccato che mentre la squadra, in tutte le sue componenti, è chiamata a confermare questa evoluzione, il tifoso bianconero medio, nel guardare la Champions, non si scrolla di dosso quell’atteggiamento che in Italia è proprio di altre tifoserie e che spesso additiamo come la principale ragione dei loro fallimenti e delle nostre vittorie. Ieri, appena diffusa la notizia della designazione di Kuipers, sono iniziate le lamentele preventive, verso un arbitro che (scopro adesso) in passato ha espulso tre nostri giocatori, che sarebbe molto sensibile ai condizionamenti casalinghi… fino alle invettive sui massimi sistemi di un Uefa che continua affidare le designazioni al nemico storico Collina.

Auguriamoci che la squadra sia immune da certe chiacchiere e continui a concentrarsi su se stessa. Sono certo che Allegri non avrà speso una sola parola, negli spogliatoi sui fattori esterni o arbitrali, se non per richiamare a certe attenzioni che non vanno perse di vista, come quella di evitare trattenute in area mal tollerate in Champions, che in Italia invece non vengono mai punite. Dopo un 3-0 soltanto una prestazione pessima potrebbe portarci all’eliminazione, perfino se ad arbitrare fosse Guido Rossi coadiuvato dai guardalinee Auricchio e Narducci. Non è la partita (ammesso che ce ne sia una) della lamentela preventiva o delle scaramanzie. Per meritarci questa squadra dobbiamo cercare di fare il suo stesso upgrade, non ha alcun senso concentrarsi su altro che su quanto la Juventus sarà in grado di mostrare ai centomila del Camp Nou e al mondo collegato in diretta TV.

Una suggestione, per finire. Luca Momblano da mesi ripete che i novanta milioni spesi per Higuain sono direttamente proporzionali ai novanta gol (più bonus), in tre anni, che la Juventus gli chiede. Ne manca uno per completare i trenta della prima stagione. E’ legittimo augurarsi che questo trentesimo sia iconico, da ricordare. E lo è altrettanto sperare che i bonus non siano i gol dal quarto anno in poi, ma quelli che potrà mettere a segno nei turni successivi di questa coppa. Dipende da lui. Dipende da noi.

Le 5 cose da non fare al Camp Nou

C’è modo e modo di affrontare le proprie paure e i propri demoni interiori. Con il giusto rispetto verso qualcosa che sembra più grande di noi, ma con la convinzione che non esiste niente che non possa essere fatto con il giusto spirito, la giusta determinazione, la giusta voglia di prendersi qualcosa che potrebbe passare “una notte e forse mai più” (cit.). Il Camp Nou è la perfetta metafora di tutto ciò che ci spaventa. Nel calcio certamente, nella vita probabilmente. Ed è arrivato il momento di affrontarlo. Provando ad evitare alcune cose:

1 – Peccare di hybris: cito da Wikipedia: «tema ricorrente della tragedia greca e della letteratura greca, presente anche nella Poetica di Aristotele. Significa letteralmente “tracotanza”, “eccesso”, “superbia”, “orgoglio” o “prevaricazione”. Si riferisce in generale a un’azione ingiusta o empia avvenuta nel passato, che produce conseguenze negative su persone ed eventi del presente. È un antefatto che vale come causa a monte che condurrà alla catastrofe della tragedia». Il Barcellona merita rispetto, cautela, prudenza. Hanno scritto la storia del calcio, hanno dimostrato di poter dare forma all’impossibile. Niente ci è stato ancora dato, tutto è ancora da conquistare: il 3-0 dell’andata avrà un significato solo in funzione di un risultato positivo alla fine. Con il fuoco non si scherza e questi sono capaci di accendersi in un nulla: starà a noi spegnerne le velleità di remuntada;

2 – Avere paura: questo, però, non vuol dire cominciare a crearsi ansie e paranoie inutili. Il Dio Re può sanguinare, Ivan Drago è un uomo e il Barcellona può essere eliminato. Ma solo se si accetta lo scontro senza remore, senza indietreggiare di un millimetro, provando a rispondere colpo su colpo, cacciando via sette giorni (e tante altre notti europee) di cattivi pensieri. Lasciare tutto sul campo per non avere rimpianti, poi vada come deve andare. Avere paura è normale (io, per esempio, ne ho tanta), farsi sopraffare da essa no: dominiamola e niente ci sarà precluso;

3 – Guardare il cronometro: saranno i cento minuti più lunghi della nostra vita. Inutile sperare che passino normalmente, tanto più che il tempo è l’unità di misura più relativa che ci sia. Per noi che guarderemo e per loro che giocheranno. Ma più saremo in grado di giocarcela alla pare più in fretta arriverà il triplice fischio. Questione di mentalità: il tempo lo si sfrutta non lo si subisce;

4 – Pensare all’arbitro: l’anno scorso, a Monaco, nonostante qualche errore di troppo di Eriksson, siamo arrivati ad uno “spazzalaaaaaaa!” dall’eliminare il Bayern di Guardiola. Che sia Kuipers o un altro ad arbitrare al Camp Nou a noi deve interessare relativamente: conta solo ciò che faranno i nostri 11, i tre sostituti, l’allenatore in panchina. Siamo noi, e nessun altro, gli artefici del nostro destino;

5 – Snaturarsi: Johan Cruijff, l’uomo che ha prima pensato e poi costruito il Barca per come lo conosciamo oggi, da allenatore dei blaugrana era solito ripetere: «se devo andare a fondo, lo faccio con il mio sistema». Ed è lo stesso principio che dovrà ispirare Allegri e i suoi ragazzi: difendersi a oltranza, arroccandosi nella nostra trequarti e aspettando che passi la tempesta, è inutile. Giocare al massimo delle possibilità offerte dal “nuovo” 4-2-3-1 è un dovere e una forma di rispetto verso se stessi e quel che si è diventati con sudore, fatica e sacrificio. Abbiamo scelto una strada, percorriamola fino in fondo: quello che ci aspetterà alla fine lo dirà il campo. Come al solito. Come sempre.