Tra il Milan e la Roma accolte allo Juventus Stadium ci sono in mezzo due mesi, feste incluse. Sessanta giorni che equivalgono a un semicerchio, dal punto A al punto B seguendo una parabola perfetta, atterrando sullo stesso asse. Sempre 1-0, sempre Paulo Dybala da sinistra verso destra. Non a caso la prima volta rabbioso e tagliente, quasi a occhi chiusi sulla corsa per la sua primissima volta da mattatore assoluto in una partita di quelle che vengono anche viste al di là delle Alpi; la seconda con chi ormai il terreno di casa inizia a conoscerlo mattonella per mattonella. Quindi con controllo in corsa guardando solo di sfuggita il pallone e poi l’esatta direzione del diagonale velenoso tipico di quei campioncini là che i tifosi bianconeri ricordano bene. O meglio, li ricordano ogni qual volta ne arriva uno successivo e sforna qualcosa del genere, simile ma mai identico. Nel caso di Dybala più lontano e più sospeso nel tempo vista la naturalezza mancina che nei tempi più recenti era stata quasi soltanto dinamite (da Ravanelli a Nedved, per citarne due).
Il punto A va ricordato, e non tanto per il risultato che è sempre meno perfetto di ciò che ci vogliano far credere. Il punto A era una Juventus dentro o fuori, soprattutto psicologicamente, contro un’avversaria messa appena peggio secondo la matematica ma molto peggio a livello strutturale e ambientale. Si vince, si scavalca il Milan, ci si assesta al sesto posto. In principio aveva suonato la Marsigliese, qui ci si è limitati all’orgoglioso saluto a Gianni Agnelli. Qui, a ridosso del punto B, in ballo c’era il consolidamento sulla scia del Napoli, ancora nella sua veste di lepre ovvero di contro favorita fin che i punti rimarranno dentro il valore di una singola partita (cioè meno di 4). A novembre fu l’ultimo istinto di Allegri con il modulo che sarebbe il suo ma che non è per vari fattori concomitanti quello della Juventus. Il 4-3-1-2 s’infrange in un solo tempo, Hernanes pare si sia fatto male e qualsiasi sia la verità il dato è che in campo dopo il riposo ci va Bonucci. 3-5-2, Cerci non ha neppure più modo di fare scelte scriteriate, la cintura delle certezze bianconere trova logicamente il buco e tutto quadra. Il risultato è il risultato di una cosa che sta in mezzo tra scelte, necessità (vedi infortunio di Evra nel primo tempo), improvvisazione (vedi il tempo di gioco di Pogba in occasione dell’imbucata che porta al gol partita).
Il problema oggettivo era un altro, due mesi or sono, ed è esattamente la discriminante con cui si è vista e vissuta (e vinta) la gara contro la Roma (squinternata quanto quel Milan, ma in parte rimodellata e rimotivata, un’incognita in più da affrontare): quella Juve, quella del trequartista sbagliato e dei sacrifici e delle rincorse in difesa, non aveva ancora le idee chiare. E senza le idee, geniali o elementari, rivoluzionarie o reazionarie, complesse o lineari, si è un Inter qualsiasi. Contro la Roma ci si è dovuti anche annoiare, per capirlo. Per tornare a sensazioni che facevano parte del passato ma che detengono il profondo sapore del ritrovato consolidamento. Non che questo scenda in campo, non che serva per assicurarsi maggiori chance contro il Bayern Monaco di turno, non che questo assicuri che con il Napoli sarà vittoria in allungo. Però si tratta esattamente di ciò che serve per presentarsi di fronte all’idea di un nuovo salto di livello. Ovvero proseguire con mano ferma la seconda parte del semicerchio. E, magari, finirà tutto, ancora, con un 1-0 gol di Dybala…