«Io, unico colpevole di Calciopoli». Intervista a Massimo De Santis

Quella che qui viene proposta è la versione integrale di un’intervista a Massimo De Santis, ex arbitro di serie A e unico condannato del processo di Calciopoli (essendo stato il solo a rinunciare alla prescrizione), apparsa il 19 dicembre 2015 sul quotidiano “Libero” in forma notevolmente ridotta per ragioni di spazio. Riteniamo sia un documento prezioso per tutti coloro che, mettendo da parte le ragioni (e soprattutto le irrazionalità) del tifo calcistico, sono ancora interessati a saperne di più sul maggiore scandalo del calcio italiano e i suoi molti lati rimasti oscuri.
G.P.

«Io, unico colpevole di Calciopoli». Intervista a Massimo De Santis

di Giuseppe Pollicelli

Lo scorso 24 marzo la Corte di Cassazione ha stabilito che la poderosa «cupola» che avrebbe deciso (o quantomeno tentato di decidere) in modo fraudolento le sorti della stagione 2004-2005 del massimo campionato di calcio italiano era in realtà una cupoletta, formata da una manciata di promotori (in primis gli ex dirigenti juventini Antonio Giraudo e Luciano Moggi) e da appena un paio di «partecipi», gli ex arbitri Racalbuto e De Santis. Di fatto, però, lo scandalo che, coinvolgendo dapprima la giustizia sportiva e poi anche quella ordinaria, ha tenuto banco per ben nove anni (dal maggio del 2006) e che è tuttora frequente argomento di conversazione e di litigi tra i tifosi italiani, ha un unico colpevole: il già citato Massimo De Santis. Il solo che, a differenza di Giraudo, Moggi, Racalbuto e dell’ex designatore Pairetto (l’altro designatore, Bergamo, è stato ritenuto non giudicabile per difetto di giurisdizione), non abbia usufruito della prescrizione. La prima cosa che viene naturale chiedere a De Santis, nato a Tivoli 53 anni fa e oggi impegnato in varie attività lavorative, è se non si sia pentito di averla rifiutata, la prescrizione. «Non ho nessun rammarico», dice, e sembra sincero, «perché è una scelta coerente con quello che è sempre stato il mio atteggiamento nel corso del processo. Poi, voglio dire, mi hanno condannato a un anno con pena sospesa. Per associazione a delinquere. Strano, no?».

Strano nel senso che è una pena lieve?

«Mi dica lei: più lieve di così? È come se mi avessero detto: ti dovremmo assolvere ma non possiamo, o non vogliamo, quindi ti affibbiamo il minimo che possiamo darti. In realtà, rifiutando la prescrizione, li ho messi in crisi».

Perché?

«Perché li ho obbligati a prendere una decisione. Spesso la prescrizione è il rifugio del giudice, e io questo rifugio gliel’ho negato. Sarebbe stata una bella cosa se anche gli altri imputati si fossero comportati nello stesso modo».

Dopo questa esperienza ha perso fiducia nella giustizia italiana?

«Non l’ho persa solo io, ma tutti quelli che questo processo lo hanno seguito con un minimo di attenzione. Credo che Calciopoli abbia instillato nei tifosi solo dubbi e zero certezze. E io ho capito che, quando si resta coinvolti nelle maglie della giustizia, può succedere di imbattersi in magistrati che, più che sui fatti e sui riscontri, si basano sugli umori dell’opinione pubblica e su una presunta “volontà popolare”. E quello che è capitato a me. Però vado avanti: ormai la Cassazione non è più l’ultimo grado di giudizio, c’è la Corte di giustizia europea».

Che ricordo ha dei momenti immediatamente successivi allo scoppio dello scandalo?

«Un inferno. Per i primi tre o quattro mesi sono stato frastornato, quasi con il timore di uscire di casa. Anche perché, forse se lo ricorda, per un pezzo non si è parlato d’altro. Erano i giorni dell’elezione di Napolitano alla presidenza della Repubblica e questa notizia, sui giornali, veniva dopo Calciopoli. Ma ho reagito presto, quasi subito».

Come?

«Con il mio avvocato, Paolo Gallinelli, ho deciso una linea di condotta a cui poi mi sono sempre attenuto. Anziché nascondersi e deprimersi, metterci la faccia: partecipare ai programmi televisivi, parlare, spiegare le mie ragioni. Sono andato a “Matrix”, da Enrico Mentana, prima ancora che uscissero le carte».

È stato aiutato dalla fede, come Moggi?

«Sono molto credente e la cosa certamente è stata un conforto».

Com’è nata Calciopoli?

«Penso sia il risultato della convergenza di situazioni diverse».

Cioè?

«Nel 2002 un arbitro di seconda fascia, Danilo Nucini, in ottimi rapporti (come del resto lo ero io) con l’allora presidente dell’Inter, Giacinto Facchetti, racconta a quest’ultimo che esisterebbe un sodalizio, pilotato da Moggi, che si avvale di alcuni direttori di gara – tra cui me – attraverso cui condiziona le partite, essenzialmente a favore della Juve. Di lì a poco comincio a essere spiato illegalmente».

Da chi?

«Da Giuliano Tavaroli, un ex carabiniere all’epoca responsabile della security di Telecom e Pirelli, il quale fa aprire il cosiddetto “Dossier ladroni” e incarica l’investigatore privato Emanuele Cipriani di seguire i miei spostamenti e scrutare i miei conti. Non troverà nulla. Oltre a me, vengono spiati e intercettati Moggi, Giraudo e il patron della Reggina Lillo Foti. Cipriani, nell’ambito del processo Telecom, ha detto testualmente: “Il Dossier ladroni mi fu commissionato da Massimo Moratti e poi lo gestii con Giacinto Facchetti”».

Come entra nella vicenda la Procura di Napoli?

«Nel 2004, nell’ambito di un’inchiesta che verteva in quel momento sul calcio-scommesse e nel cui contesto fu ascoltato anche il presidente del Venezia Franco Dal Cin (che coniò la famigerata espressione “combriccola romana”), i pm napoletani Giuseppe Narducci e Filippo Beatrice dispongono delle intercettazioni di cui si occupa materialmente il nucleo investigativo dei carabinieri di Roma, coordinato dal colonnello Attilio Auricchio. A quel punto l’inchiesta si allarga alla Gea e inizia a concentrarsi sulla figura di Luciano Moggi, trasformandosi in Calciopoli. C’è da dire che a capo del CNAG, il Centro Nazionale Autorizzazioni Giudiziarie della Telecom che provvede a deviare le utenze sulla linea diretta della Procura di turno, c’era sempre lui, Luciano Tavaroli, il quale era quindi era al corrente delle indagini che i pm partenopei stavano conducendo. In seguito Tavaroli ha rivelato ai magistrati che lui riferiva tutto ciò che veniva a sapere a Carlo Buora, amministratore delegato della Telecom e, guarda caso, vicepresidente dell’Inter. Così come del cda dell’Inter faceva parte Marco Tronchetti Provera, allora azionista di riferimento della Telecom tramite la Pirelli, sponsor dei nerazzurri».

Del cda interista aveva fatto parte anche Guido Rossi, in seguito commissario straordinario della Figc e principale responsabile dell’assegnazione all’Inter, tramite un comitato di saggi da lui nominato, del cosiddetto «scudetto di cartone».

«Esattamente».

La sua richiesta all’Inter di 21 milioni di euro di risarcimento è stata rigettata.

«Sì, perché Cipriani, pagato con 50.000 euro per il confezionamento del “Dossier ladroni”, emise due fatture non a carico dell’Inter bensì della Pirelli. E questo, secondo i giudici, non consente di essere certi di un diretto coinvolgimento della società nerazzurra».

Anche Tavaroli aveva detto di essere stato incaricato da una società calcistica.

«Queste dichiarazioni sono state ritenute di scarsa rilevanza probatoria. Posso aggiungere una cosa?».

Prego.

«Il 27 maggio 2010, a Roma, è stato presentato un libro sui mondiali argentini del 1978. Tra i relatori c’era il pm Narducci, autore della prefazione, e tra il pubblico Massimo Moratti e Attilio Auricchio. Alla fine dell’incontro, i tre se ne sono andati via insieme. C’è un video su YouTube che documenta tutto».

Narducci, durante il processo, disse: «Piaccia o non piaccia agli imputati, non ci sono telefonate tra Bergamo o Pairetto con il signor Moratti».

«Invece c’erano. E parecchie. Così come ce n’erano molte di Facchetti, tra cui almeno una anche con me. Lo abbiamo appurato acquisendo, assieme alla difesa di Moggi, i cd con tutte le intercettazioni, e sobbarcandoci un lavoro massacrante di trascrizione».

Perché Narducci ha mentito?

«Bisogna chiederlo a lui».

Ritiene che nello svolgimento e negli esiti di questo processo, per quanto si faccia fatica a pensarlo, possa avere giocato un ruolo anche il tifo calcistico?

«Che le aspettative prevalenti nella pubblica opinione abbiano influenzato le decisioni dei giudici non mi sento di escluderlo. La mediatizzazione della giustizia è d’altronde uno dei problemi dell’epoca contemporanea».

Lecce-Parma, match dell’ultima giornata del campionato 2004-2005, è l’unico per il quale lei sia stato condannato dalla giustizia ordinaria assieme a Fiorentina-Bologna del 5 dicembre 2004. Come mai non ci sono partite che coinvolgono la Juventus?

«È uno dei tanti misteri di questo processo. Tra l’altro io sono l’arbitro con cui la Juve, in quel campionato, totalizzò il minor numero di punti: due vittorie, un pareggio e due sconfitte».

Prima di Lecce-Parma, partita decisiva per stabilire chi retrocederà in B, lei parla con Bergamo e dice cose che suonano equivoche: «Sì, agli assistenti ho spiegato un po’ le cose, velatamente, insomma gli ho fatto capire che poi intanto gliela do io l’impostazione. Da quello che ho sentito dalle interviste, loro giocano. Il Lecce vuole giocare per vincere, il Parma pure gioca a vincere, quindi a ’sto punto facciamo la partita, ci mettiamo in mezzo».

«Volevo semplicemente dire che, avendo raccolto voci secondo cui sarebbe stata una partita vera, avrei arbitrato sul serio, cioè mi sarei “messo in mezzo” per evitare che eventuali tensioni in campo degenerassero».

Quella partita tanto vera non fu. A un certo punto Zeman, che allenava il Lecce, per protesta voltò le spalle al terreno di gioco.

«Una volta in campo, a parte un inizio scoppiettante, le squadre giocarono palesemente a non farsi male».

E così oltre al Lecce e al Parma si salvò la Fiorentina di Della Valle.

«Il pareggio tra Lecce e Parma, di per sé, non garantiva affatto la salvezza della Fiorentina. Il Parma peraltro dovette fare lo spareggio col Bologna, e vinse per 2-0».

Al termine di quell’incontro, Innocenzo Mazzini, allora vicepresidente della Figc e anch’egli prescritto nel processo penale, telefona a Sandro Mencucci, direttore sportivo della Fiorentina, e gli dice: «I cavalli boni vengono sempre fori. Le nostre pedine funzionano sempre, l’operazione chirurgica è stata perfetta. Lo sapranno in dieci di questo capolavoro ma me ne importa una sega, nel calcio vero conta sempre su di me».

«Un grande millantatore. Diceva a tutti quello che volevano sentirsi raccontare. In fondo anche Bergamo e Pairetto, come tante telefonate comprovano, facevano lo stesso».

A causa di Calciopoli ha dovuto rinunciare ad arbitrare ai Mondiali del 2006.

«È uno dei miei rimpianti più grandi».

Chi erano i fischietti più bravi, quando lei arbitrava?

«Io e Collina. Ma era una grande generazione di arbitri, quella».

E oggi chi è il migliore? Rizzoli?

«Non ha una grandissima personalità, è emerso soprattutto grazie allo sconquasso provocato da Calciopoli. Per me il più bravo, attualmente, è Orsato».

Si è mai emozionato arbitrando un incontro importante?

«Emozionarmi nel senso della paura no, sono uno che sa mantenere la calma. Ma le sensazioni più belle lasciatemi dal calcio, in effetti, sono quelle provate entrando in stadi come San Siro o l’Anfield Road, e avendo accanto a me alcuni tra i giocatori più forti di tutti i tempi».

Tifa per qualche squadra?

«Non più, ho smesso quando sono diventato un arbitro professionista. Ora mi piace guardare le belle partite, infatti seguo soprattutto il calcio estero, in particolare Inghilterra e Spagna».

E qual è la squadra per cui teneva?

«L’Inter».

Se incontrasse Moratti che gli direbbe?

«Moratti sa benissimo che rapporti avevamo e come mi comportavo quando mi veniva a trovare negli spogliatoi. Sono convinto che, nel profondo della sua coscienza, sia consapevole di come stanno realmente le cose».