L’applauso con cui l’Allianz Stadium ha accompagnato la prodezza di uno dei due calciatori più forti di tutti i tempi (e non ci sono anni ’80, Mondiali da vincere più o meno da soli, narrative nostalmagiche e difensori arcigni che tengano: prima loro due, poi tutti gli altri. Al massimo si può disquisire sulla distanza), pareggiando il tributo che il Bernabeu riservò ad Alessandro Del Piero ormai dieci anni fa, si porta dietro tutta una serie di considerazioni che rappresentano perfettamente le contraddizioni di una squadra riconoscibile tanto nei pregi quanto nei difetti. Tralasciando, per un attimo, quel misto di impotenza ed ineluttabilità (nel senso che non è più questione di “se” ma di “quando” arriverà la giocata decisiva) che prende chiunque si trovi a fronteggiare i due mostri sacri, infatti, quella spontanea, bellissima e per nulla scontata manifestazione di sportività ha rappresentato tutto ciò che la Juventus è stata in questa stagione: come se, all’improvviso e per un breve istante, fossimo tutti, finalmente, alla stessa pagina del libro (il cui finale nella lingua madre è ancora tutta da scrivere: per i dialetti europei toccherà forse aspettare che Father Time faccia il suo corso contro il duopolio argentino-potoghese), dopo mesi passati a battibeccare di carri, patenti di tifo, allegrismi e guardiolismi, dicotomie tra gioco e risultati varie ed eventuali. Una presa di coscienza collettiva dalla quale ripartire quando si tratterà di (ri)costruire al termine di questo ciclo irripetibile.
La Juventus 2017/2018 è questa. Inutile pensare che potesse fare di più, almeno sul piano della prestazione e al netto dei due grossolani errori che sono costati le due zampate di CR7. Anzi per 60′ ho visto una squadra che ha giocato finalmente a calcio (o ha provato a farlo) attraverso un’idea di collettivo e non in attesa passiva del colpo risolutore del singolo (che avrebbe rappresentato comunque una sorta di paradosso al cospetto del singolo più decisivo di tutti). E non sono d’accordo con chi dice che il rovescio sia arrivato proprio per la pretesa di giocarcela a viso aperto: Allegri ha schierato un undici molto equilibrato nella doppia fase che ha pagato carissimo due disattenzioni che normalmente non gli appartengono. Poi l’espulsione di Dybala (che per chi scrive ha disputato una buona partita, ma il dibattito sulla sua effettiva caratura ora che va per i 25 è ciò che Honoré de Balzac avrebbe definito “altra materia da romanzo”) e il prevedibile crollo psicologico hanno contribuito a dare alla sconfitta proporzioni ampie e non del tutto meritate.
Nel contempo, però, non bisogna derubricare tutto alla casualità di una serie di episodi che girano bene o male: dopo mesi di navigazione a vista, passati a nascondere sotto il tappeto dei risultati la polvere di un modo di interpretare le partite non adatto all’effettiva quantità di talento presente in rosa (non si tratta di giocare bene, ma di giocare sfruttando le nostre effettive potenzialità), era quasi inevitabile andasse a finire così. E va bene, ci sono Ronaldo e Messi e quindi si parte quasi sempre 1-0 (o 2-0) per gli altri, ma l’idea di fondo sarebbe quella di aspirare a batterle queste squadre, senza dover aspettare per forza la congiunzione astrale ideale o l’annata di overperforming spinto: invece è come se accettassimo (io per primo, soprattutto in virtù del fatto che l’obiettivo stagionale in Europa – che sarà sempre nelle corde di questa e delle Juventus del futuro a medio termine – era stato già raggiunto) in partenza l’idea che essere al cospetto del Real Madrid o del Barcellona sia già un successo e che tutto ciò che venga in più di un ko dalle proporzioni contenute sia un premio che trascende le nostre capacità e i nostri meriti, anche le volte in cui il Real Madrid o il Barcellona hanno dovuto chinare la testa al nostro cospetto (poi in finale abbiamo incontrato gli altri e come è finita lo sappiamo, ma insomma) nel doppio confronto.
Per questo quell’applauso, alla lunga, mi ha fatto male: magari sbagliando, l’ho visto passare da giusto tributo per una leggenda senza tempo, ad una sorta di dichiarazione di resa incondizionata sperando che, da lì in avanti, lui e i suoi degni compari non ci avessero fatto troppo male. Quando, invece, anche noi avremmo potuto fare male, se non altro perché avevamo già dimostrato di poterlo fare e nemmeno molto tempo fa (e, in tal senso, non posso che concordare con Alex Campanelli quando scrive di passo indietro rispetto a quanto fatto l’anno scorso contro i blaugrana).
Questioni filosofiche? Può darsi, soprattutto alla luce di una realtà che parla di uno squilibrio economico non colmabile nel medio-lungo periodo e di tante altre considerazioni che abbiamo già fatto e che continueremo a fare. Ma, prima o poi, toccherà fare i conti con il risultato della contrapposizione tra ciò che vorremmo essere e ciò che siamo effettivamente, iniziando a pensare che quel divario deve essere colmato in qualche modo e che quel modo possa passare da una rivisitazione delle nostre tradizioni e dall’accettazione dell’idea che bisogna iniziare a giocare a calcio (o, almeno, un certo tipo di calcio: equilibrato, propositivo, magari ripartendo dalle buone indicazioni di ieri), arrivando con il collettivo dove non è possibile arrivare con le individualità che non abbiamo. QUEL tipo di individualità.
Abbiamo provato a modo nostro, ci siamo andati vicino ma non è bastato: battere altre strade, senza agitare il sempiterno spauracchio del “ti ricordi Maifredi?”, è un tentativo doveroso sulla strada della ricerca di una nuova occasione che la Juventus merita. Ci vorrà tempo, pazienza, magari qualche scudetto sacrificato qua e là, ma si può fare e possiamo farlo: bisogna, però, volerlo. Altrimenti tanto vale rassegnarsi sin d’ora a tributare altre standing ovation, giuste e meritate, al Cristiano Ronaldo o al Messi di turno, salvo poi gridare al miracolo quando riusciremo a tirarli fuori (è già capitato e potrebbe tranquillamente ricapitare), facendo un passo avanti e due indietro nella costruzione di quella dimensione che ci vorrebbe alla pari con certe realtà. E a quel punto comincerei a chiedermi che senso abbia giocare la Champions League.
Claudio Pellecchia