Con una partita secca ci si è lasciati e con una secca ci si ritroverà. La partita più rara, più preziosa, più amata e sentita, più tesa e simbolica, che il calciofilo possa conoscere. La partita secca non è un’unità di misura ma è una cartina tornasole: conta quante ne vinci così come le vinci, perché il modo (e vale solo e soltanto per la partita secca) è capace di penetrare nella coscienza (e nella conoscenza) collettiva almeno quanto l’esito stesso.
Insomma, la partita secca è la misura della forza storica di una squadra. Una serie di partite secche sono il gradiente della dimensione immaginifica di quella squadra. E se il pubblico juventino riesce ancora a dividersi dopo sei scudetti consecutivi, tre double italiani tra campionato e coppa nazionale nonché di fatto una supremazia nei confini stupendamente rappresentata adesso anche dal livello europeo, è perché la partita secca lascia sempre un segno diverso. Magari ingiusto, ma tatuato sulla pelle. Nella gioia e nel dolore, nell’emozione e nella delusione, la partita secca è la partita che mai nessuno si stuferà di raccontare. Il pensiero, come lo sguardo sul marchio indelebile, ci batterà sempre dentro. Renderà orgogliosi, nervosi, fatalisti, categorici nel giudizi. Ogni volta come la prima volta. Perché la partita secca ha un valore eterno. Lei, sempre fissata nell’ultima riga. C’è sempre una pagina da voltare dopo la partita secca. Anche quando non è una finale.
Banale ma utile ribadire che questa Juventus, segnata dall’avvento di Andrea Agnelli e Beppe Marotta, dai suggestivi silenzi di Fabio Paratici, dall’insinuarsi di Pavel Nedved, dal battesimo dello Juventus Stadium e poi dal congedo di Alessandro Del Piero, dall’imprinting di Antonio Conte, dalla BBC, dalla terza carismatica giovinezza di Gigi Buffon e dallo scaltro modo di navigare di Massimiliano Allegri, ecco, che questa Juventus è dentro un romanzo mai scritto prima con un finale sconosciuto e con ogni probabilità anch’esso mai scritto prima.
Sarà un romanzo senza tempo? Come accade sempre nel calcio, sarà un romanzo postumo. Almeno per quanto riguarda la categoria finale che ne indicherà il giusto scaffale nella biblioteca del football mondiale. Perché, con due nuove finali di Champions League in tre anni, qualunque fosse l’avversario a meno che gli altri non scendessero in campo in dodici, la proporzione è giusto che venga un giorno misurata su scala internazionale. E allora… allora… la partita secca delle partite secche porterà dietro una trama tutta sua, che sembra scritta ma non lo sarà fin quando, appunto, il ciclo non sarà concluso.
Non è questione di chiudere gli occhi, di illudersi, di turarsi il naso e tapparsi le orecchie in attesa di qualcosa di innominabile. Si tratta solo, in questo caso, di guardarsi appena indietro. Le partite secche si preparano da sole, eppure sono le partite in cui la mano dell’allenatore (la mano artistica più che quella tattica) conta di più. E’ questo paradosso a rendere discutibili e mai univoci i giudizi sul calcio. E’ il motivo assoluto, meglio rappresentato, del perché appunto si giudica e si discute, pur vivendolo da fuori. Il saldo (da partita secca) di Conte come di Allegri (però Allegri ha partecipato a quelle due cose ENORMI) è il tatuaggio che lo juventino vorrebbe cancellare. Serve un’invenzione, un brevetto, qualcosa più che un capolavoro, oggi a cavallo tra giugno e luglio del 2017. O serve soltanto guardare alla scalata di questa gestione, sempre al rialzo nonostante tutto? Ci si sente combattuti. Ma ci si sente anche rappresentati. Ogni estate una lezione.
Partite secche? Con Allegri si partì da Doha (gettata al vento contro Higuain) e si godette con Matri ai supplementari; bastò una minipartita nella partita a Berlino per spaventare il Barcellona, ma non bastò per sentirsi totalmente all’altezza; si ripartì con Manduzkic e Dybala in quattro minuti a Shanghai (partita al rallentatore); si salutò Morata in un nuovo episodio ai supplementari e concedemmo il fianco nella rivincita virtuale (ancora a Doha, giocando solo fino al vantaggio); si passa a Roma, punti nell’orgoglio sullo stesso campo tre giorni prima, sull’asse Alex Sandro/Dani Alves/Bonucci (fanno impressioni questi nomi insieme, eh?); si è finito, fin qui, con il parziale al passivo di 16 tiri a 1 del secondo tempo di Cardiff.
Le partite secche sono questa giostra qua, con il senso che si portano dietro. Sono le partite che rendono irrazionale ma non colpevole il tifoso che chiede ancora quel gradino in più. L’unico lato razionale lo si può cogliere, per una volta, da Fabio Capello (per chi scrive sarebbe realmente la prima volta): “Il problema del calcio italiano è che si gioca per un tempo”. Senza indicare quale, come e perché, Capello potrebbe averci illuminati: l’assestamento non minimo al quale è chiamato Allegri e chiunque dopo di lui tra uno, due o tre anni, sarà quello di spostare (nelle partite secche) il concetto di partita nella partita. Le avversarie, non solo europee, interpretano queste gare come un treno senza freni. Come se la si volesse vincere esattamente come la si vuol vincere. A costo di perderla. Senza se e senza ma. Senza architetture. Senza episodi.
Pensateci: il genio di Zidane, o il non-genio, è stato quello di andare avanti lungo la strada maestra. Non ci sono momenti, c’è una sola grande cosa che si chiama partita secca. Non è meglio di Allegri, il campione francese. E’ che da queste cose ci è passato molto tempo prima…
Luca Momblano.