di Marco Caneschi
Ho dei ricordi sbiaditi del prima. Ho dei ricordi nitidissimi del dopo. Per me il prima e il dopo della vita si possono tarare su una data: 24 aprile 1977, la prima volta che ho visto la Juve dal vivo. E di questo ringrazierò per sempre mio padre.
Non era un anno qualsiasi: fu l’anno di uno scudetto straordinario vinto in volata contro il Torino, 51 punti contro 50 quando, è bene ricordarlo, il massimo erano 60, e della prima coppa europea della nostra storia vinta in una doppia finale contro l’Athletic Bilbao: la Coppa Uefa.
A Perugia finì 1 a 1, segnarono Causio e Vannini. Ero un bambino al settimo cielo, ammiravo i miei campioni con i quali già da anni intrattenevo un dialogo intimo. Ma avevo bisogno di un’esperienza adrenalinica sulla pelle.
Da quel giorno convivo con questa squadra che è anche l’autentico romanzo popolare dell’Italia. Ci ho convissuto tramite mio padre e una radiolina che serviva a sintonizzarmi ogni domenica a Tutto il calcio minuto per minuto. Ci ha convissuto seguendo l’evoluzione delle partite in tv, dalla sintesi delle 19 su Rai 1 a Telecapodistria – sì, ci vidi un quarto di finale di Coppa dei Campioni, Ajax-Juventus il primo marzo 1978 e sembra di parlare di preistoria e in effetti lo è – dalla Tele + dei primi anni Novanta, che ancora era roba da bar e circoli, alle odierne Sky e Premium già più parcellizzate davanti ai divani domestici.
Con la Juventus ci convivo ancora come un bambino diventato adulto e che prova a restare bambino. Nel corso degli anni ho provato una cosa grazie alla Juventus: la felicità. Sembra pazzesco dirlo, vero? Voi intanto nascondete a mia moglie queste frasi che io provo a spiegarmi. La felicità: la cita persino la costituzione americana come diritto inalienabile dell’uomo. E visto che uomo sono pure io, un pizzico la pretendo. A mio modestissimo avviso, la felicità è quella sensazione di stomaco libero che ti permette di buttarti alle spalle ogni timore o preoccupazione quotidiana. La felicità è qualcosa di spicciolo, non dura mica una vita, bisogna accontentarsi. E io riesco a gettare ogni cosa dietro, per un tempo che varia dalle due alle tre ore, al fischio finale di una partita in cui la Juve ha vinto. Tale legge ha ovviamente un risvolto molto negativo quando, in caso di sconfitta, la pesantezza dell’esistenza ti sembra raggiungere livelli esagerati.
Il 7 gennaio 1979 a Firenze vidi poi la Juventus vincere 1 a 0 contro la Fiorentina. Segnò il grande Gaetano Scirea. Per tutta la partita io e mio padre restammo zitti e intirizziti dal freddo, ma dopo la prodezza di Scirea ci alzammo gridando: goal! Pensavo di essere l’unico matto a farlo e invece intorno a me c’erano un mucchio di persone esultanti. Sparsi qua e là, in quella maratona sedevano un sacco di juventini. Mi fu chiaro che la Juventus non era solo un fatto familiare ma qualcosa che potevo toccare e vedere oltre le mura domestiche e che i fratelli bianconeri erano sparsi ovunque. Come te, pronti a soffrire ed esultare. Ed essere felici.
Ora che sono passato dall’altra parte della barricata, cioè sono diventato padre, ho pensato a un ipotetico padre che vuole trasmettere alla sua bambina un motivo di felicità nella vita. E le scrive una lettera, intrattenendo anche un dialogo con la sua generazione. Quando si tratta di parlare ai figli, un adulto deve utilizzare un vocabolario per loro comprensibile e il vocabolario non può che essere quello del gioco. In questo caso il calcio. E del calcio l’espressione più gloriosa. Esagero? Forse. In ogni caso solo la Juventus nei decenni è riuscita forgiare dei miti: quando ancora oggi una squadra segna un goal all’ultimo minuto, si usa l’espressione in zona Cesarini. Ma chi era Renato Cesarini se non un fuoriclasse della Juventus degli anni Trenta, quella che per la prima volta è entrata nella storia con 5 scudetti consecutivi? E ancora: nelle bustine che raccolgono le figurine Panini campeggia l’immagine di una rovesciata effettuata in una partita del 1950. Il giornalista che vi assistette la definì: un volo in cielo. Quel volo in cielo è di un grandissimo stopper, guarda caso, bianconero: Carlo Parola. La bustina Panini è stata nei decenni accompagnata da didascalie in greco, cirillico, arabo e giapponese e il calcio, grazie allo juventino Carlo Parola, ha attraversato il pianeta diffondendo un’immagina sana del nostro gioco più bello, un’immagina sana dell’Italia, in oltre 200 milioni di copie. Questa è la Juve.
La lettera è diventata un libro che s’intitola La Juventus spiegata a mia figlia e mercoledì 22 giugno alle 20 sono al Parco della Tesoriera, in Corso Francia a Torino, a presentarlo con Darwin Pastorin e Giuseppe Furino. Sono incontri a cura della Libreria Gulliver nell’ambito dell’EvergreenFest.
Questo libro mi hanno chiamato un po’ in giro a presentarlo, club, librerie, festival, ma se devo ricordare un aneddoto… ero a Tricase, in Salento, e si avvicina un tizio che mi fa: “io sono un ex carcerato, un ex tossicodipendente ma solo di una cosa non sono ex: bianconero”. E mi recita una poesia di cui non ricordo una rima. Però il tizio me lo ricordo. Perché ha ragione. Fra tantissimi anni, quando saremo vecchi, penseremo anche noi alle tante cose di cui possiamo dirci ex. Ex studenti, ex fidanzati di quella ragazza, ex dipendenti – ci manderanno prima o poi in pensione, santa pazienza – ex giornalisti, ex iscritti a quella o a quell’altra associazione. Ma sono sicuro che solo di una cosa non saremo ex: juventini.
Grazie dell’ospitalità e un saluto a Luca Momblano e a Massimo Zampini, che vedo passare su queste colonne e che è stato una valida spalla durante la presentazione a Roma del suddetto libro. Sembrava Leonida alle Termopili.