La Juventus e la scienza perduta della Champions

Mario Sconcerti in un articolo del 12 Aprile del 2007 apparso sul Corriere della Sera scriveva: “La continuità che serve per stare dentro l’Europa non è quella quotidiana del campionato, l’arroganza della forza e delle differenze evidenti. Serve il freddo del Milan, quella sua ragnatela silenziosa che porta la trappola addosso alla preda. Serve sapere le cose che accadranno. Forse, in una parola, serve la «scienza» della Champions. E in Italia questa scienza è ancora soltanto del Milan”. Si era all’indomani del trionfo del Milan a Monaco di Baviera contro il Bayern nella partita di ritorno di un quarto di finale che avrebbe inaugurato un mese e mezzo di calcio fantastico meritatamente ripagato dalla rivincita vittoriosa ad Atene contro il Liverpool di Rafa Benitez.

Non potevo allora essere spettatore imparziale di una simile impresa e non solo perché comprensibilmente dominato dall’occhio malevolo e invidioso del tifoso rivale. Non potevo esserne uno spettatore imparziale perché davanti a me si dispiegava in tutta la sua evidenza sconcertante il mistero della Champions. Nell’anno che ci vedeva in esilio, abbandonati da grandissimi campioni, e lontani da tutto, la squadra che dopo la nostra era stata maggiormente penalizzata da Calciopoli lasciava la condizione di reietta e vinceva la CL. Mi divenne chiaro che il Milan era il destinatario di un’elezione benevola.

A una esatta distanza di dieci anni, mi trovo in una situazione particolare. Sono atterrito da questo quarto di finale che si avvicina con le fattezze di un possibile incubo. La paura sembra prevalere sulla speranza (diversamente da quanto auspicato da Allegri), mentre l’ottimismo circa l’approdo alle semifinali mi s’impone come un lusso emotivo che non mi posso permettere. Martedì sera forse non sarò in grado di vedere la partita: non sono più nelle condizioni di sopportare il modo in cui il tempo si comporta durante sfide di questo livello, con le sue dilatazioni e contrazioni improvvise e imprevedibili. Scrisse una volta Carmelo Bene che la grandezza del calcio ha a che fare con il suo rapporto del tutto particolare con la categoria dell’evento. Il calcio ha questa capacità, far sì che allo spettatore accada qualcosa di significativo, segnarlo, ferirlo o esaltarlo, in ogni caso cambiarlo, renderlo nuovo a se stesso.

Non smette di impressionarmi il modo in cui il ricordo di certe sconfitte si è impresso nel mio cuore: il sostrato emotivo di quelle esperienze è vivo a distanza di tanti anni e questo dà la misura della potenza dell’incisione e della penetrazione (anche questo ha a che fare con la logica dell’evento). Qualcosa di oscuro si è sedimentato in me e ha a che fare con quella Fenice dalle grandi orecchie, apparentemente inarrivabile e proprio per questo sempre più agognata e ambita. Sarebbe un errore pensare che tutto questo sia solo un’increspatura emotiva di un fanatico quarantacinquenne rimasto infante, incapace di dominarsi e o relativizzare la contingenza calcistica. Non è così. Eupalla, la dea del calcio, cantata da Brera, capricciosa tessitrice di eventi, ha fatto di me un testimone, mio malgrado: il testimone di una maledizione, di qualcosa che trova la sua spiegazione solo a livello metafisico. Qui la metafisica, che accomuna in qualche modo la Juventus al Benfica dannato da Bela Guttmann, riguarda il modo in cui l’ordine naturale delle cose, dei pronostici e dei rapporti di forza è stato e viene ancor oggi perturbato.

Solo per fare qualche esempio: vogliamo credere che i due pareggi “contiani” in Danimarca (edizioni di CL 2012-13 e 2013-2014), rispettivamente contro Nordsjælland e Copenaghen, identici nel risultato (1-1), nell’andamento della partita e nella quantità smisurata e grottesca di palle gol create e non sfruttate, debbano la loro ratio al solo caso? Vogliamo illuderci che le tre diversamente maledette trasferte in Turchia contro il Galatasaray del 1998, 2003 (in campo neutro a Dortmund) e soprattutto 2013 non nascondano la trama di un gioco sadico, ordito e condotto da potenze ostili? O ancora: potrà il nostro provato cuore juventino sopportare che si venga eliminati da una squadra, il Barcellona, che era già praticamente scesa nello sheol o nell’Ade? Chi ha dato a Sergi Roberto, scoccanti gli ultimi secondi di un recupero infinito, il potere di fare la storia?

Possiamo credere quello che vogliamo, illuderci quanto vogliamo, ma la realtà, con la sua stravaganza al limite dell’inverosimile, rimane quello che è, indipendentemente da quello che crediamo o da quello che immaginiamo. Scriveva il grande poeta tedesco ottocentesco Friedrich Hölderlin che gli dèi sono fuggiti dalla scena del mondo. Io ho il sospetto che si siano rifugiati nelle quinte del grande teatro calcistico e che da lì dietro, ben nascosti, distribuiscano sorti e tessano destini.

Insomma, la domanda è: perché la Champions è diventata per me (e ne sono sicuro, non solo per me) così faticosa e gravosa?

Qui mi però mi si presenta qualcos’altro e mi accorgo che non si tratta più solo di Eupalla e delle sue capricciose sentenze. Improvvisamente mi rendo conto che incolpare gli dèi non serve a nulla. Sappiamo che la dea non ci ama e forse non ci amerà mai. Un mio caro amico di Torino sostiene che la colpa del suo furore è la coppa insanguinata. Io ne dubito: una dea non ha forse bisogno di ragioni (buone o cattive che siano) per dispensare favori e frapporre ostacoli. Meditando sull’arco temporale calcistico di cui sono stato osservatore (a partire dalla stagione 1982-83) mi rendo conto che, pur rimanendo Eupalla sempre la stessa, è successo qualcosa alla nostra squadra, qualcosa che ha cambiato il suo rapporto con le sfide continentali (non solo di CL). Più ci penso e più me ne stupisco ma al tempo stesso sempre più me ne convinco.

La Juventus a un certo punto, un punto nel tempo che coincide con una partita ben precisa (incredibile ma è così), ha perso confidenza con l’Europa, in particolare ha perso la scienza della Champions e da allora non l’ha più ritrovata (anche se forse è sulla strada giusta). Quando Dani Alves dice “La Juventus ha una squadra da Champions. Però da queste parti sono molto superstiziosi, quindi meglio dirlo a bassa voce…” non fa altro rilevare questo disagio, questo senso di ormai insuperabile malessere. Malessere che è diventato il mio e di tanti tifosi, malessere che ha reso per me veramente angoscioso il mese di maggio del 2015 (in attesa della finale di Berlino), malessere che Allegri ha cercato di esorcizzare affermando che sfide come quella con il Barcellona sono per la Juve la norma, non l’eccezione.

“La nostra coppa è cominciata in modo direi splendido, venti minuti bellissimi nella prima partita in casa, un grandissimo gol di Inzaghi, e poi … e poi è cambiata la coppa. Da lì in avanti noi abbiamo avuto un periodo, alcune partite in cui abbiamo spesso sofferto. Dobbiamo ammetterlo. Le abbiamo forse salvate alcune, proprio con il cuore, con la volontà, con la forza, ma certamente abbiamo trovato grosse grosse complicanze”.

Con queste parole Roberto Bettega descrive l’inizio della partita casalinga contro il Galatasaray, esordio dei bianconeri vice-campioni di Europa nell’edizione della CL del 1998-1999 terminata 2-2. Ricordo bene quella partita, ricordo la sua vigilia serena (come molte prima di questa e come poche dopo di essa, ben poche ce ne sarebbero state), serenità che veniva dalle entusiasmanti prove di forza del grande ciclo lippiano e non solo (ma su questo punto fra poco tornerò). Ricordo anche il senso di incredulo sgomento al gol del vantaggio turco e conservo ancora fortissima l’impressione di una incrinatura, come se qualcosa si fosse letteralmente spaccato, come quando radicalmente cambia qualcosa, arriva l’inverno e la confidenza e l’intimità, all’improvviso, vengono meno e non tornano più.

Nelle stesse parole di Bettega c’è l’evocazione misteriosa e profetica di qualcosa di più grande (“… e poi è cambiata la coppa … “), dalla portata ancora non chiara, ma incombente sulla squadra in modo inesorabile. Il mio punto è che la Juve ha perso la scienza della CL quella sera, dopo quei primi venti minuti “bellissimi”. E i dati sportivi d’archivio mi danno ragione. Vediamo.

Partiamo dalla stagione 1982-83 lasciando da parte la vittoria in Coppa Uefa del 1977 e la finale di Coppa Campioni persa contro l’Ajax del 1973. La Juve tra il 1982 e il 1998 ha giocato cinque finali di Coppa Campioni/Champions League (1982-83, 1984-85, 1995-96, 1996-97, 1997-98) vincendone 2 (1984-85 e 1995-96), tre finali di Coppa Uefa (1989-1990, 1992-93, 1994-95) vincendone 2 (1989-1990, 1992-93), una finale di Coppa delle Coppe (1983-84) vincendola. A questi numeri si aggiungano la semifinale della Coppa Coppe del 1990-91 (persa contro il Barcellona di Cruyff) e anche, per logica inerziale, quella di CL dell’anno fatidico 1998-99 (contro lo United di York e Cole). Certo Eupalla non ha mai smesso di imperversare elargendo amarezza se non disperazione: ad Atene contro l’Amburgo, nel ritorno dei quarti di finale di Coppa Campioni anno 1985-86 contro il Barcellona (sdoppiandosi in Steve Archibald e Marco Pacione), nell’ottavo di finale del 1986-87 contro il Real Madrid (con la mancata convalida a Madrid di un gol regolarissimo di Manfredonia) in parte nella partita di ritorno della suddetta semifinale di Coppa Coppe sempre contro il Barcellona, nella grandiosa semifinale di andata a Manchester, in cui per il rotto della cuffia Ryan Giggs acciuffò il pari a tempo abbondantemente scaduto.

Questi numeri dicono di una squadra, sì sempre vessata da forze ostili, ma al tempo stesso totalmente a suo agio nell’elemento europeo. L’arco di tempo da me ora descritto comprese due grandi “edizioni” della Vecchia Signora: quella di Trapattoni al suo principio e quella di Lippi alla fine. In mezzo si fecero sicuramente apprezzare la Juve di Zoff e quella del secondo ciclo trapattoniano.

Andiamo invece a vedere cosa ne è stato della Juve dopo quel fatidico 1998-99 e fino ad oggi (prescindendo dalla finale del 2003 e del 2015 come anche dalla semifinale di EL del 2014). Ed ecco salire il magone. Il purgatorio dell’Intertoto (beffa delle beffe: l’unica competizione europea vinta negli ultimi 17 anni!!), l’umiliante eliminazione contro il Celta Vigo nella Coppa Uefa dello stesso anno (1999-2000), l’eliminazione nel girone di qualificazione di CL nel 2000-2001, l’eliminazione nel secondo girone di qualificazione l’anno successivo, l’eliminazione agli ottavi di finale nella CL nel 2003-2004 (contro il Deportivo), l’eliminazione ai quarti nelle due annate successive (rispettivamente contro Liverpool e Arsenal), l’eliminazione agli ottavi contro il Chelsea nel 2008-2009, l’eliminazione nel girone di qualificazione nel 2009-2010 (conseguente retrocessione in El ed incredibile eliminazione contro il Fuhlam agli ottavi di finale), eliminazione ai quarti di CL contro il Bayern nel 2012-2013, eliminazione nel girone di qualificazione nel 2013-2014, eliminazione agli ottavi di CL di nuovo contro il Bayern nel 2015-16.

Non raccontiamoci storie: questo elenco è impietoso, e lo è tanto più perché questo secondo arco temporale ha visto cicli fantastici, come il secondo di Lippi, le armate di Capello di Conte e l’elegante e duttile compagine di Allegri. Ma il punto vero è che questo elenco è incompiutamente impietoso perché dà conto solo delle sconfitte. Vogliamo parlare delle vittorie piene di impaccio e di imbarazzo? O dei pareggi mortificanti? E più in generale, di quel modo di giocare strano, timido e spaventato, che tante volte ha caratterizzato l’approccio della Juve alle sfide europee (non solo di CL) e che speri sempre di non rivedere più e che invece sempre puntualmente ritorna ammutolendo e spegnendo ogni entusiasmo?

E qui, e qui … e qui è accaduto il fatale cortocircuito mentale. Ogni partita si è trasformata in un doppio gravosissimo impegno: dover sempre dimostrare di essere all’altezza di una competizione come la CL (quindi sempre sotto esame) e poi eventualmente vincere (perché il superamento del primo ostacolo è compatibile anche con la sconfitta, come accadde l’anno passato contro il Bayern). Ricordo bene quanto scrisse Emanuele Gamba su La Repubblica alla vigilia della partita di ritorno contro il Manchester a Torino (poi molto sfortunata e persa per 3 a 0) il 25 febbraio 2003: “[I]l confronto con il Manchester ha anche significati più ampi: la Juve, in pratica, sta cercando di capire se è finalmente tornata nell’ élite europea (corsivo mio), dalla quale fu di fatto esiliata proprio dai Red Devils, che tre anni fa vinsero 3-2 a Torino l’ ultima semifinale di Champions League disputata da un’ italiana”.

La Juve da quella fatidica (è proprio il caso di dirlo) partita contro il Galatasaray non ha mai smesso di cercare di capire “se è finalmente tornata nell’ élite europea”, oppure, che è dire la stessa cosa, se ha finalmente ritrovato la scienza della Champions. Ed è questo assillo che in questi diciotto anni le ha tolto la freddezza e la scioltezza di cui parlava Sconcerti a proposito del grande Milan di Ancelotti nell’articolo da cui siamo partiti. Non ho una ricetta per la partita o meglio via crucis di martedì. O forse si, ce l’ho. La Juve deve scendere in campo e affrontare il terribile avversario realmente disposta a dare tutto, al punto persino di rischiare di perdere il campionato, a sacrificare la certezza della gloria nazionale sull’altare della vertiginosa incertezza europea il cui unico arbitro è la dea. E qui forse abbiamo un indizio per intuire le ragioni (ammesso che ve ne siano) della sua ostilità nei confronti della Vecchia Signora: troppo razionale e conservativa per i suoi gusti arcaici e selvaggi.

di Michele Alessandrelli